Racconti nella Rete 2009 “E i violenti se ne impadroniscono” di Andrea Bonvicini
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2009Sulla destra la comune. La scena è spoglia, chiusa sul fondo da un lungo muro grigio. Il palcoscenico è percorso da una passerella più alta rispetto alla scena. Su di essa si muoverà solo il protagonista. I Consiglieri, che potranno essere vestiti con mantelli antichi sulle spalle, se ne terranno lontani e guarderanno da sotto il Tiranno.
Primo Consigliere (PC): Certo è strano.
Secondo Consigliere (SC): Sono giorni ormai che è così.
Terzo Consigliere (TC): Dobbiamo agire. Deve tornare a comandare.
Tacciono, meditabondi.
SC: Ma non vuole, non vuole più.
Entra il Tiranno camminando lento. Indossa una divisa militare rigida, decorata di galloni e mostrine. Possente nel corpo e nel portamento, tiene però sulla testa, cacciata indietro, una berretta da notte. Cammina con le mani intrecciate dietro la schiena e non sembra notare i Consiglieri. Chinandosi su una scrivania smuove qualche carta, senza soffermarsi su nessuna. Torna indietro trascinando i piedi e si siede su un’ottomana al centro. Abbassa la testa e la tiene fra le mani appoggiando i gomiti sulle ginocchia.
PC [esitante]: Ave, Cesare.
Scuote la testa e cerca di mettere a fuoco i volti dei Consiglieri.
Il Tiranno (T) [quasi dolce]: Che vuoi?
PC è spiazzato. Gli subentra TC, venendo avanti con un fascio di carte.
TC: Ci sono i decreti da firmare. Le posizioni dei ribelli da vagliare.
T: E se firmo cambierà qualcosa?
TC [spazientito, ma pentendosene subito]: Ma non si può continuare così.
T: Ah no? perché no?
TC: La nazione, la nazione ha bisogno della tua guida.
T: E se, invece, io mi fossi stancato di guidarla? Se solo volessi, per una volta, occuparmi di me stesso?
TC [enfatico]: Periremmo.
T: Sic transit gloria mundi.
Il Terzo Consigliere allarga le braccia e guarda gli altri, smarrito.
SC: Che ti accade, Cesare? Ti ha stancato così tanto comandare questo popolo ribelle e ingrato?
T: Tu solo mi capisci.
SC: Eppure abbiamo bisogno della tua guida. Delle tue scelte.
T [esasperato]: Non voglio più scegliere! Non voglio comandare. Voglio che tutto vada per la sua strada, voglio oziare, dormire, liberarmi dal peso della fatica. Decisioni, vita, morte: a chi giova? Lasciatemi!
TC [si intromette]: Ma la tua opera non può essere lasciata incompiuta! Solo tu puoi portarla avanti.
SC [con un braccio scosta TC]: Ci sarà qualcosa che non ti lascia indifferente, Cesare.
T: Non credo.
SC: Tutto dunque è uguale. Il bene, il male, la vittoria e la caduta. Niente, niente di tutto questo ti fa più né caldo né freddo.
T [divertito]: Tiepido. Tiepidino. Brodino riscaldato. Mi va bene così. Sono stanco, impigrito. Non voglio scegliere più nulla.
SC: Sii serio, Cesare.
T: Serio? E di che cosa è davvero serio occuparsi? Dimmelo, se lo sai.
TC: Torna a scegliere per noi, Cesare. [Declamatorio] Noi siamo pronti a tutto per te!
T, come preso da un’improvvisa intuizione, balza giù dalla passerella. I Consiglieri si scostano inorriditi. T fa in tempo a prendere TC per le spalle. Passeggia con lui tenendolo stretto accanto a sé, sussurrandogli all’orecchio.
T: Cherea, se io ti chiedessi di portarmi sulla luna, lo faresti?
TC: Come mi hai chiamato, Cesare?
T [infidamente gentile]: Lascia stare. Rispondi.
TC: Portarti sulla luna, [si accende nel lampo di una nuova grande impresa], Cesare, sì, lo faremmo, il popolo farà questo per te!
T: Sì, sì, lo fareste. Ma il popolo lasciamolo sulla terra, andiamo solo io e te sulla luna.
TC: Sì, Cesare, con te!
T [perfido]: E arrivati lì, io ti chiederei di tagliarti le vene, o ti darei un calcio in pancia, e finalmente sarei solo.
Si issa a fatica sulla passerella. Si sdraia sull’ottomana. Sorride, di un sorriso amaro. I Consiglieri si guardano smarriti. Si sente un canto, lontano, di un coro, o forse di una folla. SC corre come per chiudere la porta, ma si ferma quando T parla.
T: Che cos’è? Che cosa cantano?
Esitano. La voce è più chiara e forte, ora: “Wir sind das Volk, wir sind das Volk”.
T: Li sentite. E dunque? Lasciamo che sia. Che vogliono? Diamoglielo. Concediamoglielo. Oppure no, per me è uguale. Certo non voglio scegliere io.
PC: Ma tu sei il popolo.
T: Tu credi?
PC: Il popolo non è capace di scegliere, non da solo.
T [gli fa il verso, con voce femminina]: Il popolo, il popolo, il popolo… [con la sua voce] Bada che mi stai annoiando, e non fai che peggiorare le cose.
SC: I tuoi uomini, i tuoi uomini, allora: attendono i tuoi comandi.
T: Gli uomini. Gli uomini muoiono e non…
Resta sospeso. Tra le carte sulla scrivania trova un disco in vinile. Lo mostra. Gli occhi hanno un bagliore.
T: L’avete fatta venire?
PC: È qui fuori.
T [eccitato]: Che entri, che entri!
PC esce dalla comune e riporta con sé una donna dai capelli neri, raccolti semplicemente dietro la testa. Gli occhi sono profondi. Veste un abito scuro su scarpe rotte.
PC: La compagna Marija.
T [affabile, la invita con un gesto a salire verso la scrivania, forse c’è già una familiarità tra loro]: Vieni Marija.
Lei resta dov’è, anche se PC la sospinge.
T: Ho ascoltato il tuo disco alla radio ieri sera. Sublime! Me lo sono fatto portare qui subito. Concerto per pianoforte e orchestra di Mozart, K488, giusto?
Marija (M): Mozart sì. Ma ti hanno mentito. [I Consiglieri si agitano]. Quel concerto era in diretta. E quando ci hanno chiesto di inciderlo, due direttori di orchestra si sono defilati. Li dovevi vedere. Costernati. Impauriti. Il terzo l’hanno fatto arrivare di fretta in aereo. Dirigeva tremando come una foglia.
T: Così tanto mi temono?
M: Temono la tua ira e la tua superbia.
T: Attenta a come parli.
M: Attento tu a come vivi.
I Consiglieri sobbalzano a quelle parole. Il Tiranno no.
T: Non sai che posso fare di te quello che voglio?
M: Tutti sanno questo di te, che sei un violento: ma non sai verso cosa dirigere la tua violenza.
T [guata i Consiglieri]: Temevano il mio troppo d’ira. Ora temono che abbia troppo poco d’ira.
M: Temono ciascuno dei tuoi vizi.
T: Ho esplorato ogni vizio e ogni virtù e nessuna mi ha lasciato qualcosa. Mi resta l’ignavia, l’indecisione.
Tacciono. Vorrebbe parlarle ancora ma capisce che non avrà soddisfazione.
T [sospira]: Marija, ho disposto che tu abbia ventimila denari perché possa continuare a suonare così.
M: Io suonerò. Ma non prenderò il tuo denaro. Pregherò giorno e notte che Dio perdoni i tuoi grandi peccati. È misericordioso, ti perdonerà quando morirai. I soldi invece li darò alla chiesa di San Dismas per restaurarla.
I Consiglieri vociano scandalizzati. T alza una mano e li zittisce.
T: Chiese? Ci sono ancora chiese? [di sottecchi ai Consiglieri] Avevo dato ordine che fossero abbattute tutte. Incapaci.
M: Non più molte ormai. San Dismas è quasi diroccata: fai cosa buona a ricostruirla, Cesare.
T [scettico]: E’ da vedere. E contro chi avrei peccato?
M: Contro il nostro popolo.
T [quasi sovrappensiero]: Anche tu straparli di popolo. Il mio popolo mi sta vomitando. Mi ha trovato tiepido, nulla gli basta. Mi sta vomitando e io glielo lascerò fare. [Rivolto a M, la congeda con un gesto] Va’ e fai quello che devi.
M esce. Sulla soglia si volge.
M: Abbi cura di te. Cerca d’essere tenero, una volta.
T non pare sentirla. Si porta alla scrivania, carica il grammofono e suona il disco..
TC [impugna un taccuino]: Che vuoi che si faccia di lei?
T: Datele il suo denaro e vedete che sia usato come desidera.
Consiglieri [sovrapponendosi]: Ma Cesare? Ma come? La lasci andare?
T [spossato]: Questo oggi l’ho deciso e per il momento non deciderò null’altro. Andate.
Escono, guardando indietro atterriti.
T [da solo]: Sono stanco, ho la nausea. Non voglio più scegliere. Non voglio più dire cosa è bene e cosa male. Forse mi ricorderanno perché oggi non ho deciso nulla. E sarà bene così. Ora voglio solo ascoltare musica.
La luce lo inquadra dal proscenio, dal basso verso l’alto, proiettando una figura gigantesca sul muro di fondo. Si sdraia sull’ottomana e respira affannosamente. Si alza per versarsi un bicchiere d’acqua. Si sdraia di nuovo, pesantemente, slacciando il colletto della divisa.
T [grida]: Che sarà di me, che sarà di me?
Un braccio penzola inerte. L’ombra sullo sfondo del muro pare quello di un immenso animale ferito che si accascia. Si sente il rumore come di un crollo, ma potrebbe essere lo schianto delle ossa della bestia che si frangono sotto il peso della carne inerme.
Cala la tela rossa dai lati, si incastra nell’ottomana che è troppo avanti sulla scena. Rimane aperta una feritoia, una spaccatura nel sipario, come una ferita tra lembi rossi di carne.
Sale il grido lontano della folla: “Wir sind das Volk”. Ma sale di più l’incalzare del pianoforte.
Esce dalla tela SC che spinge dentro l’ottomana.
[Fine]
* “Wir sind das Volk” (“Noi siamo il popolo”) fu il canto usato durante le manifestazioni del 1989
nei giorni che precedettero la caduta del Muro di Berlino.