Premio Racconti nella Rete 2013 “L’appuntamento” (Quanto ci hai messo, Flor?) di Nicoletta Manetti
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2013Dalla finestra aperta sulla notte, sento la pioggia che sciacqua i vicoli bianchi di Bahia, raffreddando la febbre del carnevale. L’euforia della Tequila e il ritmo sfrenato dei samba, muovono troppo le lingue, oltre alle gambe.
Proprio una di queste notti di baldoria mi hai lasciato, Vadinho, gonfio di cachaca, l’unica volta che in una rissa non ti sei rialzato trionfante. Quella volta sei rimasto a terra e i piedi che ti calpestavano continuavano il loro ritmo di samba.
Ma non ti ho perduto, marito mio, sei dentro di me più di quando eri su questa terra. Tu sei tornato a rallegrare le mie notti, in questo letto che diventò all’improvviso troppo grande.
Da dieci sere a questa parte compari puntuale, steso sulla coperta di cotone: e allora è come se io bevessi molti sorsi della tua cachaca. Sì, tu mi ubriachi, con la bocca morbida, maestra di baci e di parole. E pensare che qualcuno decise un giorno, non so più chi e quando, che sono astemia.
Mai più amori astemi, dopo di te.
Le tue mani non sono due, le tue gambe sono infinite, come la spiaggia che laggiù già comincia a sbiancare sotto la luna, dopo il temporale. La intravedo quando il vento gonfia la garza bianca della tenda.
Sono dieci notti che passo insonni con te. Non andartene mai più, Vadinho.
La testa che cade mi sveglia. Senza aprire gli occhi, allungo la mano a spegnere il lume e il libro scivola sulla moquette.
La sveglia cinguetta le sette: la mano brancola sul comodino per zittirla.
E’ solo mercoledì ed è anche una giornataccia. Sento chiudersi la porta: Riccardo stamani parte per un convegno, non l’ho neppure sentito alzarsi.
Butto giù dal letto i piedi, il cane li lecca mentre cercano le pantofole, mi strascico verso il bagno. Sotto il getto d’acqua calda comincio a mettermi in contatto col mondo.
Mi affaccio nella stanza buia di Camilla: – E’ l’ora! – e vado in cucina. Metto il caffè sul fuoco, apro il freezer: Matteo ci sarà a pranzo? Camilla si è rimessa a dieta, niente pasta. Tiro fuori i petti di pollo di ghiaccio rosato.
La caffettiera brontola, il latte schiuma di fuori. Mi siedo davanti alla tazza, Bruto mi salta in braccio, ma stamani non c’è tempo per biscotti e marmellata. Alle nove devo già essere in tribunale: si chiude, finalmente, una separazione avvelenata.
Io e Riccardo siamo ancora insieme, forse solo per inerzia o mancanza di coraggio. Quando inizio a dare voce ai miei pensieri: – Cosa c’è ora?- risponde, alzando gli occhi dal giornale. Allora sento la fatica e l’impotenza: come spingere un muro che non si sposta. E ripiombano chilometri di silenzio tra due luci azzurre: il suo computer nello studio e la mia televisione davanti al letto. La sua cupezza è contagiosa.
Oddio è tardi e sto qui a rimuginare.
Camilla ancora non si è alzata: – Forza, che fai tardi!
Non comprendo se la voce che arriva dal profondo è la sua o quella dell’orso accanto a lei – Si entra alla seconda ora, te l’avevo detto…
Corro a vestirmi mentre dalla cucina sento il rumore della ciotola di Bruto già vuota e che lui sospinge con la lingua.
Dai, si va fuori. Lui corre nell’ingresso per il solito rito: due giravolte di gioia, poi si stende sul tappeto e mi offre la pancia rosa mentre gli metto il guinzaglio.
Grazie al cielo non è un camminatore: gli basta una decina di alzate di zampa, poi si accoccola guardingo mentre io aspetto col sacchetto in mano.
Torniamo e tutto ancora tace in modo desolante. Matteo è rientrato tardissimo stanotte, chissà a che ora si alzerà.
Le otto e un quarto. Prendo la borsa e, appena in strada, non ricordo dove ho messo la macchina. Ma dove l’ho cacciata stavolta?
Mi viene in mente che è mercoledì, c’è stata la pulizia della strada e l’unico posto che ieri sera ho trovato è a due traverse oltre la cerchia dei viali.
Ecco l’ansia che arriva.
Accelero il passo: alla Signora Cavini ho dato appuntamento a dieci alle nove all’ingresso del Tribunale. Agitata com’è, poveretta, se ritardo anche solo cinque minuti… Ecco la macchina, butto la borsa sul sedile di dietro e mi ci infilo.
Cercando un parcheggio, passo davanti al Tribunale e vedo già la cliente seduta sul muretto davanti al metal-detector. Arrivo di corsa, le tendo la mano: è emozionata come una scolaretta il primo giorno di scuola. E’ sempre così: è una dirigente d’industria, una donna d’affari, eppure mi dice che stanotte non ha chiuso occhio. Mentre parliamo infiliamo la scala G, ascensore quinto piano. Lo chiamo, da due persone in attesa diventiamo quattro poi sette, poi dieci: – Si… aspetta e spera Niccolini, tanto per cambiare non funziona…!-. Un collega, ridendo, mi dà una pacca sulla spalla.
Iniziamo l’arrampicata. Eccoci, esclama la cliente al pianerottolo col cartello 5: eh no, signora, troppo facile, lei crede che mettano il cartello 5 al quinto piano? Ma no! Qui siamo all’americana: il terreno è il numero 1, e così via, noi dobbiamo andare al quinto, quindi al sei! Forza, ultimo sforzo.
Imbocchiamo uno dei due corridoi paralleli e, in fondo, già vedo una piccola folla.
– Bisogna armarsi di pazienza, saremmo per le nove ma bisogna vedere quanti ne abbiamo davanti!
In quattro o cinque teste appiccichiamo il naso al ruolo appeso fuori della porta.
Ca…/Be… R.G. n°2751/12. Siamo la 9.
– Ha già iniziato, chi c’è dentro?
Una collega accasciata su una sedia scuote la testa:
– Macché, è arrivato poi è uscito. Sarà andato a prendere il caffè.
La signora mi bisbiglia complice all’orecchio: – Sono arrivati…
Vedo la collega col marito della signora, impeccabile, abbronzato, due quotidiani sotto il braccio. Appena arrivato guarda l’orologio, come se di lì a pochi minuti dovesse correre a decidere le sorti della clinica che dirige. Ci sorride con sufficienza, gli porgo la mano. Tra loro un ‘ciao’ striminzito.
Il giudice rientra nella stanza con un sorriso che non guarda nessuno. Il marito si allontana per fare una telefonata, è la seconda da quando è arrivato.
La signora mi fa un sorrisino sarcastico. Il marito si mette a leggere il giornale, così non spreca tempo.
Come Dio vuole la catena di montaggio procede veloce, la porta inghiotte e risputa fuori le otto coppie prima di noi. Eccoci.
Siamo seduti davanti al Presidente.
Non ci sono proprio possibilità di conciliazione?
Entrambi scuotono la testa senza guardarsi.
Il Presidente legge il verbale, i coniugi firmano, lui con la sua Montblanc.
Fuori della porta, a match finito, ci salutiamo dandoci la mano. Si riscende o meglio accompagno giù la signora, perché dovrò risalire in cancelleria.
E’ più tranquilla? Si, ma sono sempre fallimenti, dice, e non sembra proprio una dirigente d’azienda adesso che stringe la borsetta ed è arrossata in viso.
Non c’è dubbio, sono d’accordo con lei. E per l’ennesima volta mi chiedo se non ho sbagliato anche mestiere.
Ci salutiamo. Mi fermo un attimo al piano terreno alla coda delle notifiche, devo ritirare un atto, ma no, troppo tardi è già finita la distribuzione dei numeri. Ok, torno di sopra in cancelleria. Arranco al quarto piano, che è il cinque. Infilo la porta dell’ufficio. Lo cerco da sola il fascicolo? Si, faccia da sé, grugnisce una voce non capisco da dove. In un quarto d’ora accovacciata per terra, me la cavo. Basta, è l’una, vado.
Riprendo la macchina e cerco parcheggio vicino allo studio.
Entro nel solito bar: dottorini ingiacchettati e colleghe tacco 12 si concedono insalata e acqua minerale. Io ho fame: mi faccio le orecchiette e un bicchiere di vino bianco. In realtà sono astemia: mio marito dice che non c’è niente di peggio di una donna che beve il vino. Ma ho scoperto che invece mi piace un bicchiere quando ceno. E oggi, non so perché, ne ho voglia anche a pranzo. Direi che allora non sono astemia.
In studio mi attende una memoria che scade venerdì. Butto giù la prima versione, la rileggo, non mi convince, la riscrivo due o tre volte.
Squilla il telefono: Camilla che non riesce a finire la versione di latino, mi aspetta.
Per oggi basta, chiudo il fascicolo. E poi comunque è tardi, stasera ho un appuntamento. Mi accorgo che sono l’ultima a uscire dallo studio: le stanze, la segreteria, la sala d’aspetto sono deserte. Spengo le luci una dopo l’altra e chiudo la porta dietro di me.
A casa mi accoglie il cane sdraiandosi sul dorso. La coda batte convulsa sul tappeto, poi corre via e torna col peluche in bocca. Le luci sono tutte accese.
Camilla spalanca la porta della camera. Il tempo di urlare qualcosa di incomprensibile al fratello e la risbatte, tanto forte che cade un pezzetto di intonaco.
Tanto per cambiare hanno litigato.
Dalla camera di Matteo, solo odore di sigaretta e musica assordante: sarà questo il motivo del contendere.
In cucina, sul tavolo, una Coca vuota, carte di merendine, due tazzine di caffè.
Mentre riempio d’acqua la pentola, decido di stare calma.Verso l’olio nella padella e mi chiedo quanto manca all’apparizione di Camilla.
Eccola, sulla soglia di cucina, non capisco se bellicosa o sconfortata: i capelli sono una polpetta infilzata da una matita, addosso ha il mio maglione nuovo, neanche rinnovato. A tutto c’è un limite.
– Ma che ti salta in mente: il mio maglione nuovo!?
Alza le spalle: – Allora mi aiuti?
Non aspetta nemmeno la risposta e piazza sul tavolo vocabolario, libro e quaderno.
– E’ troppo difficile. Non mi riesce.
Perché a quest’ora? Sono le otto di sera.
Appoggio sul piano di marmo petti di pollo e sottilette e mi siedo accanto a lei.
Allora…
– Perifrastica passiva. L’hai capita?
– Non c’ero quando l’ha spiegata.
Eccoci. Tutte le assenze che fai.
– Dai, prendi il libro di teoria.
Si affaccia Matteo con la cuffia dell’i-phone sugli orecchi.
– Mà , io esco.
– Ma tutte le sere? Hai l’esame tra due giorni! Non ceni?
– NO!
E a quest’ora lo dici? Dove vai? A che ora torni? Non devo essere ossessiva.
– Non fare tardi!
Mi risponde il rumore della porta che sbatte e il cane che abbaia.
Alle nove e mezzo, bene o male, abbiamo sistemato Tacito.
– Io mi faccio una pizza – dice Camilla tirando fuori dal freezer una quattro stagioni.
Io non ho più fame. Ripongo nel frigo pollo e sottilette.
Bruto mi guarda con occhi rassegnati: è vero, mi sono dimenticata!
Giù in strada respiro; l’aria è piacevole. Nel cielo la luna è piena, bianca e attonita: sembra che mi guardi e mi compatisca, lei, così luminosa e tranquilla.
Bruto abbaia a un bassotto dall’altra parte della strada.
Dai andiamo, c’è qualcuno che mi aspetta.
Dovevo andare al cinema con le amiche stasera, ma non ne ho voglia, ho altro da fare.
Mi insapono sotto la doccia: l’aroma di zenzero del bagnoschiuma mi accompagna in camera, ancora al buio indosso la camicia da notte e afferro il libro.
Appena accendo il lume sul comodino mi appare la sua sagoma allungata sul letto, silenziosa come un gatto.
Ha solo un asciugamano attorno ai fianchi, il petto è grande e caramellato, pronto ad accogliermi. Fischietta un ritmo di samba lento che fa muovere i miei fianchi e le mie gambe, le gambe più belle di Bahia, mi dice lo sguardo di Vadinho.
– Quanto ci hai messo, Dona Flor?
Perché il sogno diventa sogno solo quando ti svegli, ma fino ad allora, il sogno è realtà. Dunque mi chiedo:perché svegliarsi. Mi è piaciuto molto.
Anche io a volte mi chiedo la stessa cosa… poi a volte la realtà e il sogno convivono, si confondono. Grazie Flaminia!