Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2013 “Il primo furto non si scorda mai” di Fabrizio Ibba

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2013

La luna piena vegliava sul mondo già da parecchio quando il buio arrivò, posandosi sulla terra e sulle cose degli uomini con la stessa delicatezza delle dita di un ladro.
Il vento soffiava nervosamente da settentrione e lungo le strade deserte gli alberi si piegavano mestamente alla sua volontà, come donne di bordello che si lasciano spogliare da qualunque mano.
Un ragazzo attraversò con rapidità malandrina i pochi metri di giardino che separavano la casa dalla strada, nell’imprecisabile periferia di una cittadina dove la pesca alle aringhe è una malattia ereditaria.
La tensione della prima volta e l’odore dell’erba bagnata gli appesantivano il respiro.
Il cuore gli batteva forte in mille parti del corpo, all’infuori di dove avrebbe dovuto. Se lo sentiva in gola, nelle tempie, nel ventre, nell’inguine.
Una premonizione, forse, se credete ai déjà-vu ed ai ricorsi della storia.
Attraversò il prato, ridotto ormai ad una palude, e fu al riparo sotto il portico.
La sedia a dondolo era ancora nel punto da cui la vecchia soleva guardare i tramonti, cullandosi in attesa della morte, che infatti proprio lì la trovò.
Passò un dito sulla polvere di anni formando strani ideogrammi che magari in una biblioteca cabalista avrebbero pure trovato un loro significato.
Il ladruncolo poggiò la sacca sulla soglia e inspirò una, due , tre volte.
Adesso era veramente pronto per il suo primo furto. E se anche non fosse riuscito a rubare, perdio, non sarebbe più salito su un peschereccio.
Da certe decisioni non si torna indietro, il suo futuro sarebbe stato lontano dal mare.
Afferrò con decisione la maniglia.
E subito la lasciò.
Si allontanò di un passo, coi peli della nuca che s’impennavano.
Una specie di mormorio indecifrabile si era sovrapposto al monotono soliloquio della pioggia.
Non era solo.
Con cautela sporse la testa oltre l’angolo della casa, ma non vide nessuno.
Allora, sempre con l’orecchio ben teso, uscì dal portico e s’addentrò nel vialetto laterale invaso dalle malerbe e si avvicinò ad una finestra.
Adesso riconosceva una specie di melodia gitana, attenuata dallo spesso legno dei muri ben costruiti.
Una ninna nanna, forse.
La pioggia lo tastava impudica incollandogli i riccioli scuri sulla fronte e sugli occhi.
Le tende erano tirate, ma una candela ci disegnava sopra delle sagome distorte e tremolanti che le facevano sembrare il mirabolante spettacolo della più grande lanterna magica mai costruita.
Di quelle sagome, almeno una apparteneva ad una donna che doveva essere piuttosto bella, di una sana magrezza contaminata da carnosità ben riposte.
Un ladro inesperto cade facilmente vittima della curiosità, come il topolino goloso.
Chi poteva essere quella donna?
Tutti in città sapevano che la casa era disabitata da quando la vecchia moglie del bottaio era morta di crepacuore.
E lui non si trovava proprio su quel portico ad ascoltare le favole con i suoi piccoli amici di strada, quando il fattore, di ritorno dalle cantine del conte, li interruppe per informare la vecchia della morte del marito, andato con lui a riparare tini e rimasto ucciso dalle esalazioni del mosto in fermentazione?
Si grattò il capo, ormai fradicio.
Che ci faceva una donna, una donna giovane, in quella casa?
Forse il vecchio bottaio aveva parenti lontani di cui non gli era giunta notizia?
Passò un dito lungo le assi della parete credendo di trovare il solito sfagno con cui sono zaffate le fessure delle isbe, invece il bottaio doveva essersela passata meglio di quanto lui immaginasse se poteva permettersi un più pregiato stucco.
Estrasse il temperino dalla tasca, quello con cui pensava di scassinare le serrature, e cominciò a grattare finché una lama di luce s’incontrò con quella del suo coltello generando una fugace progenie di scintillii.
Quando il foro fu abbastanza grande avvicinò l’occhio e spiò l’interno della casa.
Vestiti, stracci da zingara erano sparpagliati sull’assito, la biancheria intima più discretamente appartata in un angolo.
Un fermaglio per i capelli e un vecchio scialle trapunto d’oro erano riposti su una mensola con maggiore riguardo, ma non era comunque nulla che sarebbe valso la pena rubare.
Minuti zoccoli da olandesina facevano coppia ai piedi di un grande catino colmo d’acqua fumante.
Dentro la vasca c’era un donna, immersa fino alla vita nella schiuma profumata, le braccia mollemente adagiate alle sponde di smalto.
Leggeva un foglio ingiallito dal vapore, come una attrice che studia la parte.
Un familiare odore di liscivia gli riscaldava le narici.
Una associazione di pensieri gli rimandò alla mente Irina, la prostituta, forse perché era l’unica altra donna che avesse mai visto svestita.
Ma la donna nella vasca non era Irina, e non era neanche una come lei.
Era invece una di quelle donne da cui qualunque uomo vorrebbe essere guardato, alla quale qualunque uomo avrebbe mendicato una parola, una qualsiasi, seppure per sentirsi cortesemente dire di levarsi di torno.
Solo che muovesse quelle labbra intagliate nell’idea del rosso.
Rimase a lungo a guardarla in silenzio, ma, per quanto possa apparire strano, il giovane ladro non fu attratto tanto dalle sue pur meritevoli nudità quanto dall’espressione serena del viso.
Vi riconobbe una felicità di cui lui non sarebbe mai riuscito a fare bottino, una felicità che non può in alcun modo rimanere impigliata nelle reti durante le battute di pesca nel Mare del Nord.
Il giovane si alzò dal suo nascondiglio stirandosi le membra intorpidite e rivolse lo sguardo al cielo.
Aveva smesso di piovere ed il vento si era chetato.
Niente oro, ladruncolo.
Stanotte avrebbe rubato soltanto intimità.
-Pazienza.- fece spallucce.
In cielo, uno squarcio fra le nubi aveva permesso alla luna piena di rendersi visibile, e gli sembrò tanto simile al foro nel legno attraverso il quale aveva finora spiato la vita di quella donna senza nome. Pensò, in un raro accesso di poesia, che la luna fosse un foro fatto nel tessuto del cielo, attraverso il quale gli dèi, anche loro avranno un temperino, possono scrutare il mondo degli uomini senza spaventarli con la loro terribile presenza.
Certe volte l’umanità sembra un dono apprezzabile, a pensarci bene.
Pregò che Dio esaudisse il suo desiderio, un futuro lontano dalle aringhe, dal loro puzzo e dai loro stupidi occhi vacui.
Una preghiera breve.
Il ladruncolo aveva fretta di tornare ad ammirare le grazie della sconosciuta, una bella Otero discesa da una locandina, il cui bagno sembrava prolungarsi all’inverosimile solo per allietare i suoi sensi.
Lunghe gambe di quell’avorio che non avrebbe sfigurato a un cancan del Moulin Rouge, seni perfetti che aspettavano solo delle mani abili ad accoglierli e misurarli, braccia sottili d’una eleganza possibile solo nell’ispirazione d’un impressionista o in una sconveniente fantasia notturna.
Oh, se avesse avuto a disposizione uno specchio!
Il giovane ladro avrebbe potuto vedere il proprio viso imporporarsi dell’adolescenza più pura e gli occhi luccicare di quell’acerba meraviglia che troppo presto sfiorisce, sostituita da frutti più maturi e volgari.
Avrebbe visto i sintomi della felicità contagiargli le labbra, e per una volta almeno non avrebbe dovuto invidiarli a nessuno.
E, fatto non trascurabile, avrebbe visto l’uomo avanzare dietro di lui, avrebbe visto la sua giacchetta tutta lustrini.
Un marito? Un amante? Un fratello?
E avrebbe potuto fuggire dalla sua rabbia e dalla sua accetta.
Ma invece no! Non si specchiava sui vetri appannati della finestra, tutta la sua attenzione era risucchiata attraverso uno spioncino da guardone.
Le forma, la grazia, la passione.
L’accetta dell’uomo lo colpì alla nuca, proprio tra capo e collo, improvvisa e felina come la sortita di un ladro.
Il ragazzo non emise un gemito, la sua espressione rotolò immutata poco lontano.
Il corpo si accasciò in una pozzanghera con le braccia aperte in un abbraccio alla terra, il suo futuro lontano dal mare come era stato suo desiderio.
Schizzi di fango e di sangue si depositarono sulla fronte dell’assassino come un bellicoso segno tribale.
Una pozza rossa si allargava ai suoi piedi.
Fumava.
-Per certe donne si può perdere la testa, non è vero, ragazzo mio?- disse l’assassino sedendosi sulla catasta di giornali, quella che il cartapestaio non era mai venuto a ritirare, una volta che il vecchio bottaio aveva tirato le cuoia fra i vini del conte.
Posò la testa mozzata sul dondolo, vicino a lui, così il giovane ladro poté nuovamente guardare il cielo, tra un beccheggio e l’altro.
La faccia sempre sorridente della luna piena risplendeva in mezzo al cielo. Sembrava la luce di una serranda alzata, lo spiffero di un’altra serratura da cui spiare la vita degli altri, o magari la cangiante insegna di una vineria piena di stelle, stelle ubriache.
-Se Dio c’è, magari non serve ai tavoli, ma prepara coppe di champagne.- disse.
E deve avere uno strano senso dell’umorismo.
Un pessimo senso dell’umorismo.

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3 commenti »

  1. Grande proprietà di linguaggio, e belle estensioni descrittive dell’ambiente, similitudini originali, in bocca al lupo M

  2. Grazie! Sono veramente contento che ti sia piaciuto. Io sono sempre preoccupato di scrivere in maniera eccessivamente verbosa, barocca…

  3. Fabrizio, ognuno ha un suo stile, o lo sta cercando o invece reclama forza e costanza, ma va sempre rispettato, e accolto, senza contare che se non si fosse verbosi che scrittori si srarebbe? Poi sul barocco romanico o gotico io non posso che gioire, e rituffarmi nella vecchia mia amata storia dell’arte, che come sai è la sola vera storia che andrebbe scritta, e considerata, auguri M

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