Racconti nella Rete 2009 “Parole nella sabbia” di Andrea Bonvicini
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2009Tra le molte parole di cui mi sono pentito mi torna in mente un episodio che ho a lungo rimosso. Non me ne ero pentito, in verità. Come al solito me lo ero nascosto nel suo vero significato, che ora però è palese.
Avevo deciso di lasciar esprimere tutto il mio indubbio fascino maschile. Da poco avevo lasciato famiglia e lavoro e cercavo (senza ammetterlo) certezze.
L’avevo notata, giovane e bella, in un piano-bar della cittadina di mare e vacanze in cui mi ero rintanato. Aveva (il bar) spazi ampi, vetri e cornici sghembe alle pareti, ilarità sulle bocche e alcol sui tavoli. Aveva (lei) tutto quello che rende desiderabile una donna per un cinquantenne. La giovinezza, il corpo e la danza, gli occhi ridenti e una proterva certezza di sé come solo una donna può: una terra promessa da esplorare e in cui perdersi.
Arrivava da sola, ma mai l’avevo vista andare via così come era venuta. Sceglieva sempre ragazzi giovani e prestanti, e questo costituiva già di per sé una sfida bastante. Tesi le trappole di cui disponevo: innanzitutto l’indifferenza e l’altezza della mia missione. Mi portavo da scrivere e mi immergevo in quello. Più che spesso, scrivendo dileggiavo quell’ambiente, ma gli altri non potevano saperlo e qualche volta si davano di gomito indicandomi con cenni del capo. Quantomeno ero un elemento del folklore del locale. I sottobicchieri di cartone contavano le bevande, ma davanti a me ce n’erano uno o al massimo due, troppo importante quello che avevo da scrivere per perder tempo a ordinare da bere.
A lungo non accadde nulla.
Un pomeriggio arrivai assai prima del solito e entrando nella penombra dell’ammezzato le finii quasi addosso. Mi stupii di vederla già lì e per questo esitai forse un poco. Con un gesto leggero mi invitò al suo tavolo ma io, con grande freddezza, guardando sopra di lei, passai oltre. Mentre passavo ogni atomo del mio corpo era costantemente orientato verso di lei come tanti aghi di bussole verso un polo magnetico, ma resistetti a volgere lo sguardo e mi sedetti lontano, dandole le spalle. La vidi però ballare, riflessa in uno degli specchi, e si muoveva sinuosa in un abito nero, corto, disegnato a larghe rose rosse. Le lasciava le spalle scoperte, tranne due fili sulle spalle, neri come i suoi capelli. Per il resto lei lo riempiva perfettamente. E ballando si sentiva il profumo delle rose.
Se ne andò presto, portandosi via un sudamericano col codino, pettorali in mostra dentro la camicia di raso nero e la vita sottile: “maledetta checca”, sibilai mentalmente.
Da quella volta mi parve prendere interesse per me e credetti di vederla chiedere informazioni su chi fossi, abbassandosi all’orecchio di qualche amica mentre mi guardava. Le ragazzine si giravano e rispondendole ridevano: lei no. Bene.
Aspettai che tornasse indossando quell’abito nero. Ci volle del tempo. Ma un altro pomeriggio (evidentemente quell’ora mi portava fortuna) la vidi entrare sfavillante col quelle rose rosse addosso. Stavolta ero io in vantaggio, seduto sotto il quadro migliore del locale e con un blocco di carta sulle ginocchia. Accennai con la mano al posto accanto a me e lei si sedette con tutta naturalezza, come se avessimo concordato l’appuntamento. Almeno dieci occhi di giovinastri mi guatavano e li vedeva anche lei.
– Sono stato sgradevole con lei, l’altro giorno, e me ne scuso – modulai nel tono più basso e maschile che conoscevo.
– No, lei ha cose certo più importanti da fare – mi rispose guardando le carte.
– Oh, questo…
– Posso darle del tu?
Mi concessi a quel tu. Fui brillante, loquace, timido e galante. Lottai con tutte le armi a mia disposizione, cioè solo le parole, per far fuori la concorrenza dei fustacchioni che avevano cominciato a farsi comunque avanti. Quando mi parve di essermi riportato almeno in pari le proposi una corsa fino al mare. Accettò subito e uscendo comperai una bottiglia di Jack Daniel’s (non che lo conoscessi o lo apprezzassi, ma aveva una bella forma squadrata e smussata a un tempo, e mi sembrava che la bottiglia sarebbe stata bene nella mano).
In breve fummo su una spiaggia che conoscevo (l’avevo scelta prima) chiusa a sinistra da rocce rosse adunche e vuota in quei giorni. Cominciava quasi a scendere la sera. Quando camminammo sulla sabbia e non fece cenno alcuno vedendomi portare un asciugamano e due bicchieri che avevo preparato in macchina, capii che era fatta.
Parlavamo seduti di faccia al mare e d’un tratto lei fu nuda: corse nell’acqua chiamandomi. Mi stavo chiedendo se mi fossi distratto, perché non ricordavo nemmeno il gesto con cui si era spogliata e lei era già al largo con balzi da delfino che mettevano in mostra le sue rotondità perfette. Attesi immobile, sarebbe tornata. Arrivò gocciolante qualche minuto dopo e stette davanti a me in tutta la sua bellezza dorata e nera. Si lasciò cadere e mi attirò a sé. Sapore salato e fresco. Umidità di mare e di donna. Si rannicchiò salendomi verso l’orecchio e mi sussurrò: “Vieni, vieni qui bambino”. Mi prese un rigor mortis e lei se ne avvide. La scostai con forza da me e la fissai. Mi ero alzato ma lei rimaneva seduta. Fremevo da capo a piedi, per la rabbia ma anche per il desiderio. Si alzò anch’essa e mi guardò quasi indifferente. Mentre si chinava a prendere il vestito la colpii in pieno volto con un manrovescio violento, girando i piedi sulla sabbia e facendo seguire il peso del corpo e della spalla. Il dorso della mano la colpì poco sopra la bocca e sentii le ossa della mano sbattere sui suoi denti con un colpo sonoro. Era caduta sulle ginocchia e si teneva con una mano il volto. “Stronza, stronza! Brutta stronza! – le urlai addosso – ma che cazzo vuoi da me?”
Mi guardava, ma non pareva impaurita. Ebbi l’istinto di colpirla ancora ed ancora, ma mi trattenni e le girai le spalle, furente risalii in fretta la costa di cespugli secchi. Partii di colpo e mentre la macchina correva lungo la strada le parole mi giravano dentro lungamente e con foga, come ingranaggi dentati, con rumore crescente. “Bambino. E che cazzo. Ma dove, e che?”
Guardai le mani strette convulse sul volante e notai il sangue sul grosso anello di oro e smalto che avevo alla mano destra. Dovevo averle spaccato il labbro, se non peggio. Quasi per associazione di idee sentii un forte odore alcolico accanto a me. Senza essermene nemmeno accorto dovevo aver riportato con me la bottiglia ed ora sbatteva qua e là sul tappetino davanti al sedile di destra: il liquore sgorgava fuori a fiotti. Mollai un’imprecazione e mi allungai di lato per cercare di afferrare la bottiglia. La macchina sbandò furiosamente e feci in tempo a alzare lo sguardo per vedere i pali di legno di una staccionata che si avventavano su di me sfondando il parabrezza. Schegge minute schizzarono ovunque e già frenavo alla disperata mentre la macchina si torceva su se stessa come viva. Ero fermo ora, per traverso ad un campo in una nube di polvere e foglie secche che stavano ritornando a terra. Non potevo scendere dalla portiera a sinistra, a pochi centimetri dal tronco di un albero. Scavalcai il cambio e spalancai l’altra porta, scalciando la bottiglia ormai semi vuota. Scesi e mi tremavano le gambe. Era un ulivo, un ulivo saraceno, grande, ossuto. Non ne avevo mai visto uno ma non poteva essere altro. Le fronde verdi e grigie dell’albero si aprivano in alto, quasi rade, ma il tronco era impressionante, storto e spettrale. Fasci di legno come ugole tese o immense cicatrici di ustioni si saldavano tra loro in forme di visi, arti e torsi che urlavano e gemevano per uscire dal legno: lottavano contro la forza tiranna che li aveva fusi in un’unica massa, bloccando nel legno gesti e parole ribelli. Il tempo, senza poter togliere la maledizione, aveva però scavato un’abside conica profonda e scura che apriva il tronco in due vele in direzione del mare. Mi ci accovacciai tenendomi le ginocchia con le braccia. Ci appoggiai la testa, aspettando di smetter di tremare. Il mare davanti a me era splendido e quella vastità riportò poco a poco le cose alla loro dimensione. Mi riscossi sentendo il motore ancora acceso. Uscii allora da quell’utero primigenio e ritornai alla macchina.
Mi toccò scardinare il parabrezza a colpi di cric e poi liberare sedili e cruscotto dai frammenti di vetro. Ci misi un po’ e nel farlo una scheggia acuta mi si infilò sotto l’unghia dell’anulare. Me la strappai usando i denti e venne via assieme a un’imprecazione e a un sapore dolce. Sputai il vetro e il sangue, innestai la retromarcia e riportai la macchina in carreggiata. Ora era girata in direzione opposta a quella in cui ero venuto. Mi decisi a tornare alla spiaggia per riprendere lei.
Mentre guidavo allungai il braccio fuori dal finestrino tenendo in mano la bottiglia e lasciai colare il poco liquore rimasto in lunghe sorsate che l’aria strappava avidamente. Feci ondeggiare la bottiglia e la lanciai di lato: guardando nello specchietto la vidi frantumarsi sulle pietre di là della strada.
Guidavo e ripensavo a lei: sentimenti paterni mi salivano dentro. Avevo certamente esagerato e non se lo meritava.
Quando arrivai alla spiaggia e scesi verso riva era seduta di spalle, ancora nuda, e guardava il mare, quasi al tramonto ormai. Immaginai avesse pianto. Il corpo, magnifico, era leggermente girato rispetto alla direzione con cui scendevo verso di lei e potevo ammirarne la linea del seno, poco più chiara del resto del corpo. Le arrivai a un passo, certamente mi aveva sentito, e stetti lì in piedi. Non si girò verso di me. Sul collo un filo di abrasione in mezzo a due segni rossi più larghi. Mi resi conto che colpendola dovevo averle strappato la collana con la mano, i grani di pietra erano sparsi lì attorno. Girò in su lo sguardo e vidi il viso già gonfio e il labbro spaccato. Mi pentii di quella violenza e volli confortare l’ingenuità tradita della sua gioventù. Dissi qualche parola, non ricordo quali, ma lei mi fermò, mentre si reinfilava agile il vestito: “Rischi del mestiere” mi disse tranquilla. Gelai.
Tornammo senza dire una parola e giungemmo che era notte. Prima di lasciarla davanti al bar le chiesi il prezzo. Era alto, ma ci aggiunsi altri cento euro. Non li rifiutò e scese con grazia.
Il giorno dopo abbandonai di fretta la cittadina.