Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2013 “Conseguenze” di Simona Farinella

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2013

Il 15 Agosto 1992 in una calda mattinata della regione Toscana, nel trambusto di una sala parto, nasceva una piccola creatura dagli occhi spenti ed il pianto facile.

I genitori, i signori Coppola, recentemente trasferitisi nella suddetta regione dall’afosa Sicilia, erano alla loro prima esperienza con i bambini e nonostante i racconti degli amici ed i numerosi libri letti non avrebbero mai immaginato quale grande responsabilità fosse avere un figlio.

La signora Coppola non aveva abbastanza latte al seno così dovette procurarsi molto latte artificiale per la bambina, considerata la sua voracità: la frustrazione per l’impossibilità fisica della madre di nutrire la figlia era inversamente proporzionale al bisogno che la piccola aveva di lei.

 

Pochi anni dopo la signorina Coppola era grande abbastanza per allacciarsi le scarpe da sola e fare amicizia con i bambini durante l’intervallo della prima elementare. Un giorno alle dieci in punto della mattina la signora Coppola si presentò in via S.Francesco n.30 per prelevare anticipatamente la figlia che già da 5 anni aveva il nome di Penelope. La signora, sudata ed affaticata come dopo una corsa, con i capelli neri e corti appiccicati poco elegantemente sulla fronte, disse affannosamente <Penelope, andiamo dal Dottore> prendendo lo zaino in spalla e trascinandola fuori.

Penelope era molto piccola e spesso le capitava di non capire quel che le succedeva intorno ma quella non era la prima volta che la mamma si comportava in modo strano, era più o meno da un anno che la portava spesso dal dottore per controllare questo o quello.

Penelope avrebbe giurato di poter intravedere gli ingranaggi della sua mente muoversi per trovare il prossimo malore da affibbiarle.

Arrivate nello studio, dopo aver parcheggiato la macchina, una panda rossa di seconda mano, nel grande spiazzo davanti al palazzo, la signora Coppola portò la bambina sù per le scale e poi la spinse di malavoglia dentro al bagno in fondo al corridoio. Penelope sapeva cosa stava per succedere, almeno questa parte della sceneggiata la conosceva bene: la signora Coppola avrebbe controllato che fossero sole, avrebbe guardato nei gabinetti e nello stanzino dove venivano riposte la scopa, lo straccio e l’ammoniaca, infine avrebbe scelto il bagno più grande quello con il fasciatoio e ce l’avrebbe fatta sedere sopra. Una volta compiuto il rituale la signora Coppola chiese <Che abbiamo detto l’ultima volta?>. La domanda non era rivolta a nessuno se non alla sua stessa memoria.

<Mal di gola, mal di testa, mal di pancia.. sinusite.. orticaria .. anemia..> la donna ripercorse con la mente le ultime scuse che aveva utilizzato e capì che stavolta non sarebbe bastato accampare una scusa banale, stava diventando sospetta, doveva trovare qualcosa che fosse abbastanza grave.. ma cosa?

Il suo sguardo vagò per la stanza in cerca di risposte : quattro pareti , un lavandino, uno specchio grande poco più del necessario per riflettere il viso ed una finestra con una piccola crepa. Per essere il bagno di uno studio medico era quantomeno deludente se non addirittura squallido. Lo sguardo della signora Coppola tornò svogliatamente sulla bambina e fu in quel momento che realizzò il da farsi.

 

Qualche giorno dopo quando il signor Coppola domandò alla figlia cos’avesse fatto al braccio, Penelope rispose che era inciampata vicino ad un tendone dal quale fuoriusciva del fil di ferro e che si era tagliata con quello . Il signor Coppola risposte con un sorriso bonario non preoccupandosene troppo vista la frequenza con cui la figlia tendeva ad accusare dolori, anche perchè fortunatamente c’era la moglie ad accudirla.

Domenico, questo era il nome del signor Coppola, aveva dovuto ricredersi su sua moglie dopo aver visto con quanta devozione si era presa cura della figlia.. e con quanto amore!

Inizialmente aveva temuto che i problemi di depressione che la donna aveva sofferto durante la giovinezza avrebbero impedito loro di crearsi una famiglia, invece Penelope era stata la cura, il grande faro bianco che aveva illuminato le loro vite.

 

Dieci anni dopo il signor Coppola e sua figlia stavano lentamente camminando avanti e indietro per la sala d’aspetto dell’ospedale , in attesa dell’orario di visita ai pazienti. Il cielo era azzurro ed in lontananza si udiva il cinguettare di chissà quale uccellino. Penelope ormai era diventata grande, dei morbidi boccoli color cioccolato le scendevano giù per la schiena ed il suo grazioso vestitino di pizzo bianco accompagnato da eleganti orecchini di perla, non poteva che accentuare la bellezza angelica già conferitale dai grandi occhi azzurri sognanti e dalle movenze aggrazziate. Un’infermiera si avvicinò al signor Coppola che col passare degli anni poteva vantare una testa brizzolata ed una stanchezza sul volto che, ad una certa età, diventa comune nei grigi occhi spenti di chi ormai dalla vita ha imparato ad aspettarsi il peggio. <Potete entrare se volete.. uno alla volta, mi raccomando>  disse lei, ma il signor Coppola  aveva ascoltato solo le prime due parole.

Voleva vedere sua moglie, urlarle addosso la sua rabbia e la sua frustrazione, nonostante il dottore si fosse raccomandato di non turbarla.  Si avviò con grandi falcate verso la fine del corridoio con uno sguardo che Penelope non aveva mai visto su quel volto, era determinazione: era deciso a riscattare se stesso e la figlia. “Le dirò tutto quel che penso e poi andrò via ” si disse, non avrebbe permesso che li ferisse un giorno di più.

 

Penelope osservando il padre camminare con decisione lungo il corridoio, s’interrogò sul da farsi: serguirlo per cercare di infondergli coraggio o tornare nella Hall per calmarsi un po’? Optò per una passeggiata all’esterno dell’edificio dove sapeva esserci un piccolo giardino dove forse saberre riuscita a schiarirsi un po’ le idee..d’altronde il padre era adulto e vaccinato, avrebbe potuto cavarsela da solo.

Si sedette su una panchina di legno ed accese una sigaretta, tirò sù le ginocchia e ci appoggiò il mento nel tentativo di smettere di tremare, un po’ per rabbia ed un po’ per paura.

La odiava, odiava sua madre con tutte le sue forze e ancora di più detestava se stessa per non essere stata abbastanza forte da fermarla o dire a qualcuno la verità.

Scovò fra i suoi ricordi il momento esatto in cui tutto era cominciato. Era una fresca mattinata primaverile, la mamma era andata a prenderla presto a scuola, Penelope era in prima elementare , nonostante avesse solo cinque anni. Ricordava lo spiazzo davanti lo studio del dottore dove a quel tempo la portava spesso.

Adesso Penelope sapeva il perchè.

La signora Coppola si era innamoratadi lui, il dottore, ne era ossessionata in modo malato, così tanto da essere arrivata a fare appositamente del male alla figlia solo per avere una scusa per vederlo.

Il ricordo era vivo nella sua mente, non sarebbe mai e poi mai riuscita ad oscuralo: sua madre l’aveva guardata con occhi di pietra e le aveva ordinarto di non muoversi e di non urlare quando avrebbe sentito dolore, perchè in quel caso le avrebbe fatto ancora più male. Inizialmente la piccola Penelope non aveva capito a cosa si stesse riferendo così  per tutta risposta la guardò con espressione confusa. <Non urlare> disse la madre.

La signora Coppola aveva preso dalla borsa un astuccio blu poco più grande d’un portapenne , lo aveva aperto e ne aveva estratto una lametta, di quelle che gli uomini usano per farsi la barba, l’aveva avvicinata al braccio della bambina e dopo una veloce occhiata quasi a ribadire quel <Non urlare> con cui l’aveva confusa e spaventata prima..

 

Penelope tornò alla realtà. Perdersi in certi ricordi non l’avrebbe calmata.

Sentì lo stomaco brontolare, quella mattina era così presa dall’ansia che non aveva mangiato per colazione, adesso però se ne pentiva.

Buttò il mozzicone di sigaretta per terra e tornò dentro per prendere un caffè alla macchinetta dell’ospedale. Mentre sorseggiava uno dei peggiori cappuccini mai esistiti alzò gli occhi verso il corridoio dove aveva atteso per le passate due ore. L’insegna posta sopra la porta che divideva corridoio e sala d’aspetto era distaccata e professionale “Psichiatria”. Quella parola le mise i brividi, non aveva mai pensato che sua madre sarebbe stata ricoverata.. Da piccola era troppo dipendente da lei per potersi ribellare, inoltre la madre le aveva fatto credere che fosse una cosa normale dimostrare a qualcuno l’affetto in quel modo, come a voler dire “Ecco, guarda a cosa sono disposta per te” , eppure ogni volta le ordinava di tacere del loro segreto con gli altri.

Crescendo aveva imparato a tenersi alla larga da lei il più possibile, aveva troppa paura per passarci insieme anche solo pochi  minuti.

Ma non era abbastanza, il tetto sotto il quale dormivano era lo stesso, così a volte quando la signora Coppola si sentiva arrabbiata o nervosa si intrufolava nella camera di Penelope.

A volte la tagliava , com’era successo nel bagno dello studio medico, anche se non si trattava più di una scusa per vedere un uomo, altre la picchiava con ferocia, come quella volta che le aveva spaccato il labbro superiore e lei aveva raccontato in giro di aver sbattuto contro lo stipite della porta.

Altre volte invece, e quelle erano le notti più terribili e impossibili da dimenticare, la toccava in modi che le mettevano ancora i brividi e l’angoscia al sol pensarci.

Per anni la cosa era andata avanti finchè un giorno, la settimana precedente, decise che non avrebbe più subito tutto questo ed andò via di casa.

La polizia l’aveva trovata due giorni dopo nella stazione di un paese vicino, affamata, infreddolita e confusa. Fu così che decise di dire la verità a quegli sconosciuti, la verità sul motivo per cui era scappata di casa.

 

Penelope decise di andare a controllare se suo padre stesse bene, così getto il bicchierino di plastica nel cestino e si addentrò anche lei per quello scomodo corridoio così bianco da far male agli occhi.

Arrivò davanti alla stanza n.29, sua madre era in quella accanto, la n.30, mancavano pochi passi, ma qualcosa le impedì di proseguire, non più la paura o la rabbia.

Da dove si trovava poteva origliare la stanza n.30

<Parlami> implorava una voce maschile fra le lacrime.

<Parlami> era la voce di suo padre.

 

Il signor Coppola aveva detto tutto ciò che si era ripromesso di dire, ma era come se avesse parlato al muro, solo per un istante la signora Coppola, seduta sul letto in vestaglia, aveva quasi volto la testa verso di lui, per il resto del tempo aveva mantenuto un’espressione neutra come assorta in chissà quale pensiero, abbozzando un sorriso inquietante di tanto in tanto.

 

Quello di cui si accorse Penelope però, che nel frattempo aveva fatto un passo in avanti per dare un volto ai quasi estranei, perchè in quel momento cos’ avvertiva i suoi genitori, di cui sentiva la voce o , nel caso di sua madre, il respiro, fu un altro.

Lo sguardo di suo padre la fece rimanere di sasso, gli occhi spenti e rassegnati adesso erano illuminati di una luce nuova, non più la determinazione di pochi minuti prima, quella era devozione.

Penelope rimase scioccata.

Dopo tutto quello che quella donna aveva fatto, suo padre nonostante l’incredulità, la rabbia ed infine il rancore, non aveva smesso di amarla.

 

Se la signora Coppola avesse chiesto al marito di trascinarla fuori da quel posto, lui l’avrebbe accontentata. Gli si leggeva lì, negli occhi e questo Penelope non poteva sopportarlo.

 

Girò lentamente i tacchi e poi sentì l’adrenalina che le scorreva nelle vene, così proseguì a passo deciso verso la fermata del pulman più vicina e poi a casa, per fare le valige.

Prese i suoi vestiti e gli oggetti a lei più cari, adesso aveva più tempo dell’ultima volta, poteva prendere soldi, cibo, pianificare il suo futuro immediato e scrivere una lettera al padre.

 

Verso l’ora di pranzo il signor Coppola tornò a casa per mangiare con Penelope, immaginando che avesse preferito tornare piuttosto che affrontare le sue paure e vedere la madre.

Quello che invece non immaginava era il contenuto della lettera che trovò sul tavolo della stanza da pranzo :

 

 

 

 

 

 

 

Caro papà,

è da un po’ che mi sono messa a pensare.. al motivo per cui veniamo al mondo.. ecco, non proprio un argomento leggero.

Ho pensato che nessuno di noi può essere consapevole delle leggi divine (sempre che in Dio si creda) o di quelle della Natura.. Allora dato che si può scegliere partito politico, religione, stato, cittadinanza, lingua, colore preferito, animale domenstico e quant’altro.. Io ho pensato di decidere il mio scopo.

E sono arrivata alla conclusione che non ne posseggo uno, perchè mi sento solo una.. conseguenza.

Tutto quello che penso, tutto quello che provo non è altro che una risposta emotiva a quello che mi è successo, non c’è niente di mio, bensì è tutto stato causato da agenti esterni.

Sono una conseguenza, in un certo qual modo un po’ tutti lo siamo .. ma vedo che gli altri cercano di farsi coraggio cercando qualcosa che li rappresenti o rappresentando qualcosa. Io non posso, tutto qui.

Vedo tutti gli altri modi in cui sarebbe potuta andare e invece non è andata.

Sono andata via di casa, stavolta non mi troverai.

 

Tua figlia,

Penelope

 

Ps. Non posso perdonare mia madre, ma perdono te.

 

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