Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Racconti nella Rete 2009 “Caffè, fiammiferi e cani” di Andrea Bonvicini

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2009

Ogni volta che faccio il check-in all’aeroporto di Linate provo un irrefrenabile impulso di prendere un taxi, tornare a casa e ritardare il volo. Purtroppo ormai sono già oltre il controllo bagagli e quindi parto per chi sa dove… Vagolo senza meta per il “flight terminal” (bah). Sono infastidito da questo luogo, né carne né pesce, né Milano né Helsinki. Questo spazio è un non luogo, anzi è solo una funzione, nel mentre sei qui, già ti trovi tuo malgrado proiettato in un altrove: improvvisamente il senso (se senso rimane) è essere in transito, qui ma per andare altrove.

Voce di suadente signorina belle forme: “Avvisiamo i signori passeggeri che è stato indetto uno sciopero del personale di terra. Molti dei voli previsti nelle prossime ore sono dunque momentaneamente sospesi. Vi preghiamo di verificare le informazioni sul vostro volo negli appositi tabelloni.

Ah, e che faccio adesso? Da “non luogo” a “non luogo a procedere”, bel guadagno. E del mio volo nessuno sa nulla.

Benissimo! Incastrato tra qui e l’altrove, arranco negli spazi miseri in cerca di un posto da fare mio. Non trovo di meglio che il bar, per il momento, ma sarà difficile conquistarmi un territorio, il pigia pigia è esasperato dalla frustrazione dei viaggiatori-negati.

Nella zona tavolini va un po’meglio. Mi accomodo e mi guardo intorno, vorrei ritagliarmi uno spazio dietro un foglio di giornale alzato a scudo come fanno molti, ma sono indolente e mi dedico al mio gioco preferito: la dissezione senza anestesia dei tipi umani circostanti.

Quello lì, ad esempio. Ha un sudoku (non finito) davanti a sé e guarda il mondo con sufficienza, il ciglio aggrottato da pensieri metafisici su un viso beota. Non ha aperto bocca dacché siamo qui ma, guardando a tutto l’atteggiamento del suo corpo, mi posso dire relativamente certo della prima parola che pronuncerà: lo attendo al varco.

Ecco, squilla il cellulare: è infastidito, e fornisce dimostrazione di sovrana indifferenza attendendo il termine di tutta la Cavalcata delle Valchirie eseguita dal suo prolungamento tecnologico-comunicativo, che gli compare infine, magicamente, tra le mani. Fa scattare l’apertura con la stessa rapidità che hanno i tagliatori di gole della mala marsigliese nel far scattare la lama del loro coltello a serramanico. Guarda per un istante il telefonino-rasoio e ci caccia dentro un sesquipedale “Aòooh”, che sicuramente deve far tremare il suo interlocutore per le basse frequenze trasmesse. – Bingo – penso, mentre la conversazione filosofico-telefonica prende avvio. Si conclude però in breve con due o tre consecutivi “aah… eeh, he… ggià” in un crescendo di confronto dialettico.

A questo punto la mia curiosità di raccoglitore-catalogatore linneiano di tipi umani potrebbe ormai dire soddisfatta, e così pure la mia nota supponenza intellettuale, una volta assodato che posso collocarmi un mezzo scalino più avanti nel processo evolutivo.

Ma ho l’impressione che il vero spettacolo è ancora di là dal cominciare.

Ha quasi terminato un aperitivo ed ora sta arrivando per lui un caffè. Dopo aver giocherellato col bicchiere (ormai vuoto e con un cerchio rosa-arancio trasparente sul fondo) lo posa, con un atteggiamento di viso e corpo che dicono del suo fermo proposito e della sua tetragona volontà. Ma non lo posa sul suo tavolino, no, troppo facile: piuttosto su uno a fianco, non distante. Incuriosito decido di prestare il massimo di attenzione.

Ora strappa un angolo della bustina di zucchero: con una sola mano, non mi si chieda come. Ne versa il contenuto nella tazzina con superiorità assoluta e appallottola la bustina sempre con la stessa mano. Eccolo che si dedica a girare il caffè in una maniera che solo lui evidentemente conosce, il busto proteso sulla tazzina, il polso immobile e solo le dita a far girare il cucchiaino. Lo strumento metallico di cotanta saccaro-fluidificante operazione, esegue docile, senza tintinnare neanche una sola volta sulle pareti dell’incavo ceramico trattenuto per il lobo toroidale all’uopo preposto: quasi certamente è cosciente che rischia di violare la concentrazione del suo padrone, e quindi se ne guarda bene. Egli (il padrone cioè) sorbisce invece d’un colpo la bevanda scura e fumante ma si mantiene abbondantemente superiore dal dare a vedere il giudizio che ne abbia il palato, quisquilia trascurabile in quella danza ammirabile. Gli resta da dare giustificazione ora dell’ulteriore protrarsi nell’esistenza della tazzina del caffè e del relativo piattino: decide dunque di congedarli con grazia regale, abbandonandoli su un terzo tavolino, questa volta alla sua sinistra.

Impossibilitato a sostare in forzosa inattività, si accende quindi una sigaretta. Soffrega un fiammifero di legno dalla capocchia bianca, estratto con gesto prestidigitatorio da una scatoletta oblunga, analogamente bianca e inconcepibilmente minuscola, soprattutto sottile, concepita per contenere forse solo quattro di quei fiammiferi. Dopo l’operazione ne risulta infatti indicibilmente vuota: essa ha dato l’ultima sua fiamma e il piromane di sigarette, osservando sovrano la fiammella languente, riconosce in tal gesto un estremo sacrificio alla causa della sua personale sopravvivenza. Gli si pone evidente quindi il problema di dare onorevole sepoltura allo zolfanello, rigido e consunto dopo l’autoimmolazione, e ora pietosamente rinchiuso, a mo’ di catafalco, nella stessa dimora che lo aveva custodito fino all’ora suprema. La cosa da evidentemente adito a qualche imbarazzo. Si guarda intorno, per la prima volta forse un attimo indeciso: sta ormai per rinunciare alla tumulazione e pare rassegnarsi ad abbandonare la micro-custodia alla sua stessa inutilità. Ma con lampo di genio e assai maggiore perizia del manichino ossibuchivoro del Maradagàl, egli decide di non estrometterla dai confini dell’Io. No, si sporge solo un poco in avanti sulla sedia e per effetto di una semplice rotazione del polso il fu contenitore vortica ora nell’aria, rispettando ad un tempo le leggi della meccanica classica e quella dell’alto fattore che gli ha impresso il moto. Atterra con precisione assoluta nel posacenere del terzo tavolino, che ne risulta definitivamente annesso al territorio vitale dell’augusta persona. Il suo viso si atteggia a giulebbe per la riuscita prostaferesi di quel frammento della realtà da possibile problema a successo personale. Aspira il succo della vita dalla sigaretta accesa e fin gli occhi, impegnati allo stremo, tesi in una fessura, partecipano a tale presa di possesso. Sbuffa un pennacchio di fumo e l’aria condizionata lo sbrindella in un vasto vessillo che garrisce ora sull’autoproclamata repubblica indipendente del Parapagàl.

– Chapeau – mi inchino mentalmente.

Certo, i cani fanno prima: pisciano sul muro.

(dedicato a Carlo Emilio Gadda)

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