Premio Racconti nella Rete 2013 “Rondini e Pipistrelli” di Andrea Fabiani
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2013Bevo vino e vomito filosofie seducenti.
E’ tutto quello che so fare, quello che ho sempre fatto. Non sono mai cambiato, io.
Eppure, credimi, mi ritrovo ogni giorno più solo.
Ricordo che non più di dieci anni fa erano in tanti da fare la fila, soprattutto ragazzi, arrivavano con bottiglie di vino buono, i loro scritti sottobraccio e tanta ingenua ammirazione negli occhi.
Dicevano tutti, più o meno:“E’ un onore conoscerla, Signore, io sono innamorato del suo pensiero, mi ha illuminato la vita.” Cazzate simili.
Io rispondevo a tutti nello stesso modo: “Ma sì, ma sì. Dammi del tu, stappa quella bottiglia e siediti, ne abbiamo di tempo.”
Pian piano si scioglievano, si ubriacavano, e parlavamo. Proprio come adesso.
Si nutrivano delle mie parole, almeno quanto io delle loro, anche se questo non lo hanno mai saputo.
Doveva pur esserci una certa distanza.
Io ero il grande scrittore, quello che possedeva la verità, se non tutta certamente più di quella che sentivano di possedere loro.
Io avevo scritto “Rondini e Pipistrelli”, la bibbia delle nuove generazioni.
E pensare che a me non è mai piaciuto gran che quel libro, non l’ho mai considerato la mia creazione migliore. Ma anche questa è una cosa che non ho mai detto a nessuno.
O forse si, l’ho detto mille volte, ma in modo che la gente non mi credesse.
Ora posso finalmente essere sincero, non mi ascolta nessuno.
Ora sono un povero relitto alla deriva, un’anima arrugginita che si trascina nel mare, sempre più lontano da quello che è stata.
D’altronde non ho mai chiesto nulla di quello che ho avuto, né quando veleggiavo nel sole, né quando sono naufragato. Non ho mai capito come funzionasse il successo, mi è sempre sembrato una burla, uno scherzo colossale giocatami dal mondo intero.
Vedi, ci vuol così poco a salire in cielo: un piccolo volo verso le nuvole, un minuscolo salto da pulce, ma spiccato al momento giusto.
A me è bastato quel romanzo lì, “Rondini e Pipistrelli”, da semi-sconosciuto a semi-dio, nel volgere d’un anno.
I ragazzi riuscivano a leggervi cose che io non vi avevo mai scritto. La critica cavalcava l’onda ruggente del successo; dicevano che ero riuscito a “stampare il fuoco violento che ardeva alla base del diffuso desiderio d’una nuova rivoluzione sociale”.
Loro, lo dicevano, io no di certo.
Non era la prima cosa che avevo scritto e pubblicato, nè, come ho detto, mi sembrava particolarmente incisiva o interessante.
E invece un giorno vennero a dirmi che ero diventato lo scrittore più letto, vennero a dirmi che mi volevano nelle trasmissioni televisive, che non gliene fregava nulla se c’andavo ubriaco o mi mettevo a vomitare in studio o mandavo a cagare conduttore, pubblico e ospiti.
Anzi, era quello che la gente si aspettava da me.
“Fa parte del suo personaggio – mi spiegarono – è anche per questo che la adorano”
Non riuscivo a comprendere. Avevo semplicemente scritto del Mondo, come lo vedevo io, senza alcuna pretesa di sparpagliare verità sulla crosta terrestre.
Se poi tra quelle righe qualcuno ci trovava le ragioni per rivoltare il pianeta, che lo facesse, che facessero pure la rivoluzione, io non avevo nulla in contrario.
Tanto non sarebbe diventato tutto di colpo bello, giusto e profumato.
Al massimo avrebbero ottenuto un cambiamento, solo un altro cambiamento.
Ce n’erano stati tanti da che ero nato. E anche da prima. Tutti pietrificati dallo scorrere del tempo. Tutti tramutati, pian piano, nel nuovo marmoreo, soffocante, ordine, contro il quale si sarebbero poi scagliati gli incomprensibili figli di chi per quel cambiamento aveva lottato.
La storia è un film noioso e ripetitivo.
Io non ci credo alle rivoluzioni, ma loro, voi, non potevate credere che io non ci credessi.
Avevate bisogno d’un profeta, dovevo essere per forza il vostro profeta. E a me, in fondo, non dava eccessivo fastidio: mi ci compravo da bere e da fumare, con l’essere profeta.
Interviste, talk show, collaborazioni: accettavo tutto. Bevevo e dicevo quello che avevo in testa, con le mie parole, così belle e piene di significati diretti, così giuste e taglienti.
Parlare, quello sì, mi è sempre risultato facile.
Recitavo sempre lo stesso spettacolo. E funzionava. Vivevo nel tempo adatto a far successo solo con me stesso, con i miei quarantacinque anni di rabbia, di vita grigia e inclinazione all’abuso di alcol.
Dio, che ingiustizia!
Se penso che tanti grandi artisti hanno avuto la sfiga di nascere in un secolo che non sapeva comprenderli…
In realtà non volevo quello che credevano loro, non volevo il Grande Cambiamento, desideravo solo i soldi, il risarcimento della merda che avevo ingoiato fino che non m’era passato per la testa di scrivere “Rondini e Pipistrelli”.
Volevo solo metterlo nel culo a tutti, a tutto il mondo.
Ad uno di quelli stupidi salotti televisivi una di quelle scimmie ammaestrate in giacca me l’aveva anche chiesto:
“Qual è la che più d’ogni altra vorrebbe fare adesso?”
“Fottermi il buco di culo del mondo.”
Chi credeva in ciò che credeva di leggere tra le pagine del mio romanzo apprezzò quella frase. Ovviamente ignorandone il reale significato.
Così ho preso tutto quello che potevo: soldi, gloria, donne, droga. Mi sono ritrovato a scopare con ragazze non molto interessate a chi io fossi realmente. Volevano solo scoprire cosa si provava a farsi il grande scrittore.
Ad andare in giro dicendo di essere me c’era da divertirsi, al tempo.
L’unica cosa che mi piaceva erano i ragazzi che venivano a trovarmi, affascinati dal confronto con quella che ritenevano una mente illuminata.
Loro in fondo li adoravo. Ci credevano, ci credevano veramente, sembravano avere dentro la forza per generare un universo diverso.
D’altronde potevano permetterselo, avevano ancora vent’anni: la speranza di poter creare un mondo migliore avendo pure il tempo per viverci.
E io non li ho mai disillusi, non mi sono mai messo a fare l’assassino di sogni, non è roba per me.
L’unica cosa che non mi sono sentito di fare è stato scendere in strada a bere la loro euforia, ad ubriacarmi della loro energia, del loro gridare in migliaia la loro rabbia e il mio nome. Era giusto che ci credessero da soli, che imparassero a lottare e perdere per le loro idee, non per quelle prese in prestito da uno scrittore.
Poi è tutto sfumato: la voglia di rivolta ha trovato altri idoli più disponibili di me e pian piano è scemata.
Come non poteva dubirarsi, d’altronde.
A cadere ci metti più di quanto ti serve per salire, ma non è comunque un processo così lento che tu te ne possa rendere conto.
Ho scritto altri romanzi, mi ha letto sempre meno gente.
E quella porta, lì dietro di te, si è aperta sempre più di rado.
Non si apriva da mesi fino ad oggi.
Non che me ne freghi particolarmente: non ho mai scritto per gli altri, sempre e solo per me, perché dovevo farlo, perché quelle cose volevano essere scritte e avevano scelto me per farlo.
Ora sono ricaduto nella stessa merda dalla quale mi ero sollevato dieci anni fa, solo che non ho più bisogno di lavorare, ci resto immerso, immobile, tutto il giorno.
Me ne sto al buio, appeso al pavimento, a guardare un mondo che va avanti a testa in giù.
Ero una Rondine.
Sono un Pipistrello.
Non ti aspettavi di sentire queste cose quando sei venuto qui, vero?
Be’, questa qui era l’ultima bottiglia che avevo. L’ultima.
Non leggerò il tuo manoscritto.
Non la aprirò a nessun altro giovane creatore d’universi, quella porta.
Tu sei stato l’ultimo, ragazzo, non dire nulla, finisci il tuo bicchiere e vattene.
Lui ubbidisce. Vuota il bicchiere, riprende i suoi fogli ed esce.
Chiude la porta.
Resto solo, in silenzio, e per la prima volta sono consapevole d’averlo fatto. La prima degli ultimi vent’anni.
Ho mentito volontariamente a qualcuno che credeva in me.
Devo avere ancora una bottiglia di chianti, da qualche parte.