Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2013 “L’acquario del 1996” di Marta Sicigliano

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2013

Nell’aprile del 1996 mi venne regalato un acquario.
Anzi, a dirla tutta l’acquario lo possedevo già, quello che mi fu regalato erano i pesci.
La vaschetta di vetro con filtro e termometro per la temperatura l’avevo comprata io qualche anno prima ad un piccolo negozio dell’usato che stava sotto casa mia. Visto lo scarso prezzo doveva trattarsi di un articolo che stava lì da parecchio tempo, e aveva tutta l’aria di essere un po’ datato. Ma in quel negozio mi era capitato di andare spesso e avevo già acquistato un vecchissimo giradischi ed un’aspirapolvere elettrica perfettamente funzionanti, quindi, allettato dall’affare, avevo finito con il portare a casa anche l’acquario.
Per diversi anni rimase chiuso nella stanzetta per gli ospiti che utilizzavo come sgabuzzino, e non trovai mai più il tempo di occuparmene.
Nell’aprile del 1996 però la mia ragazza di allora si era improvvisamente fissata con la storia dell’acquario. Non era una ragazza capricciosa, ma era estremamente testarda e quando si metteva in testa un’idea era difficilissimo dissuaderla. In più la nostra relazione era piena di problemi e finivamo spesso a litigare. I motivi erano tanti, il più banale era l’età: avevamo in tutto dodici anni di differenza. Ma in mezzo c’erano anche diversi ostacoli linguistici e culturali, infatti lei era tedesca e l’italiano lo parlava pochissimo. Infine, non posso omettere la circostanza più rilevante: lei era una studentessa Erasmus venuta a Roma per un anno di studi, e io mi ero occupato di lei in qualità di assistente di uno dei suoi professori.
Per tutti questi motivi all’università eravamo costretti ad evitarci, e io le avevo pregato più volte di non parlare della nostra relazione con nessuno. Lei era di una sensibilità straordinaria, ma all’epoca ero molto insicuro e vivevo nell’eterno sospetto che finisse con il confidare tutto a qualche amica. Quando ci incrociavamo nei corridoi, le occhiate che mi lanciavano le persone che erano con lei mi sembravano sempre avere qualcosa di derisorio o di esplicito. E puntualmente finivamo a litigare come due ragazzini.

Quell’aprile Ruth (questo era il suo nome), si presentò a casa mia con i pesci.
Erano contenuti dentro delle buste di plastica piene d’acqua, ciascuna grande quanto un piccolo palloncino.
Il mese prima eravamo andati insieme a Portaportese e le avevo comprato una bicicletta. Era di una tonalità giallo pastello, con una curvatura molto elegante ed un cestino di vimini davanti al manubrio. Sembrava fatta apposta per lei.
Mentre appoggiava le buste con i pesci sul tavolo, la immaginai sfrecciare per le strade di Roma con le taniche d’acqua caricate dietro al sellino e le buste dei pesci traboccanti dal cestino anteriore. Con quei capelli rossi che volavano al vento e gli abiti troppo leggeri per la stagione primaverile. Mi scappò un sorriso, e decisi di accontentarla.
Era un periodo, tra l’altro, che gli acquari andavano di moda. Quasi ogni persona che conoscevo ne possedeva uno in casa. Ruth mi promise che se ne sarebbe occupata sempre lei. Era un pretesto per vederci più spesso, disse.
In tutto i pesci erano dieci: una coppia di Cuppi, una di Oranda, cinque Neon e un gamberetto.
Apprendemmo i nomi sfogliando un libro sui pesci d’acqua dolce che scesi a comprare in libreria mentre lei si occupava di sistemare l’acquario. Ad operazione finita, mancavano solo un paio di rocce e qualche pianta. Lei volle uscire subito a comprarle, e una volta completo l’acquario divenne una piccola opera d’arte.

In quel periodo ero iscritto da qualche anno ad un piccolo partito piuttosto impopolare, ma era da un po’ che avevo smesso di interessarmi troppo alla politica. Tuttavia agli inizi di maggio mi arrivò una telefonata dalla sezione del mio quartiere, e in poche parole mi chiesero se non avessi voglia di candidarmi per le elezioni municipali di quell’anno. Rimasi parecchio sorpreso. Loro cercavano volti nuovi e io avevo cominciato piano piano a farmi un nome all’interno del mondo universitario; ero riuscito a far pubblicare libri convincenti e mi capitava spesso di collaborare a campagne, progetti ed iniziative culturali. Sul territorio, insomma, ero abbastanza conosciuto. Risposi che ci avrei pensato sopra ed attaccai.
Fu Ruth a convincermi a partecipare. Secondo lei era l’ennesima dimostrazione che ero una persona colta ed affascinante – disse proprio così, “colta ed affascinante”. Anche se non glielo dicevo, mi chiedevo alle volte quali fossero le sfumature che si nascondevano dietro il suo vocabolario così povero.
Una volta mi aveva pure chiesto di insegnarle qualche insulto, ed ero stato un pomeriggio intero a cercare di farle capire la pronuncia corretta di “te pijo a pizze in faccia, stronzo!”. Passata mezz’ora a deformare senza interruzioni quella stessa espressione, mi sembrava di essere diventato pazzo.
Ritagliai una grossa bacheca di sughero e con una trentina di puntine stesi un programma nel giro di un paio di giorni. Ruth si preoccupò di andare in copisteria per far stampare i volantini. Mettemmo un banchetto alla fine della strada con una tovaglia a quadretti che usava mia madre quando da bambino mi portava a fare i picnic, e a fine giornata Ruth mi caricava sul sedile della sua bicicletta gialla e con un palloncino legato al manubrio recante il mio simbolo ci spostavamo per il quartiere salutando con la mano un po’ tutti. Erano serate splendide. Quel mese le temperature erano state stabili e piacevolmente tiepide, i tramonti s’insinuavano in ogni vicolo della città senza tralasciare il più minuscolo angolino. Lei pedalava energicamente, senza fatica. Ogni tanto i suoi capelli rossi mi finivano in faccia, e volutamente non li scansavo. Il mondo attraverso quelle fessure era perennemente un meraviglioso tramonto. Che terminava bruscamente quando lei inchiodava all’improvviso per evitare la macchina che ci avrebbe messo sotto.
Eravamo stranamente felici. Ci sembrava di esserci liberati, in qualche modo, dal ruolo scomodo del professore e della sua alunna in una relazione clandestina; adesso eravamo il politico e la sua brillante assistente, un uomo “colto ed affascinante” che non sarebbe andato da nessuna parte senza l’iniziativa astuta della sua ombra femminile. Avevamo ancora ruoli diversi, ma eravamo dallo stesso lato del tavolo di plastica con la tovaglia a quadretti. E io sedevo dietro di lei sulla bici.

Quello che fu poi del risultato delle elezioni lo tralascerò.
Non è importante ai fini di questa breve storia.
Un paio di mesi dopo ero in Argentina per un breve viaggio di lavoro, quando ricevetti una telefonata di Ruth. Sul display del cellulare compariva il numero del mio appartamento.
– Devo tornare a Norimberga, – disse senza preamboli.
– Quando?
– Oggi stesso. Ho il volo tra poche ore.
Trattenendo un sospiro, mi passai il cellulare da un orecchio all’altro.
– Credevo saresti rimasta fino ad ottobre,- dissi con calma.
Dall’altra parte mi arrivò uno strano gemito. Poi fui sicuro di sentire un singhiozzo.
– Mi ha chiamato la mia famiglia ieri- rispose infine, con estrema fatica. – Mia nonna…- ma non terminò mai la frase.
Non sapevo cosa dire.
– Il mangime per i pesci sta al solito posto. Senti…,- le sue parole si fecero fitte – è più o meno da una settimana che sono spariti due Neon. Non so dove siano finiti. Ho cercato i loro corpi dappertutto ma non sono né sotto la sabbia né dietro le rocce, né…
– Ruth, cosa m’importa dei pesci adesso?
Lei stava per dire qualcosa. Ne ero sicurissimo, avevo sentito il leggerissimo schiocco delle sue labbra che si aprivano ma…la conversazione cadde all’improvviso. Con il cuore in gola, mi precipitai alla più vicina cabina telefonica con una manciata di monete e composi il mio numero di casa – cinque, sei, dieci squilli. Dunque, se n’era andata davvero.

Possiedo ancora quel vecchio acquario. In quel caos continuo che è la mia vita, quella semplice scatola di vetro mi sembra l’unica cosa ordinata di questo mondo assurdo. I pesci mangiano, si riposano, si riproducono. Non conversano. E non eleggono nessuno. Non sanno cosa sia la società, non hanno amici né conoscenti né convinzioni politiche. Nessuna problematica, nessun dubbio affligge la loro piccola testa gelatinosa. Tutte le loro energie le impiegano per contendersi il boccone più appetitoso.
La peculiarità è che ogni tanto sparisce qualche suo abitante. Solo recentemente ho scoperto che i gamberi alle volte aspettano che si spengano tutte le luci per allungare una chela, afferrare un pesce e divorarlo durante la notte. Naturalmente non avevo prove che il mio gamberetto fosse stato, negli anni, l’autore insospettato di una serie di crimini così puliti. Dal frigo tirai fuori un contenitore di vetro con le melanzane avanzare della settimana prima, buttai il contenuto nella pattumiera e lo lavai con una spugna. Vi arrangiai dentro un piccolo ambiente in cui relegare il gamberetto. Osservandolo oltre il vetro della sua nuova casa, per la prima volta dopo tanto tempo mi tornava in mente Ruth e quella nostra bizzarra stagione insieme; mi sembrava che in quell’unico ricordo, così fugace, fosse conservata in un unico, breve sorso tutta la mia giovinezza.
– 1996,- ricordai al gamberetto.
Ma i suoi piccoli occhi sferici conoscevano solamente il dialogo con la nebbia, non sapeva cosa volesse dire tendere le orecchie con un improvviso batticuore quando il vento, o più probabilmente l’età, producevano un quieto richiamo fuori dal balcone, sulla strada. Quando rumori reali e rumori immaginari si incontravano, intrecciando forme indistinte e brevi come fumo. Uno stridio di freni, i raggi di una ruota che affettano l’aria, il campanello di una bici.

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13 commenti »

  1. Una buona proprietà di scrittura e una trama che si fa leggere. Bello. Bravo.

  2. Il bel racconto è tessuto dei ricordi di un’epoca della vita, vista come un acquario inizialmente dimenticato che viene valorizzato per volontà della ragazza. E’ la presenza femminile che dà la voglia di vivere. In quella lontana estate del 1996 c’è l’amore, timoroso e quasi clandestino all’inizio per la differenza d’età; l’amore dà senso alla vita del protagonista ed è vissuto nella freschezza. Poi l’amore finisce, ingoiato dagli eventi tragici della vita, come il pesce divorato dal gamberetto nell’acquario, e l’uomo rimane solo. Quei ricordi si presentano ogni tanto e sono tenuti in ordine, credo, perchè non sento nostalgia. “…relegare il gamberetto. Osservandolo oltre il vetro…”. Scusami per il virgolettato.
    Complimenti.
    Emanuele

  3. Che bel racconto.
    Mi ha ricordato alcuni pezzi di Murakami. Per l’atmosfera di malinconia calma e per la doppia capacità di dire molto (spiegare molto anche) e di lasciare però qualcosa di insondabile, nel fondo.

  4. Molto delicato il modo in cui è reso omaggio ad una storia che può sembrare scontata ma che invece non lo è affatto .
    Tanti auguri.
    Emanuela

  5. Grazie mille a tutti!
    Nello specifico – per Emanuele: hai colto l’ambivalenza, ma anche la specularità e allo stesso tempo l’idea di embricazione tra il mondo della società degli uomini e quello della società dei pesci, il tacito ma intangibile mondo dell’Acquario, che in maniera indiretta cercavo di sottolineare; per Elena: il paragone con Murakami mi lusinga, e la passione per quest’autore ci accomuna =)

  6. Decisamente un buon racconto. E’ evidente che possiedi tecnica narrativa, scrivi da molto tempo? Le righe finali avrei voluto scriverle io.

  7. Sai, Marta, qual è la cosa davvero interessante? Noto ora che il primo commento si rivolge a te al maschile.
    Beh, avrei fatto lo stesso se non avessi controllato un paio di volte il tuo nome!
    Seguiamo il tuo personaggio fino in fondo – fino a confonderlo con la voce/penna dell’autore.
    Meglio, dell’autrice.

    Bravissima. Spero di leggere presto qualcos’altro di tuo.

  8. E’ grande per uno scrittore scordare a quale sesso appartiene, vuol dire diventare ciò che si vuole. Animo alato e duttile. L’acquario è una cornice insostituibile alle tracce del vissuto, ricordo liquido più incisivo di un dagherrotipo, in bocca al lupo M

  9. Per M.Opici: si, scrivo da molto. Il linguaggio scritto è sempre stato per me un veicolo di espressione naturale, sin da quando ho imparato a farlo. La sfortuna vuole che nel parlato io sia una vera frana =) grazie davvero per aver apprezzato questo breve racconto.

    Margherita: “Dagherrotipo” è una Gran Parola – complimenti a te per la sofisticatezza dei suoni e del vocabolario!

  10. Bel racconto, scritto bene. Mi è piaciuto molto.

  11. Cara Marta sempre ciò che mi si imputa è di aver sciacquato i famosi panni in Arno, benchè ami la Toscana, e forse nel mio albero genealogico abbia remotissimi avi senes, sono campana doc dop e tutto ciò che possa illustrare un’indole “meridionale” di cui resto alquanto fiera, nonostante le fangose orme che anche mi connotano, ma se abbiamo delle bellissime parole perchè non usarle? E poi è attraverso la pelle che ciò che ho letto di te raggiunge il cervello e quello formula, poi io non resto che strumento, augurissimi ancora M

  12. Cia Marta la scrittura è una forma di linguaggio molto particolare e non è da tutti scrivere in modo così scorrevole e per nulla noioso.La trama è quella di tanti ma tu l’hai resa particolare, malinconica e tenera.Complimenti

  13. Mi è piaciuto davvero tanto!
    In particolare il parallelismo finale fra pesci ed esseri umani, semplice e lineare. Rende l’idea di quanto il loro mondo possa essere diverso dal nostro e allo stesso tempo così vicino: chiusi fra 4 pareti di vetro che segnano i confini del loro ambiente così piccolo e innocuo, mentre noi liberi in uno spazio che ci sembra infinito ma bloccati dallo scorrere del tempo, che segna i confini della nostra vita e, a volte, della vita che decidiamo di passare insieme a qualcun altro.

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