Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2013 “Ordinare le geometrie interiori” di Francesca Romana Scialanga

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2013

Silvia è tornata a Cattolica per cercare se stessa. La decisione l’ha presa dopo l’ennesima notte disturbata dalle apparizioni discontinue (e acquose, e indefinite) del suo circo immaginario (lei sempre al centro di un tendone, lei che salta su un trampolino elastico e stira in aria i muscoli delle sue gambe insabbiate), dopo l’ennesima interminabile notte in cui ha realizzato che la sua vita si stava trasformando in un sacchetto di plastica urticante, e che il suo lavoro come segretaria la stava facendo morire lentamente, dentro il corpo, da qualche parte. Devo tornare dove ho iniziato a sognare le bocche fameliche dei leoni, si è detta, dove per la prima volta ho visto la zampa larga e avvizza di un elefante, e con i ciottoli viscidi d’acqua costruivo il mio circo ideale. Per prima cosa ha chiamato l’azienda di costumi da bagno in cui lavora da tre anni, per verificare che avesse qualche giorno di ferie avanzato da poter consumare. Accertato questo punto ha fatto la valigia (un costume da bagno, due paia di mutande, un vestito sopra il ginocchio, lo spazzolino e una raccolta Haiku), e ha prenotato il biglietto del treno su internet.

Quando Silvia lascia cadere la valigia sul cemento screpolato e cotto di una qualunque strada (con sopra un friccicorio di puntini di luce) della città di Cattolica, il cuore prende a scalciarle contro il petto a una velocità impazzita. Davanti a lei, alto e cianotico, si erge l’hotel Luna e Cielo dove da bambina trascorreva le vacanze con la sua famiglia, un edificio freddo e specchiato che adesso le ricorda la sede di certe aziende che vendono energia. Silvia si sofferma un poco a ritrovare i dettagli che più le piacevano dell’hotel (le ombre fluide sulle finestre rettangolari, la bandiera tricolore mangiucchiata ai lati che sventola dalla terrazza, le palme flosce e un po’ ingiallite piantate ai lati della porta d’entrata, le zaffate aspre e improvvise di cloro), e la conforta constatare che gli urti del tempo non abbiano intaccato quel posto, e che la sua improvvisa (e sciagurata, e necessaria) scelta di tornare lì dopo vent’anni e una vita sgonfia, sia stata la migliore decisione mai presa da sempre. Silvia sospira, stira le labbra sottili e pallide come sorridesse al vuoto, si tocca i capelli umidicci divisi in ciocche sporche, poi chiude gli occhi. Sta così qualche secondo, in ascolto del tempo, distratta di tanto in tanto dallo sfregare delle piume dei gabbiani. Ripensa al suo corpo bambino strizzato in un costumino rosa con i bordi arricciati, alla sua faccia larga e felice quando sì, Silvia, oggi la mamma ti porta al circo, però non ti impressionare quando vedrai gli animali feroci: fanno un certo effetto e sono enormi come case, e lei no, ripensa, non si sarebbe affatto impressionata nel vedere case camminare, e ruggire, e mostrare fauci impastate di saliva, ma anzi, avrebbe creduto subito che quel posto lì, quel tendone largo e bucato da spifferi di vento, fosse il posto più incredibile del mondo, e che quell’odore di carne e popcorn (e anche burro e sudore) che impestava l’aria le si sarebbe incollato alla pelle e agli occhi per sempre. Avrò un circo tutto mio, avrebbe detto alla mamma una volta rientrate all’hotel Luna e Cielo, avrò le mie bestie, le mie carezze ruvide di proboscide, i mie cerchi e le mie funi: io salterò su un trampolino elastico, così potrò guardare le teste di tutti, volare in alto e credere che sia tutto mio, quel tutto che c’è. Silvia ha un fremito, una scossa che le parte dalla pancia. Spalanca le palpebre indolenziate dal sole e tira su la valigia semiaperta accanto alle caviglie. Attraversa la porta d’entrata dell’hotel e a passo incerto si avvicina alla reception. Poi prenota una stanza, una qualsiasi, basta che si veda il circo.

Appena Silvia arriva in camera tira di lato le tende spesse e rosse e guarda giù. Il mare è calmo, una palude liquida e verde salmastro che tocca la riva con risacche accennate. Ci sono tanti ombrelloni impilati nella sabbia a intervalli irregolari, secchielli rovesciati, palette, gambe lunghe di donne e sederi appuntiti. Silvia allarga le narici e inspira un poco di quell’aria unta di creme solari e di sale che per lei piccola era l’odore delle cose belle. Poi di lato -occupandole dapprima uno spicchio di vista come fosse il volo di un uccello che si scorge per sbaglio- Silvia vede il tendone del circo: una piramide rossa, ben tirata, schiaffeggiata di tanto in tanto da leggere raffiche di vento. In alto è issata una bandierina triangolare, con al centro lo stemma di due leoni. Eccolo lì, il suo tempo vecchio, il suo costumino rosa e le rughe fonde degli elefanti. Le torna in mente il giorno in cui ha accettato il lavoro come segretaria perché il suo sogno era diventato una spuma grigia e pericolosa che rischiava di oscurarle la vista; quello stesso giorno i suoi organi sono finiti in una lavatrice che ha preso a metterli in disordine e a farli diventare stracci (poi il sangue le è diventato pastoso con il tempo, e le notti troppo scure, e il fiato un’albicocca in gola, e le immagini del circo hanno iniziato a disegnarsi sui ricordi, a costruirsi uno scheletro che tornava, sempre più spesso, come una minaccia d’insoddisfazione).

È che vivo questa vita ma è come se non fosse la mia, come se non fossi stata io a sceglierla.

La fanno entrare perché ha le gambe lunghe e sode, Silvia lo sa, perché durante le prove dei numeri nessuno può sedersi sugli spalti di un circo. Il nano che sorveglia l’entrata le ha fissato le ginocchia nude e lattiginose e ha decretato che sì, poteva entrate, basta che stava in silenzio. Silvia si sceglie un posto isolato, in alto, un sedile sporco di gomme da masticare e briciole di pane seccate. L’odore di carne e popcorn è sempre quello, solo più pulito, lavato dal detersivo. Sulla pista ci sono cinque o sei persone che si esibiscono in salti acrobatici, incroci di gambe snodate, avvitamenti sulle funi che pendono rigide dall’alto. Silvia li guarda placida, sorreggendosi il corpo con i gomiti, tenendo gli occhi prudentemente socchiusi per via di un faro giallo che ogni tanto le illumina il viso. In lontananza, oltre i corpi di gomma dei contorsionisti, c’è un trampolino. È largo, blu elettrico, sembra una scatola gigante puntellata dal becco di un uccello. Quando Silvia se ne accorge sente un calcetto in pancia, un’emozione vecchissima e nuovissima che di colpo le fa prudere la pelle e gli occhi (e si vede saltare su tutto quel blu, spingere le piante dei piedi sugli elastici tirati e abbracciare il vuoto. Vede gli spettatori gridare il suo nome, le loro mascelle aperte che scoprono lingue, gole, cuori). E in quel preciso momento lo decide, mentre la sua insoddisfazione diventa una specie di felicità nuova, Silvia decide che appena tornerà a Roma chiamerà il suo capo, e gli dirà che basta, quel lavoro non fa per lei, che il computer è una scatola ipnotica e posticcia e che lei a starci a contatto si sta sgretolando dentro, che a lavorare in azienda si sente la pelle a squame, e gli organi in disordine, che durante quel breve viaggio in cui è tornata a Cattolica ha sentito la vita, e che, perlomeno la sua, non ha niente di metallico dentro, né di artefatto, ma che anzi sa di vero, di avanzi sporchi e aria viziata. Gli dirà che non sa cosa farà poi, che il suo sogno di aprirsi un circo tutto suo è una scelta improbabile, e lei lo sa bene, di sicuro sa che andrà in montagna, sulla testa appuntita di una baita sperduta e isolata, sa che da là sopra guarderà in basso, e che se farà attenzione (allargando le pupille come fossero spugne gonfie d’acqua) riuscirà a vedere le sue vene diventare strade, altri percorsi, terre da battere.

Silvia sorride lieta, sazia, come chi sa che ogni tanto bisogna tornare un poco indietro, per poter vedere avanti.

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