Premio Racconti nella Rete 2013 “Tra Scilla e Cariddi” di Marianna Farese
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2013Dare un nome alle cose cominciò a ripetersi Marta imboccando la rampa di scale in marmo. Il silenzio che era sceso come una coltre nera quel giorno allo studio non era terapeutico, ma non aveva voglia di parlare. I farmaci cominciavano a sortire il loro effetto, si sentiva meglio e così quella settimana si era concessa una pausa dal pensare, che le unghie le sanguinavano a furia di scavarsi dentro. Ma quel compito da prima elementare suonava già come un fardello, perciò uscendo dal palazzo si abbandonò a un’insospettabile brezza d’Agosto nella città deserta e calda, veleggiando pigra e arrendevole verso casa lungo il viale alberato di via Caravaggio.
Le prima volte che si era sentita soffocare aveva pensato alla claustrofobia perché le capitava sempre nei luoghi chiusi o troppo affollati. Poi quella sensazione aveva cominciato a impadronirsi lentamente di ogni momento, strappandole a morsi il suo tempo e restituendoglielo completamente impastato di terrore. Trascorso un mese il panico si era espanso come una macchia scura in ogni angolo della sua giornata, in ogni poro della sua pelle, aveva tappezzato tutte le pareti di casa. Marta non riusciva a respirare, le mancava il fiato, aveva perso il sonno, l’appetito, la pace. Da un’alba all’altra non faceva altro che monitorare il suo respiro chiusa nella sua camera, aveva smesso di uscire di casa, di studiare e la vista di sua madre o di chiunque altro le dava ancora più ansia. Dovette dare in pasto alla paura uno ad uno tutti quei giorni prima di decidersi a riaccendere il computer e rovistare in rete alla ricerca dei tasselli di una logica – se mai ci fosse stata – da conferire a quell’evento inspiegabile. Disturbi psicosomatici, attacchi di panico, iperventilazione spontanea, blocchi di emozioni. Ingurgitò tutto d’un fiato il materiale disponibile su quel mostro che la stava annientando, telefonò a Dario e lo implorò di portarla da un bravo psichiatra.
Quel giorno Dario le accarezzava la mano mentre lei annidava il viso nell’incavo tra il collo e la spalla di lui, cercando nella perfezione dell’incastro la comprensione. Ma quello che respirava era solo delusione per non essere riuscita a superare quella prova con le proprie forze. Dario era un tennista e nel tennis, si sa, alla vittoria non si arriva con le ginocchia, né con le spalle, né con l’esplosività atletica nè con gli schemi tattici. La parola chiave è controllo.
Sulla panca di fronte, nel corridoio del policlinico, c’erano quattro ossa con enormi occhi tristi e blu sedute di fianco a una donna elegante e composta. Più in là un uomo passeggiava e si fermava sempre davanti a un cartello a intervalli di quindici secondi scanditi dai suoi passi leggendo a voce alta: «Vietato fumare, ma per favore!»
Marta lanciò un sorriso a Dario un po’ divertita dall’uomo del cartello e un po’ per rassicuralo. E poi per la prima volta pensò ad una cosa che non aveva a che fare con i suoi meccanismi respiratori. Immaginò un lettino trapuntato in pelle, un uomo sulla sessantina con gli occhiali a metà naso e un blocco di fogli ad attenderla dietro quella porta e tutto ebbe senso. Quel luogo comune stropicciato e stantìo era una tappa fondamentale nel cursus honorum dello scrittore perfetto! Le vie della scrittura sono infinite e…lastricate di nevrosi! pensò, sentendo riaffiorare vivo il suo vecchio umorismo.
Ma le velleità letterarie erano un rifugio momentaneo e in realtà voleva solo liberarsi da quello strano male dell’asfissia che era piombato da un giorno all’altro sulla sua vita tranquilla, senza una ragione, e le vorticava intorno come un mantice scuro stringendola tra le pareti della sua gola e quelle di casa.
« Piacere Felice». Ecco un altro topos in quella commedia satura di clichè: uno psichiatra di nome Felice. La porta si era aperta di colpo e Felice era apparso nei suoi magnifici trent’anni. Lasciò Dario in compagnia dell’uomo col cartello e fece accomodare Marta su una sedia al centro di una stanza immensa. Di fronte a lei, incorniciato dietro una grande finestra, c’era il mare e a fianco uno scaffale straripante di Letteratura. Di testi scientifici nemmeno l’ombra. «Ero iscritto alla facoltà di Lettere» – disse Felice – «poi mi sono innamorato. Di una ragazza che studiava psichiatria e quindi per osmosi della psichiatria. Ma il primo amore…». Marta sorrise mentre sentiva quella voce spandersi nelle vene e rilassare tutti i muscoli contratti come una droga dolce. Poi rimase in silenzio aspettando una domanda, con le mani sudate e giocando con l’orologio come se fosse al primo esame universitario. Felice la scrutava e annotava qualcosa su un foglio, ma cosa? «Non respiro più da un mese!»- esclamò Marta stanca di attendere – «anche in questo momento non riesco a respirare». «Bene, però mi sembri ancora viva no? E’ già un bel passo avanti.» Sorrisero e quel primo incontro fu piuttosto laconico ma in otto mesi ce ne furono di migliori.
Adesso Felice aveva uno studio in via Caravaggio, sul viale alberato. Erano passati due anni e lo spettro di Marta era tornato a farle visita, con un vestito nuovo ma ancora attanagliato alla sua gola. La paura di respirare aveva ceduto il posto a quella di soffocare con il cibo, per cui Marta aveva smesso di mangiare. Si era sentita ridicola a tornare da lui perchè stavolta non era più impreparata. Sapeva bene che il suo corpo stava portando in superficie un malessere profondo che il tempo e la mente avevano relegato in un angolo. Pensò a quei grovigli perfettamente tondi che spesso vedeva roteare sul pavimento del terrazzo sospinti dai ghirigori del vento e che poi ritrovava accantonati negli angoli. Erano fatti di polvere e capelli, paglia lasciata cadere dagli uccelli in volo e altri rimasugli. Una volta tra le maglie intricate vi scovò pure un pezzetto di carta venuto da chissà dove. Così compatti non riuscivi più distinguere i singoli elementi di cui erano composti. Felice era molto bravo ad aiutare le persone a districare grovigli.
«Ci eravamo lasciati con la tua promessa che non mi sarebbe più capitato e invece eccomi qui» gli recriminò Marta con un tono tra il deluso e l’ironico. «Beh era una bugia, ma ha funzionato, ti ha fatto star bene per due anni, no?» ribadì Felice machiavellico. Riuscì a farla sorridere come la prima volta e a farle invidiare ancora quel suo modo d’essere cinicamente placido. Era davvero tagliato per quel mestiere.
«Perché non vuoi finire l’università?» la freddò.
Marta rimase pietrificata, perché quella domanda? Insomma sto per terminare gli studi, manca qualche esame alla Laurea, ho ottimi voti e voglio davvero finire al più presto, anche se sono incerta su cosa accadrà dopo ma finire significa cominciare a pensarci, no?
«Voglio punire i miei genitori» rispose a quella domanda che si era calcificata a mezz’aria e si frantumò come un macigno sulla sua testa. E si pentì all’istante di quelle cinque parole che aveva liberato come un mostro da qualche antro del suo cervello perché adesso doveva motivare e articolare e scalpellare l’anima e questa operazione chissà perché le faceva sempre venire in mente il Supplizio di Marsia di Tiziano solo che lei si sentiva Apollo e Marsia insieme.
I suoi genitori si erano separati da quattro anni ed era stata una liberazione. Da quando aveva memoria di sè Marta aveva respirato in casa, insieme ai suoi fratelli, una tensione di piombo. Viveva nell’ansia costante che il silenzio, il grande padrone di casa, si infrangesse in mille pezzi da un momento all’altro insieme al tavolo con piatti e stoviglie scaraventato a terra da suo padre durante il pranzo. Non era violento, per la sua indole imbelle non avrebbe fatto del male a una mosca, come dimostrò quella volta che durante il periodo del “silenzio” sua moglie perse i sensi e lui atterrito si precipitò a soccorrerla amorevolmente. Una scena pietosa. Però suo padre aveva il dono del “lancio del tavolo” era un campione in quello, come sua madre padroneggiava “l’arte del rinterzo”, i figli facevano da sponda alla frase che doveva colpire il marito. I suoi genitori restavano muti per anni, sotto lo stesso tetto. Anni senza scambiarsi una parola, cercando di frequentare stanze diverse e di non incrociarsi mai. E Marta ricordava quella sensazione insopportabile di nausea quando li vedeva riconciliarsi. Poi tutto risprofondava in quel silenzio così familiare in cui lei e i fratelli avevano scavato una trincea sempre più profonda imparando ad essere ricettivi come soldati al minimo fruscìo di fronde.
«Rabbia. E’ questo il primo nome».
Provava rabbia verso quel passato che stava riaffiorando come una malattia sulla sua pelle, verso suo padre che si era trasferito in un altro paese e che lei andava a trovare sempre più di rado, poiché quando la vedeva riusciva solo a domandarle: «Allora, quando ti laurei? O almeno ti sposi?». Un coronamento a caso, insomma, tanto per poter continuare a far mostra agli amici della figlia esemplare. E invece ora suo padre era solo un disturbo psicosomatico che le annebbiava la mente anche se lui non lo sapeva. Non sapeva nulla di lei. Del resto era sempre stato un Peter Pan che non prendeva mai niente sul serio tranne il gioco d’azzardo e la sua dissennatezza non si era mai sposata con la salda coscienziosità della moglie.
«Mi sento come tra Scilla e Cariddi, sballottata dai flutti, da un capo all’altro della mia identità. Sono due figure ingombranti perennemente in lotta tra loro, l’istinto e la ragione, la pesante concretezza e l’insostenibile leggerezza. Mi sento in trappola su questa barca senza nocchiero, mi sento costretta tra queste rupi, oppressa.» disse trattenendo le lacrime.
«Insomma è come se ti sentissi soffocare, giusto?»
Ancora una volta con un sorriso Marta lasciò lo studio. Sfinita ma leggera stavolta prese la strada più lunga, quella che scendeva fino al mare.
Hai rappresentato benissimo il cammino del malato di depressione e hai indicato la semplicità delle soluzioni. E’ un testo di speranza per questa società depressa e contorta.
Complimenti.
Emanuele
Ti ringrazio Emanuele. Preciso che il testo non ha pretese universalistiche e Marta viene colpita da attacchi di panico, non proprio depressione. Ci tenevo a mostrare l’impotenza e lo smarrimento di fronte a eventi psichici che possono colpire anche “una vita tranquilla” e sfuggire al nostro controllo forse per ricordarci che il freno a mano del “controllo” delle nostre emozioni va disinnescato, ogni tanto.
Bellissimo questo inno alla speranza. E’ molto attuale per il problema che tratta, un problema che sta colpendo sempre più persone. Ho un debole per l’attualità e la sociologia, dunque non può che essermi piaciuto…
Ciao Matteo, grazie infinite. Anche il tuo racconto mi è piaciuto molto e ovviamente ho “googlato” subito il tuo nome. 🙂 Deformazione professionale o voyeurismo indotto dall’era 2.0? Forse entrambi. Certamente i social network, le cui dinamiche studio per passione e per lavoro, non hanno due volti come un Giano bifronte ma sono semplicemente un mezzo di espressione. E forse i prodromi del desiderio di apparire (o specularmente di spiare l’altro) vanno ravvisati nello stato di salute della nostra società prima che nella famigerata “rete”.
Mi accodo ai complimenti precedenti! E’ scritto davvero bene, score, come diceva un personaggio di Verdone! Sei riuscita ad inserire tanti richiami, dal titolo, a Tiziano(e quel quadro..così potente, terribile e malinconico nello stesso tempo…), a Kundera, senza appesantire la scrittura. Belle le similitudini presenti. Mi piace!!
Grazie anche a te Matteo! Le similitudini sono tra i miei “attrezzi” preferiti. Il citazionismo un po’ meno ma spero di averlo calibrato bene in funzione dell’atmosfera interiore che volevo rendere. Quel quadro di Tiziano mi ha sempre impressionato molto.
Davvero notevole, Marianna.
Erudito e assieme scorrevole, ironico e assieme disarmante.
Soprattutto, vero.
Lasciatelo dire da una che gli effetti di ‘quegli attacchi lì’ li conosce tutti per non essersi fatta mancare proprio nulla, dalla claustrofobia all’asfissia alla paura di mangiare, di cadere, di volare… di esistere.
E che, nonostante tutto, è ancora qua. 🙂
Brava.
Grazie infinite Nikki.
Noto molte convergenze tra i nostri racconti 😉