Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Racconti nella Rete 2009 “La ragazza del lago” di Bruna Lunari

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2009

Ho incontrato il mio amore nell’autunno del 1976. Arrivavo da Iseo per la prima volta in discoteca. Avevo da poco compiuto vent’anni, senza amori perchè appena dimostravo di saper parlare, appena donavo loro l’essenza, con i pensieri che vi si turbavano dentro, intorno a me si formava il vuoto. Allora con il giubbotto color panna e gli stivali bassi con le fibbie e con la borsetta  di vernice comprata ad una svendita, sono andata in discoteca  per stare zitta e fingermi quella che non ero.

 

Mi ero diplomata, nel luglio dell’anno prima e  in quegli anni una ragazza che faceva troppe domande, invadente e conturbante, era l’ultima cosa che un ragazzo poteva augurarsi d’incontrare. Non che fossi brutta, o che mi mancassero i soldi, anzi. Solamente che ad un certo punto i ragazzi scomparivano per poi ricomparire come pesci fritti nelle pentole delle giovani cerbiatte.

 

Mio padre  mi voleva un  bene dell’anima anche così,un poco saputella, ma nonna Lisa no, mi considerava un’anormale  e diceva sempre  che io sapevo il motivo.

 

Il sabato sera, quando le ragazze andavano in discoteca, durante i balli si strusciavano con le parti giuste del corpo ai ragazzi, io assetata di sapere, passavo l’intera serata alla biblioteca comunale perchè, perchè pensavo  che avrei trovato un giovane con il quale avrei potuto condividere la cosa più bella  e cioè l’amore vero, basato sulla stima reciproca. Questo non succedeva mai. Allora , se la vita  non voleva farmi conoscere l’amore vero, vivere non aveva alcun senso. In confidenza  le mie amiche mi dicevano che questi pensieri erano troppo profondi e che al mondo ci sono altre cose, ma per me le altre cose contavano poco o niente.

 

Una sera nonna Lisa mi aspettò in giardino con la garnera, che era un’insieme di rami secchi, e cominciò  a colpirmi fino a farmi uscire il sangue persino sul viso e dal naso. Aveva saputo da voci” paese piccolo la gente mormora” che i ragazzi mi evitavano perchè usavo  la mia abilità nel discutere per disorientarli e che io stavo mettendo nel ridicolo non solo me stessa ma pure tutta la mia famiglia. E giù botte da orbi e a sbraitare: maestrina! maestrina ! e a recriminare il giorno in cui  avevo combattuto e vinto la prima e unica battaglia con lei: quella di andare all’istituto magistrale e diventare un’insegnante elementare.

 

Un pomeriggio di fine estate dell’anno 1955, arrivò in paese mia madre che aveva poco più di vent’anni, dei quali sette trascorsi in una casa per lunatici nella perferia di Brescia. Scendendo dal treno alla stazione di Iseo, con la sua valigia di cartone piena di sogni, l’odore dei gelsomini nell’aria era fresco e delizioso. L’unica sua preoccupazione era quella di trovare una collocazione adeguata  per potersi riprendere.

 

Si era ammalata da adolescente, nella primavera del 1940, dopo la partenza  in guerra del padre e a quell’epoca  avere tredici anni , senza un padre era come essere già orfani.        Quel giorno  all’uscita di scuola, non lo aveva trovato ad attenderla al cancello. All’inizio pensò che fosse andato da qualche parte  con sua madre. Ma quando , arrivata a casa  vide sua madre con le lacrime agli occhi, seduta in cucina senza il padre vicino, le nacque dentro una grande paura. Uscì in giardino e urlando a squarciagola lo chiamò fino a notte fonda. Tornata dentro chiese a sua madre:” dov’è papà”? ” Papà”rispose lei con gli occhi gonfi” papà è andato in guerra”. “Perchè”? domandò lei”. “Perchè i potenti hanno deciso così, anche se la gente comune era contraria a questo intervento”.

 

Sua madre le voleva un gran bene, ma a lei questo non bastava. All’improvviso il suo”m’illumino d’immenso” era caduto dentro il pozzo triste e il mal di vivere si era impadronito di lei. Tutto ciò che aveva visto, ascoltato sentito  e pensato nei primi tredici anni di vita, puffete, era caduto giù nel burrone. La scatola  con i colori non c’era più. C’era soltanto la matita bianca, e in quel bianco con il tempo sarebbero forse tornati a brillare i sette colori dell’arcobaleno.

 

Dopo sette anni trascorsi in una casa per lunatici, in un mite  e ventilato pomeriggio settembrino, mia madre  arrivò a Iseo. Mio padre l’ha incontrato già la sera stessa, nel bar della stazione. Durante la presentazione mio padre l’aveva guardata con gli occhi del cuore. Che sorpresa il giorno dopo quando aveva scoperto che non era fidanzato. Per un attimo era rimasta senza fiato poi una carezzevole dolcezza aveva invaso il suo cuore. Fino ad allora aveva vissuto senza legami, perchè il mal di vivere non glielo  aveva permesso.

 

 Il 7 ottobre dello stesso anno si sposarono.Fino ad allora mia madre aveva posseduto occhi cupi e tristi. Di questi occhi e di molte altre cose dopo l’arrivo a Iseo non era rimasto nulla se non  la sola valigia di cartone con dentro qualche sogno sottratto alla sua infanzia. Lei per amore scioglieva  i folti capelli castani tra le mani del suo sposo e lo ammaliava con grazia femminile,quella grazia che bagna d’incanti miracolosi i gesti più normali della vita quotidiana.

 

Durante quei suoi primi mesi i matrimonio , mamma rimase incinta. La pancia aumentava a vista d’occhio ed era papà a darle tutte le attenzioni dovute, soddisfando giorno e notte  le sue voglie improvvise di cibi e vivande particolari così tipiche delle gestanti.

 

Una di quelle notti e precisamente il 31 di Agosto del 1956 , papà prese la bicicletta e corse a chiamare la levatrice del paese, mamma aveva rotto le acque e una nuova vita stava per nascere. La vita ero io: ero arrivata in una notte di fine estate, avevo invaso quella casa luminosa e piena d’amore delle mie grida improvvise, delle mie strane risate , si perchè  la casa in via dei ciliegi aveva i gerani  e le petunie sui davanzali che rallegravano le stanze e le facevano sembrare tutte luminose, quando il sole accendeva i colori dei fiori.  Se nella casa  in via dei ciliegi il sole portava allegria,  invece in via duomo c’era il sole d’inverno , che ti penetrava fino all’osso, e faceva gelare tutte le cose, è quella casa  io l’ho sempre odiata e da ragazzina nonna Lisa  mi rinchiudeva nel sottoscala quando mi trovava a leggere Schopenhauer.Quando  mia madre riprese le forze le dissero che, se non fosse stato per le continue attenzioni di mio padre, la creatura nata  non avrebbe potuto assomigliare alla luna che sboccia nell’alto giardino come un bel fiore in primavera e lei con un’idifferenza totale dovuta al post parto fece spallucce come per dire” chi se ne frega”. Il mal di vivere era ricomparso. 

 

Passati cinque anni  dalla mia nascita, il mal di vivere non l’aveva ancora abbandonata. Allora papà aveva cercato un bravo dottore.” La signora è esaurita” disse. E le ordinò un periodo di allontanamento dalla famiglia. Le disse di andare in alta valle, nella località più famosa ” Ronchi”, dove tanta gente  nella sua stessa situazione si era ristabilita al cento per cento.

 

Era un paese piccolo, poche case, una chiesa e dalla corriera  che la portava dalla stazione all’unico albergo, si stendevano folte abetine, che arrivavano fino ai piedi dei monti. Quando fu davanti all’ingresso dell’albergo, il sole stava calando. Era tutto così incantevole e bello, sotto quel cielo azzurro chiaro a strisce rosa e arancione, che pensò già di essere in Paradiso, perchè così non poteva essere che il giardino dell’Eden. L’albergo era molto accogliente, con i gerani alle finestre tutti fioriti, anche se era autunno inoltrato. Entrando nell’atrio mamma vide una donna vestita di bianco. Quella donna  vestita di bianco la prese per mano e assieme erano uscite  sul balcone dell’albergo e da li  a tra il rosa e l’oro puffetè, erano andate incontro al tramonto.

 

Prima della disgrazia papà era un papà felice e molto presente. La sera quando mi rifiutavo di andare a letto, papà mi leggeva delle storie che finivano bene. Ripeteva le favole, una, due tre volte, fino a quando mi addormentavo e io pensavo al domani come a una nuova e sempre più dolce festa. All’improvviso c’era un papà nuovo davanti a me e questo papà  non era più il mio papà. Pochi giorni dopo andammo ad abitare in via duomo  da nonna Lisa e da allora la mia vita cambiò negativamente. Nonna Lisa  non aveva accolto di buon occhio il matrimonio di suo figlio con quella signorina troppo malinconica e per di più un poco matta, arrivata ad Iseo  con la sola valigia di cartone e dopo la disgrazia il suo cuore si era ulteriormente raggelato nei confronti della nostra famiglia.Papà trovava disdicevole che una nonna non provasse dell’affetto sincero nei confronti dell’unica nipotina.Questa cosa però, per rispetto a sua madre che li ospitava nella sua casa in via duomo, non la diceva, la pensava perchè, perchè la mamma è sempre la mamma dicono… i più fortunati!

 

Così ho trascorso la mia adolescenza in compagnia dei miei amici libri, fino a quando ho deciso di diventare un’altra persona, quella che mia nonna si aspettava che diventassi  e cioè sleale . Ma fortunatamente  quel giorno del 1976 in discoteca  ho incontrato un giovanotto con il quale ho condiviso e condivido tutt’ora una vita onesta e sincera  e  parlo fino a notte fonda senza mai stancarmi.       E la casa in via dei ciliegi non è più disabitata. Subito dopo l’incontro con il mio amore abbiamo deciso  di comune accordo di venire a viverci.E’ un meraviglioso  nido d’amore, pieno d’affetti, con le pareti dipinte di rosa e i gerani alle finestre e dei colombi  sull’abbaino e al fianco della casa  una finestra grande, aperta fino al pavimento contornata da ringhiera, con l’edera rampicante e i panni stesi al sole caldo del mattino.Mamma dall’alto ci protegge con il suo amore, papà fa il nonno a tempo pieno raccontando ai suoi nipoti ed anche a me tante belle  cose della sua dolce metà e nonna Lisa  pace all’anima sua  l’ho perdonata . 

 

 

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