Premio Racconti nella Rete 2013 “Castelli di sabbia” di Beatrice Bacci
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2013«Buon compleanno, Celeste.» disse il vecchietto porgendo alla bambina un pacchettino, che fu scartato con una ferocia esemplare. Dentro c’era un coltellino svizzero, di quelli grandi e marroni. «Così potrai sempre scavare un tunnel e scappare, se ti troverai ad averne bisogno, come ho fatto io durante la guerra.»
La bimba lo guardò con occhi scintillanti: «Grazie, nonno.»
Il bar era quasi vuoto quella sera. C’era un uomo seduto al bancone, con un tovagliolo puliva abbastanza ossessivamente il bordo di un bicchiere di qualcosa di forte. Una donna piuttosto giovane che indossava un grembiule, appoggiata dietro al bancone con la schiena, scheggiava il pavimento con un coltellino svizzero, di quelli grandi e marroni. Lo scheggiava sempre nello stesso punto, come se volesse fare il buco più profondo possibile. Un uomo, non quello che strofinava il tovagliolo sul bicchiere, un altro, uscendo dalla porta della cucina e vedendo la ragazza rovinare il pavimento di legno, cominciò a gridare qualcosa a proposito di quello che gli faceva spendere per rifare quel parquet tutti i mesi. La ragazza continuò a scheggiare il pavimento, con più forza e più velocemente. Ciò, ovviamente, fece infuriare l’uomo, che la buttò fuori dalla porta urlando. Nella spinta le cadde il coltellino. L’uomo che era al bancone se ne accorse, lo raccolse e uscì sotto la pioggia. Aiutò la ragazza ad alzarsi e le mise il proprio cappotto sulle spalle, per poi porgerle il coltellino. Voleva solo essere gentile. Lei cominciò a piangere, ma non si vedeva sotto la pioggia. Lui le chiese: «Perché scavavi il pavimento?»
«Perché così posso fare un tunnel e scappare.»
«Scappare dove?»
«Non lo so… a casa.»
L’uomo, che aveva uno strano presentimento, continuò: «Di’ un po’, ce l’hai una casa? Un posto dove andare adesso?» Lei scosse la testa. «Allora vieni.» La portò nel suo appartamento, e lei ci restò.
Quella mattina non faceva neanche poi così caldo per essere il 12 Luglio. Celeste prendeva il sole sulla sdraio, vicino al mare. Suo marito puliva il vetro della maschera con un panno disinfettato. Per la settima volta. Era un giorno del tutto tranquillo.
Lo strillo acutissimo di una bambina si alzò a pochi metri da lei, poi risate e altri strilli… di suo figlio. La donna si alzò precipitosamente e prese in braccio il bambino di due anni che la bambina di sette stava prendendo a rastrellate sulla testa, stringendolo al cuore e tentando di calmarlo. Un secondo dopo arrivò l’altra mamma, che prese per mano la colpevole e le tirò uno scappellotto sulla nuca. «Mi scusi tanto. Andiamo, Virginia.» Nient’altro. Celeste si portò il bambino alla sdraio, senza mollarlo, neanche quando lui si divincolò. Cercò di distrarlo e di tenerlo a sé, ma fu costretta a lasciarlo andare. E voleva scavare un tunnel e scappare, ma chi è più libero di chi è davanti al mare?
Una bambina faceva un castello di sabbia sul bagnasciuga. Utilizzava un coltellino svizzero, di quelli grossi e marroni, incrostato di rena, per togliere fettine sottili di sabbia alla base e per disegnare dettagli sulla parete.
Una donna passò davanti a lei, togliendole la luce obliqua e rossastra del sole calante. Virginia alzò la testa e vide questa signora guardare per terra con la schiena curva, strizzando gli occhi per vedere bene. «Cosa cerchi?»
«Un coltellino svizzero, di quelli grossi e marroni, hai presente?»
«Questo? L’ho trovato prima nella sabbia.» chiese Virginia.
«Sì, è proprio quello! Grazie, tesoro.» Celeste si rigirò il coltellino tra le dita, aprendolo e chiudendolo ritmicamente. «Bel castello.» aggiunse.
La bambina sorrise. Era fiera della propria opera. Proprio un bel castello. E il punto forte era la sua fragilità. «Basta una conchiglia piccola così» disse, mostrandole una conchiglia grande come un pisello «per far crollare tutto.» Mise la conchiglia sulla punta più alta della fortezza. Crollò tutto.
Celeste si sedette per terra e si mise a scavare, continuando a fare ombra su Virginia.
«Perché scavi?»
«Perché voglio scappare.»
«Perché vuoi scappare?»
«Perché sono triste.»
«Perché sei triste?»
La signora ci pensò un attimo. «Perché hai distrutto il castello.»
«Ma tu sei matta?» chiese Virginia, con innocenza perfetta.
Celeste si fermò e la guardò. «Sì. Sì, sono matta.»
«Virginia» chiamò sonnolento il ragazzo dal letto «cosa c’è? Torna a letto.»
«Dormi.» lo zittì lei.
«Ma se non spengi la luce…»
Virginia spense la luce: «Adesso dormi.»
«Virginia.» il dormiglione sbadigliò e si alzò dal letto, barcollando e strizzando gli occhi per vedere dove fosse la sua ragazza. «Virginia?»
Nessuna risposta, ma sentì il rumore di una tazza posata su un tavolo provenire dal salotto. Girando l’angolo, la vide in piedi davanti al cavalletto. Era in camicia da notte, e nonostante dalle occhiaie si vedesse che era stanca, gli occhi le brillavano come in una sorta di trance. Con la mano che reggeva il pennello si scostava continuamente i capelli dalla fronte, appiccicati dal sudore della notte estiva.
«Virgy. Hai dipinto al buio tutta la notte?»
La ragazza alzò lo sguardo, sorpresa che lui fosse lì. Poi guardò fuori dalla finestra, accorgendosi che ormai era giorno. Poi guardò di nuovo la tela. Diede altre due pennellate. «Ho finito.»
«Posso vedere?»
Virginia gli fece cenno con la mano di avvicinarsi. Aveva dipinto un castello di sabbia, si riconosceva per il colore e per le merlature sulle torri. Tuttavia le proporzioni erano volutamente scambiate: era troppo sottile in basso e troppo largo in alto. Sui muri erano dipinti ghirigori con una linea più scura, come piccole figure bitorzolute che avevano preso il posto dei mattoni. Una conchiglia rosata era sospesa sopra la torre più alta.
«E’ bellissimo, Virgy!»
«Ti piace?»
Lui la baciò. «Lo faccio vedere a Domenico. Secondo me te lo mette all’asta. Puoi diventare una pittrice famosa!»
La donna entrò in cucina sbattendo la porta. L’uomo la seguì urlando: «Hai dipinto sui miei grafici! Mi servivano! Adesso cosa dirò al mio capo?»
«Vuoi dei soldi? Te li do! Sono piena di soldi! Sono Lady Alice, adesso!» rispose, e cominciò a sbattere violentemente padelle e ante per preparare la colazione.
«Sì, grazie a me! Io ti ho fatto diventare famosa!» Lui cercava di rincorrerla, mentre lei si muoveva per tutta la cucina aprendo ogni singolo cassetto per trovarvi un coltello diverso.
«Non ti azzardare, sai? Non farmi venire il senso di colpa, perché tanto lo so.»
«Cosa? Cosa sai?»
«Che mi vuoi ammazzare!»
«Cosa?! Ma come ti è venuto in mente?!»
«Lo so e basta! Mi vuoi ammazzare, non provare a negarlo!»
«Ma non è vero!» L’uomo la afferrò per un polsoe la fece girare, e lei, spaventata, tirò fuori un coltello dal cassetto e glielo puntò al viso. Lui la lasciò andare e indietreggiò.
«Virginia. Calmati.»
«Non chiamarmi Virginia! E non dirmi mai di calmarmi!» e lanciò il coltello, che graffiò la sua testa e poi volò fuori dalla finestra. Lui urlò di dolore.
«Oh mio dio.» mormorò lei. Uscì di casa. Non voleva vedere il sangue. Di questo era sicura. Non voleva vedere il sangue.
Le eleganti signore nella stanza ridevano tutte, controllatamente per non rovesciare il tè che bevevano da preziose tazze di porcellana.
«Oh, Filomena, ma dove le trovi queste storielle così esilaranti?»
«Oh, è il circolo di bridge, voi non sapete che cosa viene fuori durante le partite più noiose!»
Un uomo vestito di tutto punto si schiarì la gola: «Signore. E’ con immenso piacere che vi presento Lady Alice.»
Una donna apparve teatralmente in cima alla scalinata, vestita di seta rossa. Lo scintillio del suo collier si rifletteva in barlumi d’invidia negli occhi delle signore sedute in poltrona, che applaudirono entusiaste. Lady Alice si crogiolava in questa adorazione, e catalizzava l’attenzione del suo salotto.
Al suono del campanello, il maggiordomo andò a sentire chi fosse. Si avvicinò discretamente alla padrona di casa, e le sussurrò in un orecchio il nome dell’ospite. Lei impallidì. Si scusò mormorando con le distinte signore e andò nell’ingresso, per proibire categoricamente al maggiordomo di far entrare il suo amante, perché sicuramente, in quel preciso momento, tramava per ucciderla.
«Alice? Alice, mia cara, sei lì?» chiamò l’anziana donna, salendo lentamente le scale. Si sentì ridere dal piano di sopra. «Alice? Sei tu?»
«Mi dispiace, signora Agostini, ma Lady Alice non si sente bene, ha chiesto di poter evitare di ricevere chiunque. Sono certo che per lei farebbe un’eccezione, ma non vuole contagiare nessuno.» disse l’uomo, anche lui non più tanto giovane, che apparve in cima alle scale e scese per accompagnare l’anziana signora, dandole il braccio.
«Oh, d’accordo. Può dirle che sono passata? Le telefonerò oggi pomeriggio. Volevo invitarla al tè che darò domani per l’uscita del mio nuovo romanzo…»
«Glielo dirò senz’altro, signora Agostini. Buona giornata e auguri per il suo romanzo.» disse l’uomo chiudendo la porta. Risalì le scale ed entrò in una camera grande e piena di luce. C’era un letto, nella stanza. Sopra il letto era seduta sui talloni una donna rinsecchita e piena di rughe. Dipingeva con colori scuri, e macchiava il vestito, il letto e il pavimento. Ogni tanto si fermava a guardare la tela e ridacchiava tra sé.
L’uomo si fermò a guardarla, la donna che amava, e sospirò. La creatura fragile che era stata si era chiusa a riccio nella sua bolla di cristallo. Era tanto tirarle fuori due parole alla settimana. I suoi quadri vendavano benissimo, certo. Pazzia in bottiglia, praticamente.
Celeste stava facendo la lavatrice quando il campanello della porta suonò. Facendo leva sulle ginocchia stanche, si alzò per andare ad aprire.
«Chi è?»
«Celeste, sono io, Domenica!»
«Ah, Domenica, sali pure!»
Celeste andò a mettersi un maglione meno comodo e le scarpe, per accogliere l’amica in casa. Dieci minuti dopo stavano prendendo il tè comode in poltrona.
«Allora, cara, qual buon vento?» chiese Celeste portandosi la tazza alle labbra.
«In realtà non tanto buono, sai? Da quanto non senti tuo figlio?»
«Mi ha telefonato ieri, stava bene. Vorrei che si sposasse, però. Se lo merita.»
«Be’, mi dispiace molto dirtelo, ma ho trovato Marina dal salumiere ieri e mi ha detto che qualcuno le ha detto che tuo figlio sta avendo dei problemi…»
«In che senso, dei problemi?»
«Non era molto chiaro da quello che mi ha detto, ma pare che abbia problemi di droga.»
«Di droga?!» Celeste, sconvolta, posò la tazza sul piattino tremolante.
«Tesoro, ti vedo pallida, stai bene?»
«Forse… forse sarebbe meglio… che andassi, adesso.»
«Se… se è quello che vuoi, Celeste, me ne vado, ma sicura di non aver bisogno di nulla?»
«Tranquilla, sto bene, devo solo avere un momento per me…»
Quando Domenica fu uscita, Celeste si sedette sul pavimento e cominciò a scavare un buco. Erano mesi che non lo faceva. Stava andando tutto bene. Fino ad allora. A volte il destino fa finta di essersi dimenticato di te, della tua storia, per quanto assurda fosse stata. Ma non si dimentica mai veramente di nessuno di noi. E trova sempre dei modi per rendere le nostre storie più assurde.
Celeste si alzò dal letto al buio cercando di non fare rumore e di spostare le coperte il meno possibile, per non svegliare suo marito. A tentoni cercò i vestiti che aveva lasciato sulla sedia e li portò in cucina per cambiarsi. Mise il cappotto e uscì di casa, chiudendo la porta delicatamente. In strada, la luce dei lampioni illuminava male la città scura. Doveva trovare suo figlio. Sapeva che lui era lì per le strade, si erano dati appuntamento là fuori, doveva convincerlo a tornare a casa, ad avere una vita migliore. Doveva convincerlo a tornare da lei, lei che lo amava, forse era l’unica che l’avesse mi amato, in realtà. Non sapeva cosa aspettarsi. Non vedeva suo figlio di persona da tre mesi, forse lui era cambiato, forse la droga lo aveva già trasformato in qualcosa di diverso. Ma Celeste sapeva che sotto tutti gli strati sarebbe semre rimasto il suo bambino e che nessuna droga sarebbe riuscita a portarglielo via.
«Tu non capisci, mamma. Tutta la vita sono stato condizionato dall’avere genitori matti. No, non mi importa niente di cosa dicono i dottori, perché quello che siete veramente, come dovreste avere il coraggio di chiamarvi è matti. Non ho potuto avere una vita normale, vivendo con voi. E adesso ho trovato delle persone che accettano e non fanno domande, perché sanno come ci si sente. Perché spesso sono partiti anche più svantaggiati di me. E adesso devi lasciarmi vivere la mia vita, è chiaro?» le aveva detto al telefono. E quello che spaventava Celeste più di ogni altra cosa era il tono con cui aveva fatto quel discorso. Perfettamente calmo.
Ma era riuscita a strappargli un incontro. Per strada. Di notte. Non era una situazione che Celeste temeva, non più di tanto.
Ed ecco, nel vicolo dove si erano dati appuntamento, spuntare dalla strada principale la sagoma di un uomo, in controluce. Celeste fece qualche passo avanti. L’uomo neanche si fermò, semplicemente alzò un braccio e le sparò.
Non era suo figlio. Era un uomo qualunque, che aveva appuntamento con un’altra persona qualunque nello stesso posto. Aveva appuntamento per ammazzare qualcuno. Ma questo Celeste non lo sapeva.