Premio Racconti nella Rete 2013 “Oggi e domani” di Noemi Buttitta
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2013Era sabato.
Stavo seduto su un ceppo, in mezzo a un campo dorato. L’unico ceppo in mezzo al campo lo stavo dominando io, con le mie paure, le mie speranze e i miei pensieri. Erano le tre di un pomeriggio bellissimo. Il cielo possedeva il colore azzurro più intenso che avessi mai visto. Un soffio d’aria vagava per i campi di grano che, appena si sentivano sfiorati, facevano ondeggiare le loro spighe dorate.
Mi divertivo a guardare le nuvole; gustarne i colori e assaporarli con un po’ di fantasia sembra il più facile dei passatempi, ma solo la spensieratezza dei bambini può farne godere veramente i risultati ,scovando, fra di esse, quella che più ci assomiglia e nella nostra fantasia infantile, associarle un oggetto o un animale a noi conosciuto. Stavo aspettando mio padre: domenica mi avrebbe portato con sé all’ospedale per mostrarmi il luogo dove lavorava. Non mi aveva mai parlato del suo mestiere: voleva proteggermi dalla vita degli adulti.
Si era fatto ormai tardi e dovetti tornare a casa. Corsi per il campo e arrivai fino al sentiero che attraversava la collina verso la mia abitazione. Avevo appoggiato la bicicletta dietro ad un albero, ci montai sopra e cominciai a pedalare. Arrivai. Mia madre stava preparando la cena, mentre mio padre era appena rientrato. Li salutai. Preparai la tavola e mangiammo. Subito dopo andai a letto. Mi addormentai e, quella notte, feci il più brutto incubo mai sognato prima: ”vidi” la vita, quella vera.
Il sogno
Era mattina e mi stavo preparando per andare a visitare l’ospedale del villaggio. Feci una colazione veloce, mi lavai, mi vestii e attesi mio padre davanti alla porta. Non era ancora pronto. Gli ricordai che mi doveva portare con sé; si vestì velocemente, prese un caffè e uscimmo di casa. Era ancora mattina presto: il buio s’impossessava di ogni cosa che si trovasse lì intorno. Cercammo la macchina, tastando con le mani davanti a noi. Finalmente la trovammo, salimmo, ci allacciammo le cinture e partimmo. L’ospedale era distante da casa nostra una ventina di minuti, ma il tempo non passava mai. Sbuffavo, mi contorcevo in tutte le posizioni possibili e, alla fine, accesi la radio. Ci mettemmo entrambi a cantare a squarciagola la nostra canzone preferita ,anche se nessuno dei due riusciva a trovare la giusta intonazione. I suoni che uscivano dalle nostre labbra urtavano contro il muro del silenzio, facendoci rabbrividire. Guardai fuori dal finestrino: le tenebre si ostinavano a prevalere sulla luce. Sull’asfalto strisciavano animali notturni, alla ricerca di cibo mentre, da dentro i fossi ai lati della strada, intravidi qualcosa in movimento. Cercai di non prestarci troppa attenzione, ma la mia mente continuava a mostrarmi l’immagine di quell’essere che, poco tempo prima, mi aveva terrorizzato. I miei occhi iniziarono a vagare nell’oscurità dei campi. Niente: solo serpenti di grano che si staccavano dalle loro radici, cadendo a terra, pronti per venirmi a mangiare. Finalmente arrivammo a destinazione: scendemmo dalla macchina ed entrammo nell’edificio.
La mia mente stava già producendo idee ”spassose”, quando mio padre iniziò a raccomandarsi. Subito dopo essersi allontanato da me, io mi sedetti sopra una sedia della sala d’attesa. Guardai l’orologio appeso al muro: la lancetta segnava le sei in punto. Mi misi a perlustrare la zona con gli occhi: i medici correvano ovunque indossando camici bianchi, le ambulanze arrivavano velocemente vicino alle porte mentre io, seduto sulla sedia, non mi sentivo nessuno; questa sensazione mi percorreva sin dalle piante dei piedi, fino a raggiungere la parte più alta del mio corpo. Tutte le urla provenienti dalle stanzette mi terrorizzavano e non riuscivo ad immaginare cosa vi potesse succedere all’interno. Intravidi, in fondo al corridoio principale, una stanza con la porta socchiusa. Mi avviai verso quella direzione. Appoggiai la mia mano destra sulla maniglia, le diedi un piccolo colpetto e si aprì. Le mani mi sudavano, tremando. Entrai e feci qualche passo. In quella stanza c’era un silenzio profondo, quasi di venerazione, che mi faceva sentire come un’ intruso. Vidi un lettino. Vi era disteso un uomo anziano. Aveva gli occhi chiusi. Nel momento in cui il mio sguardo si fermò a fissarlo, le mie sottili labbra cominciarono a far crescere un sorriso. Non era un sorriso di compassione, ma di consapevolezza di ciò che mi sarebbe successo un giorno. Non era un sorriso voluto ,anzi : cercai di cancellarlo dal mio viso ma lui insisteva e, più ci pensavo ,più s’ingrandiva. A quel punto lo lasciai fare e smisi di opporre resistenza al mio ”io”, che stava diventando più potente del mio corpo. L’anziano socchiuse gli occhi, come se avesse percepito la mia presenza e mi fissò. Aveva due organi oculari chiarissimi, quasi trasparenti. Accanto al lettino c’era un piccolo comodino e, riposto con cura sopra di esso, vidi un libro con poche pagine, tutto consumato: doveva essere stato letto per una vita intera. Era aperto. Lessi il titolo della pagina: ”Il sabato del villaggio” di G. Leopardi. L’uomo mi fissò ed il suo sguardo mi costrinse ad incrociare la sua vista. Sorrise anche lui.
Chiuse gli occhi.
Presi il libro: ora stava a me leggerlo.
Era domenica.
Neanche un commento…
Il sogno è carico di suspense, la tensione cresce fino alla scoperta della vita. E’ come il velo di Maya che cade, quella porta che si apre. L’anziano mi fa pensare ad un idolo millenario; a qualcuno che conosce i segreti della vita e della morte, oltre che al futuro del protagonista. Il fatto che legga “Il sabato del villaggio” è un’idea eccellente, un richiamo a tutto quello che significa quella poesia. Bella anche la descrizione iniziale, del campo dorato e del cielo. Mi piace!!
Grazie mille MATTEO
Che bel racconto, una lettura agile e piacevole. E’ molto bello l’accostamento a Leopardi. Brava Noemi!
Buongiorno Matteo. Bassioni, grazie mille per il commento. Diciamo che l’accostamento con questo grandissimo poeta ha fondato tutto il tema del racconto…