Premio Racconti nella Rete 2013 “Due Ore” di Maira Bonfiglioli
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2013Stava finendo un secolo, il Novecento. Forse era il ’98. Mia zia paterna stava morendo lentamente di leucemia. Mio padre ed io eravamo stati a trovarla a Massarella, un piccolo comune vicino Fucecchio, dove lei abitava e dove tutti loro quattro fratelli erano cresciuti. Dal poggio dove si erge la piccola chiesa di Massarella si vedeva la casa colonica dove mio padre era cresciuto. Sapevo che da dietro di essa si iniziava a vedere la distesa acquitrinosa del padule, i luoghi dell’infanzia e della giovinezza di mio padre. Qualcosa di inscritto nel suo dna, parte delle sue cellule, delle sue fibre ottiche, del tono della sua voce. Non ricordo come mai eravamo davanti alla chiesa. Eravamo solo io e lui, un uomo vecchio, alto e magro e sua figlia quarantaduenne in un tardo pomeriggio di fine estate. L’espressione della sua faccia era di smarrimento. Ho impressi nella mente le sue tempie grigie e crespe e quello sguardo che gli ho sempre visto in faccia periodicamente per tutta la vita. Stranamente per il suo carattere taciturno e riservato mi parlò direttamente di cose sue. Io rimasi stupefatta e silenziosa. Il silenzio ci aveva uniti per tutta la vita, come complici in un’ impresa difficile, disperata. – Vedi quella – disse indicando una stele commemorative sul muro della chiesa. Guardai la stele, sopra c’erano sette nomi, quasi tutti con lo stesso cognome. – Io ero con loro- continuò –sono vivo per due ore. Ero in padule con loro e mio zio. Avevamo un barchino; ci stavamo nascondendo dai tedeschi. Mio zio disse che non si sentiva sicuro e che si voleva spostare. Loro, invece, non volevano cambiare nascondiglio. Io e mio zio ci spostammo di notte su un poggio. Dopo due ore loro erano già tutti morti. Poi tacque. La fatica di queste poche parole era in tutto il suo essere. Era palpabile l’imbarazzo suo e mio, come se un velo fosse stato sollevato su qualcosa di troppo intimo per essere condiviso. Non so perché mi volle raccontare questa storia, che non avevo mai sentito nemmeno da altri familiari. Forse la sua vecchiaia e la fine imminente di sua sorella lo avevano convinto che questo suo scarno racconto dovesse essere tramandato. Non ho mai saputo niente della sua vita interiore, né delle sue emozioni, né tanto meno di quanto questo abbia influito sulla sua vita. Le poche cose che sapevo di mio padre le avevo apprese da mia madre e dalla nonna materna. Sapevo che da giovane, nel dopoguerra, cantava nelle sale da ballo. C’era poi il racconto mitico di come fosse bello e distinto, lui un contadino, quando vestito da carabiniere tornava a casa in licenza dal servizio militare, tanto che fu soprannominato “Il colonnello”. So che si era tenuto la Beretta da carabiniere perché la vedevo nel suo comodino, sempre scarica, quando io e mia sorella da bambine, spiavamo nelle cose dei grandi. Sapevo anche che non avrebbe dovuto tenerla. Infatti a un certo punto sparì. Sapevo che aveva fatto le Commerciali: tre anni di scuole serali dopo le elementari; di giorno lavorava nei campi. Sapevo che non aveva voluto continuare la carriera militare, che lo avrebbe liberato dalla miseria, a causa della gerarchia, dell’obbedienza. Preferì tornare a fare il contadino: suo padre coltivava a mezzadria le terre di un proprietario inglese. Mio nonno, benché fosse una persona perbene, era un patriarca ottocentesco manesco e dispotico. Mio padre non ha mai alzato un dito, né verso la moglie, né verso le figlie. Aveva però scatti di rabbia e bestemmiava accanitamente, come molti toscani. A volte era felice e cantava con voce impostata. Penso che suo padre e la miseria abbiano avuto un grande peso nella formazione del suo carattere solitario e riservato. Poi ci sono stati gli anni ’60-‘70, mio padre divenne prima operaio tessile a Prato e poi commerciante di stoffe. Tutti seppellirono le vecchie storie di guerra. C’erano le minigonne, i mangiadischi. Tutti erano impegnati a guadagnare per costruirsi qualcosa che non avevano mai avuto prima: la casa, far studiare i figli. La furia iconoclasta della mia generazione, i nostri capelli lunghi, i pantaloni a zampa, l’amore libero, le manifestazioni, mi hanno allontanato definitivamente dal domandarmi chi fossero mio padre e mia madre. Erano solo un’autorità alla quale sfuggire. È stato solo pochi anni fa, nella mia maturità e dopo la morte di mio padre che ho voluto indagare meglio su quell’episodio. Ho saputo da mia madre che mio padre si trovava in padule perché era scappato a piedi da Pisa, dove, come carabiniere di leva, era stato messo di guardia alla stazione del treno. Subiva i bombardamenti americani già da un anno; non aveva ancora venti anni. Poi nel luglio del ‘44 gli americani entrarono nella già martoriata Pisa e si scontrarono con i tedeschi che però erano ormai in ritirata incalzati dagli anglo-americani e dalle formazioni partigiane. Lo zio paterno di mio padre si nascondeva in padule per non farsi arruolare. Lo avrebbero mandato a combattere nella repubblica di Salò con la liberazione ormai alle porte. Il padule era pieno di gente come mio padre e suo zio, di sfollati, di renitenti alla leva. Anche i Sette Martiri erano due padri, parenti tra di loro, con i rispettivi giovani figli più due sfollati, di cui un renitente, più un giovane uomo. Il 23 agosto del ’44 i tedeschi in ritirata rastrellarono il padule in cerca di partigiani con l’aiuto dei fascisti locali. La ferocia nazista si scatenò sulla popolazione civile. Vennero considerati tutti partigiani. Furono trucidati donne, vecchi e bambini oltre ai giovani uomini. In tutto 175. Massarella, le Querce, Ponte Buggianese, Cintolese, Castelmartini, Stabbia. A Ponte Buggianese la mia bisnonna materna ebbe tre lutti, di cui due erano bambini di tredici e dieci anni. A Massarella la piazza della chiesa è intitolata ai sette martiri come pure il Circolo Arci di fronte ad essa. Dopo la morte di mio padre ho trovato tra i pochi documenti importanti della sua vita (gli atti di acquisto di due appartamenti. Due, come le sue due figlie), una croce di guerra al valor militare che non avevo mai visto prima e di cui nessuno mi aveva mai parlato.
Tutta la mia vita sono stata affascinata dal male di vivere; quando la vita viene interrotta nel suo ordinario fluire e mostra il suo lato oscuro. Ho letto Primo Levi da ragazza e l’ho subito amato. Non sapevo che i suoi libri mi riguardavano personalmente. Nella sue pagine si possono trovare le ragioni del silenzio di mio padre. C’è una vergogna nel sopravvivere ad altri che hanno condiviso con te gli orrori della guerra. C’è una vergogna nell’aver avuto paura, nell’essersi sentiti inermi, laceri, in balia di forze soverchianti. Davanti alla morte degli altri e al ricordo delle atrocità, l’essersi salvato la vita non genera felicità, ma pudore. Due ore è tutto ciò che mi disse mio padre. “Niente” può essere la differenza tra la vita e la morte. L’insensatezza del nostro essere al mondo si rivela a noi lasciandoci sgomenti e consapevoli che la tragedia può avvenire di nuovo, che tutto può essere distrutto. Non ci sono parole per questo, solo il silenzio ne è un testimone fedele.
Ma, babbo, quando sei scappato da Pisa eri solo? I Sette Martiri erano amici tuoi o compagni di sventura? Dividevate con loro il cibo che tua madre e tua sorella vi portavano? Dove dormivate? Come? Facevate dei turni di guardia? Quanto sei rimasto in padule? …
Bellissimo racconto. Molto emozionante.Sicuramente il migliore di quelli letti fino a ora. Merita la vittoria!!!!
Racconto molto bello e personale , molto scorrevole e scritto bene.
Maira buonasera ed i miei complimenti per questa storia che tu ci racconti e per un pezzo di storia che ci ricordi.
Immagini e sfondi che ci fai vedere nella descrizione di un viaggio che ne contiene diversi altri….
Sono state incredibilmente tante le risonanze, leggendo, coincidenze di parole, numeri, luoghi, nomi.
Questo ha reso più profonda la mia lettura ed ho sentito come scorrere ogni cosa in movimento tra le tue righe fitte, come una ruota che ha girato anche per me e attraverso chi è stato prima di me.
Un proiettore, il suo ticchettio e un telo o una parete ed una e altre storie che tornano.
Per la vicinanza che ho provato dico d’impatto e d’impulso che è un racconto molto bello e di senso, ma non sarei onesta se non aggiungessi che non è solo per questo che questo si può dire, e dunque davvero tanti bei complimenti e spero che molti altri riescano a leggerlo.
Cari Auguri….
Emanuela
Cara Maira, nel tuo racconto rileggo storie simili di famiglia che mi sono state raccontate “a pezzi” nel mio passato da chi adesso non può più farlo. Primo Levi ha lasciato memoria scritta, ma tantissimi sopravvissuti non hanno saputo, potuto o voluto farlo. Solo qualche parola, bocconi di paura che non si digeriscono nemmeno in una vita e si rigurgitano ogni tanto davanti a chi non c’era. Ognuno passa il testimone come può e tu l’hai raccontato molto bene. Una storia che merita di essere letta e riletta. Complimenti.
Silvia
Racconto bello, evocativo e quanti spunti di riflessione…ma il silenzio può davvero unire?Quanti possono ricordare ” quei silenzi ” che hanno accompagnato il nostro vissuto familiare. Eravamo così egoisticamente convinti di essere i predestinati a una vita emotivamente ricca, migliore,vera.Tale presunzione ha cancellato la voglia e la forza di fare delle domande o meglio, quelle domande che vanno a fondo, scavano, pretendono risposte esaustive ,così adesso potremmo definirci una generazione senza risposte.Sono sicuramente valutazioni strettamente personali e ognuno può trovare le sue ,ma a questo serve la buona lettura. In bocca al lupo ,meriti la vittoria.
Molto bello. Mi riporta alla mente le esperienze di quel periodo raccontatemi dalle mie nonne, con tutta la sofferenza nel vedere che tutto ciò che ti è più caro viene strappato via, la paura di non riuscire a sopravvivere e di soffrire ancora, il senso di colpa per continuare il proprio cammino senza quelle persone che lo avevano iniziato con te. È bello ricordare quello che è stato parte della vita passata dei propri cari a cui molte volte non diamo la giusta importanza. molte domande nascono al momento in cui se ne vanno e non potendo avere una risposta lasciano un senso di vuoto dentro. Grazie per avermi fatto ricordare.