Premio Racconti nella Rete 2013 “Ho messo il catetere a una fragola” di Simona Acanfora
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2013Andare a lavorare nei giorni segnati in rosso sul calendario è facile da supporre che non faccia piacere a nessuno. Tanto meno a me. E quando lo faccio neppure mi sento migliore degli altri che si godono il festivo. Lo faccio perché lo devo fare, obbedisco al comandamento numero uno ed unico del Dio del dovere: fa ciò che devi fare.
Ho frequentato le elementari in Via Aurelio Saffi 61, alla Scuola Elementare “Aurelio Saffi” del Comune di Piana dei Pellegrini. La Maestra, unica, e meno male, si chiamava Antonietta Felicita Maria Annibaldis e il bidello era Ciccio l’Archimede.
Il camice scuro, teso del lunedì, gli arrivava una spanna buona sopra il ginocchio, una gamba offesa gli aveva dato l’occupazione e nelle mani un universo preciso di fantasia. Abile realizzatore di ingegni favorevoli al piacere degli occhi, aveva lasciato tutti senza parole quando nel Natale del ’69 aveva donato alla parrocchia la Madonna di Latta. Una figura a dimensione naturale fatta di alluminio, tappi di bottiglia per aureola, fili elettrici, lampadine, biglie a fare gli occhi e sughero che all’occorrenza, spingendo il piede sulla pedaliera, dondolava tra le braccia il Bambinello.
Non si era mai sposato ma aveva fatto in tempo a sentirsi solo. Nonostante i dieci fratelli, la mattina di Pasquetta di un anno fa era rimasto l’ultimo vivente della sua famiglia.
Sono entrato in casa sua con la mia borsa da lavoro alle sette e trenta del giorno di lunedì in Albis del 2012. Ciccio l’Archimede era sveglio, a letto come oramai da mesi, lo sguardo vivido e una strana calma di rifiuto.
<Don Ciccio, come andiamo?>
<Come meglio non si potrebbe.>
<Vi sento ottimista, sono contento. Adesso vi metto la flebo con dentro la medicina vostra classica, cambiamo il catetere e misuriamo un poco la pressione. Che dite? Va bene?>
<Va bene, va bene, – esita – ma non per me.>
<E lo so Don Ciccio, dovete portare un poco di pazienza.>
<Con la medicina? E da quell’altra parte, poi, che ci porto?>
Sorrido e, intanto che diceva così, lo vedo perdere il ritmo del respiro e arrancare, guardare nel vuoto. Gli occhi sono rivolti al lampadario che su cinque lampadine deve fare senza tre, fulminate, dopo cercano qualcosa negli ovali in mezzo alle onde verticali della carta da parati e poi, come riarsi da un impulso nervoso, si riaccendono, pur non avendo mai abbassato le palpebre.
<Antonio, tu sei un bravo ragazzo e fai il tuo lavoro onestamente. Io ti ho visto crescere. Ti conosco da quando avevi cinque anni, conosco tuo padre, tua madre e conoscevo ancora prima tuo nonno. Io e tuo zio Giacomino, andavamo dal sarto insieme. Mi passava a prendere in macchina di giovedì pomeriggio e mi portava con lui dal sarto.> Respira profondo <Antonio, oggi non me la sento di farmi mettere questa medicina nelle vene. Pare che mi voglio presentare drogato, inzallanuto> lo dice <lascia stare>.
<Se va bene, domani mi fai uguale uguale tutto quello che mi devi fare.>
Il cuore andava più del solito e meno del dovuto, faceva di testa sua, prima dava due colpi d’accelerata e poi rallentava, lo sentivo mentre gli tenevo il polso. Il corpo a risparmiare energie che già le scorte erano contate, gli faceva chiudere gli occhi e temere il peggio.
Quel giorno Ciccio l’Archimede è quello che si dice un malato oncologico terminale, la “medicina vostra classica” è una botta ricostituente alternata a gocce di morfina e “Se va bene” sta per “Se ci arrivo a domani”.
Le parole che dice mi trovano scoperto. Non me l’aspettavo, fino a quella mattina Ciccio si era lasciato fare tutte le prassi mediche prescritte.
Preso così, mi ero dimenticato di un cestino che avevo lasciato in cucina, nell’entrare. Avevo comprato un secchiello di plastica verde con dentro un quarto delle prime fragole. Se Ciccio avrebbe voluto, gliene avrei schiacciate un paio per farne poltiglia. Gli avrei detto: <Non sono quelle giù al muro della piana, di quando eri giovane tu, ma sempre di qualcosa sanno>.
Le fragole in realtà sanno di niente, di niente e di primavera. Sia io che Ciccio l’Archimede sapevamo che quella sarebbe stata la sua ultima primavera.
Il tempo di togliermi i guanti di lattice, andare in cucina a prendere le fragole e tornare in camera da letto era bastato per farmelo trovare dormiente. Lo chiamo, inciampo nelle parole che mi escono per dirgli delle fragole e provo a mettergli il cestino a portata di vista, ma è inutile Ciccio dorme.
Gli misuro la pressione e decido di tenere compagnia a quel battito tenue ma nitido, da uno che sa cosa ci vuole ad assicurare un ingegno complesso. Mi sposto nel lavello, sciacquo le fragole e decido di aspettare il tempo necessario.
Il tempo è necessario, quando ce ne rendiamo conto e quando lo ignoriamo. Lui lavora sempre, costante e in tondo, lasciandoci l’impressione di occupare il centro quando il limite è lontano, poi la circonferenza si avvicina e il punto di arrivo si fa punto di partenza.
Cicco l’Archimede l’aveva capito che gli restava poco, io però sapevo di dovermi organizzare il tempo, quel tempo di cui non si sa niente.
È così, ho messo il catetere a una fragola. Ho preso un catetere dalla borsa e cercato la fragola giusta per il marchingegno che avevo in testa. Doveva essere matura quanto morbida da trasudare e doveva avere la punta adatta ad aderire alle pareti di plastica del catetere. E poi, chi me l’ha suggerito non lo so, ho annodato la fragola per il cespo verde con un filo di cotone, alle estremità del filo, tese orizzontalmente, ho legato la base di due forchette incastrate, a giusto sostegno del meccanismo, nello scolapiatti. Come apposita via d’uscita del catetere un bicchiere, in cui col passare delle ore e il peso della gravità sarebbero finite le lacrime della fragola.
Ciccio sarebbe stato soddisfatto di quel contatempo improvvisato.
Tranne, di tanto in tanto, alzarmi per andare a controllare le funzioni vitali di chi aveva accompagnato per mano tutte le infanzie post-belliche passate dall’ “Aurelio Saffi”, sono rimasto seduto, immobile. Quel giorno l’ho passato a fissare quel catetere e le gocce che passavano di lì. Cadeva una goccia ogni due ore e mezza. Ci volevano due tempi e mezzo di un uomo per fare un tempo della fragola. Tra l’uno e l’altro, mi sono passati per la mente le erbacce che infestavano la piana, la canzone dei Beatles sui campi eterni di fragole, gli anni sessanta, i mirtilli ancora surgelati che io e Francesca ci siamo passati di bocca in bocca in una notte concitata, le favole con dentro il bosco, l’infanzia, la mia e quella di Ciccio.
Non avrei mai immaginato, neanche negli anni degli stordimenti artificiali, che a vegliare sulle ultime ore di Ciccio l’Archimede saremmo stati, osservandoci l’un l’altro, io e una fragola del supermarket.
Dopo le tre del pomeriggio avevo provato a chiamare Don Angelo al cellulare, ripetutamente, ma mi dava sempre irraggiungibile. Quando è arrivato, al chiaro delle sette del giorno dopo, Francesco Esposito detto Ciccio l’Archimede era clinicamente deceduto da più di mezz’ora.
Aveva su un vestito elegante, di finitura sartoriale, un sorriso di pace e un segno di croce, rosso sulla fronte.
L’incipit avvincente invita a proseguire la lettura di un brano con sentimento senza retorica. Realtà verosimile, digressioni plausibili. Virgole e punti al momento giusto. E non è usuale. Ho letto troppa roba con frasi ingarbugliate, sciatte e con punteggiatura lanciata a caso, senza nessuna malizia letteraria che mi abbia stuzzicato la fantasia e sviluppato la curiosità di leggere fino in fondo.
Brava.
Bbrano delicato.
Che fai l’infermiera?
scusa m’è partito il tasto della b…
Grazie Maria Cristina per i complimenti. Apprezzo molto il “con sentimento senza retorica”. E comunque non faccio l’infermiera. 😉