Premio Racconti nella Rete 2013 “La bella stagione” di Andrea Fabiani
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2013Il titolare mi da le spalle quando entro nel negozio, armeggia con la macchina da cucire, una vecchia singer di colore verde, con attaccato un santino di Padre Pio. Si volta solo quando sente il rumore della porta che si richiude. Indossa un’ampia maglia da lavoro blu, jeans e zoccoli. Ha i capelli bianchi, arruffati, e due piccoli occhiali tondi. Sembra molto sorpreso di rivedermi.
Fermo al centro dello stanzone, tra le borse e le cinture appese alle pareti, alzo la mia, di borsa, tenendola con due mani, davanti a me. Si è rotto anche l’altro, dico
L’uomo fa un passo avanti e la prende, osserva il moschettone di destra della tracolla, spezzato in due. Oh, dice, accidenti.
Faccio una faccia come a dire, Va be’, capita. Scrollo le spalle. Cerco di fargli capire che non sono arrabbiato, anche se quella borsa gliela avevo portata a riparare solo un paio di mesi prima, per lo stesso identico problema, ma al moschettone di sinistra.
Allora era proprio difettoso il pezzo, dice.
Già, concordo, Sarebbe stato meglio cambiarli tutti e due subito. Poi siccome non voglio sembrare polemico aggiungo, A saperlo prima.
Eh si, dice, Comunque un mesetto in più dell’altro ha retto, almeno quello.
Si, rispondo, storgendo un po’ la bocca.
Quello che lui non sa e che io non ho intenzione di spiegargli è che io non l’ho usata che un giorno, dopo la sua riparazione, uno solo. Si è rotto subito, il moschettone di destra, solo che poi non ho avuto il tempo di portargliela, perché il giorno che si è rotta era proprio il giorno che è successo quello che è successo.
E dopo io quella borsa semplicemente non volevo più vederla.
Mi faceva tornare in mente l’immagine di quando sono rientrato a casa, tenendola per la maniglia, furibondo per il fatto che la tracolla fosse nuovamente da riparare, e per tutto il tempo in cui mi hai spiegato perché le tue cose non c’erano più, il motivo per cui te ne andavi, l’ho stretta nella mano, senza lasciarla andare.
Ero ancora immobile e muto al centro della sala, quando mi ha detto, Mi dispiace che tu mi abbia vista, pensavo di fare prima che tornassi, in questi casi è meglio.
Ed ero ancora lì, con la borsa in mano e gli occhi che spaziavano sulle mensole semivuote, quando mi ha raggiunto il rumore della porta che si richiudeva alla mie spalle.
Dopo ho camminato un po’ per la casa, controllando cosa c’era e cosa non c’era più (come se il fatto che avessi lasciato un dato libro, piuttosto che un altro, potesse voler dire qualcosa) e solo quando sono entrato in camera e ho pensato di controllare l’armadio mi sono accorto di avere ancora la borsa in mano.
L’ho lasciata cadere a terra, e ho aperto entrambe le ante. Era mezzo vuoto, l’armadio. Nella tua parte non c’era più nulla. Non avevo mai visto un vuoto che fosse più vuoto di quello, un’assenza così precisa.Non che fosse un fulmine a ciel sereno, non che non lo sapessi che le cose non andavano bene, ma finché una cosa pensi di poterla mettere a posto, aggiustarla, forse continui a vederla intera.
O forse è solo dopo, quando non ce l’hai più, che una cosa la vedi di nuovo intera, in tutta la sua prima bellezza. Se fossi stata ancora lì me lo avresti spiegato tu, erano i tuoi ragionamenti, avevi sempre una risposta, una teoria.
Ma tu non c’eri e io, seduto sul letto, con la borsa ai piedi, caduta sul parquet, invece di trovare una risposta, io ho rivisto, in un attimo, tutti i miei momenti eterni, come li chiamavi tu.
Questo è un momento eterno!, dicevi quando ti sentivi particolarmente bene con me. Un momento la cui bellezza non cambierà mai, ogni volta che lo richiamerò alla mente sarà ancora così, intatto, nulla lo potrà rendere brutto.
Sono una cosa estremamente privata, i momenti eterni, ognuno ha i suoi, non sono condivisibili anche quando comprendono la presenza necessaria di qualcun altro. Il fatto che tenerti la mano guardando il tramonto dalla terrazza di San Pietro a Portovenere sia un momento eterno per me non implica assolutamente che lo sia per te. Può esserlo, ma non è detto. Una relazione funziona finché due persone si regalano momenti eterni l’un l’altra.
Davvero una teoria per tutto, avevi. Io non ci ho mai pensato finché non mi sono ritrovato seduto su quel letto, in un bilocale enormemente vuoto. Solo allora ho fatto la cernita dei miei momenti eterni.
Il primo dev’essere stato quando ti ho accompagnata a casa quella sera di maggio. Il secondo appuntamento, o il primo giorno della nostra relazione, non saprei come altro definirlo. Ricordo il sapore dolce della tua saliva, ricordo la scoperta della tua lingua, la sua consistenza, la fluidità. Una volta mi hai detto che è assurdo che la lingua ce la portiamo dietro per tutta la vita senza conoscerne il sapore, lo conoscono solo gli altri. Io conosco il sapore della tua lingua, lo conoscerò per sempre.
Come ricorderò per sempre quel pomeriggio che avevo perso da poco il lavoro e passavo da allora le giornate in casa, a commiserarmi, e tu sei rientrata e mi hai sventolato i biglietti aerei sotto il naso e mi hai detto, Creta, concedimi due settimane e ti rimetto a nuovo.
E poi la prima volta che ho cucinato per te, che questa casa praticamente non era ancora arredata e tu hai assaggiato una polpetta e mi hai detto Bravo. E poi non abbiamo mangiato niente e siamo finiti a letto e ci siamo restati per un giorno intero.
E poi ho pensato ai tuoi orgasmi, ti ho rivista chiudere gli occhi, tendere i muscoli della schiena, stringermi i fianchi, o chiudere un pugno sulle lenzuola, mentre socchiudevi la bocca. Farti godere anche, era uno dei miei momenti eterni. Ho sempre preferito il tuo piacere al mio, forse non avrei dovuto. Non siamo programmati per essere altruisti, così dicevi. E forse avevi ragione. O forse semplicemente se sei altruista devi esserlo sempre e non è possibile e io, a poco a poco ho smesso, risucchiato nel mio lavoro, infastidito dal tuo nervosismo.
Non lo so, non lo sapevo nemmeno mentre seduto sul letto ripensavo al tuo corpo e venivo sorpreso da un’erezione beffarda.
E le ho dato retta, a quell’erezione, anche se sapevo dove mi avrebbe portato. Ho fatto quello che volevi tu, ho seguito la tua teoria, sono stato egoista, mi sono slacciato i pantaloni e mi sono fatto una sega, pensando a te, ripercorrendo la tua pelle, riascoltando le tue parole, ricordando il tuo odore e tutti qui momenti perfetti. Poi sono venuto e mi sono sentito in colpa, e mi sono lasciato andare, la schiena sul letto, le mani – una sporca e appiccicosa – abbandonate sul lenzuolo, e ho pianto, non so per quanto, con grandi singhiozzi e lacrime enormi che mi scivolavano dagli occhi e andavano a impregnare il copriletto. E ho pensato che la tua teoria era sbagliata, che i ricordi non sono immutabili, cambiano nel tempo, che quello che era felicità può poi diventare un dolore accecante.
Lei ha ragione, perfettamente ragione, dice l’omino delle borse – tu lo chiamavi così, omino delle borse – pensa ancora che la mia espressione persa sia risentimento per il moschettone.
Lo fisso, riemergendo dai miei pensieri. Ha un bitorzolo sotto il mento che non avevo mai notato.
No, gli rispondo, non ho per niente ragione.
Si, si, fa lui, ma i moschettoni io non li uso più, ora metto degli anelli e delle cinghie, vede? Le faccio vedere. E mi mostra una serie di borse appese alla parete.
Parliamo di due cose diverse, ma gli sorrido e lo lascio dilungarsi nella sua spiegazione. Oggi mi importa solo far aggiustare una borsa che per due mesi è rimasta abbandonata ai piedi del letto. Due mesi di cui almeno uno l’ho speso commiserandomi come quando avevo perso il lavoro, e poi umiliandomi con te, pregandoti di tornare, piangendo pateticamente al telefono, bevendo e minacciando tentativi di autolesionismo che in realtà non avevo alcuna intenzione di mettere in pratica.
Io non lo so se avevi ragione tu o se avevo ragione io, sui momenti eterni, se esistono o non esistono, ma mentre l’omino delle borse continua a parlare, sento che questo è un istante che dovrò ricordare, sento che l’aria che respiro è come l’aria di una giornata di fine febbraio, in cui sotto il freddo si insinuano i primi sospetti di primavera.
Sento che non è ancora tornata, la bella stagione, ma tornerà. Torneranno il caldo, le foglie verdi, la voglia di ombra, di un caffè all’aperto al tavolino di un bar.
Tornerà la speranza. Quella che sento adesso è già speranza.
Io sono pronto.