Premio Racconti nella Rete 2013 “Pablo” di Filippo Gatti
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2013Gli ottanta chilometri che separano San Cristobal da Tuxtla Gutiérrez sono un continuo saliscendi tra le montagne. È ben più di una distanza spaziale, è un vero e proprio salto nel tempo. In poco più di due ore si passa dal sapore antico di una città secolare ficcata a duemila metri d’altezza nelle foreste del Chiapas, alla sua più moderna e qualunque capitale, presa in mezzo tra il passato rurale e lo sviluppo che ne sta cambiando l’anima e il corpo. La differenza l’ha fatta la costruzione dell’aeroporto.
Il mio tassista è un vecchio sdentato e beone, di età indefinibile, che ride a cazzo ogni volta che le gomme della sua scassatissima Opel fischiano affrontando i tornanti a strapiombo sul nulla. Legge la mia paura dallo specchietto retrovisore e se ne compiace; del resto, il suo taxi non è una Ferrari, lui non sembra Alain Prost e so che nelle vicinanze c’è un dirupo con un salto di ben mille metri.
Deve aver passato la vita scarrozzando gente lungo questa strada. Nonostante le poco rassicuranti apparenze, riesce a spremere il taxi, bere, fumare e prendermi per il culo contemporaneamente, senza mai sembrare in affanno. Tenta anche, per tutto il tempo, di sintonizzare un’autoradio d’epoca senza riuscirci.
La colonna sonora del viaggio è, quindi, il gracchiare costante della radio, il sottofondo di parole incomprensibili del tassista, lo stridere pietoso degli pneumatici e il rumore infernale del motore fuori giri.
Devo stare due giorni a Tuxtla aspettando l’aereo per Città del Messico.
Il vecchio mi consiglia un buon albergo sulla via principale, dice che si paga poco e si mangia bene. È gestito da sua sorella Carmen e dal marito Ramon, un poliziotto in pensione, una persona rispettabile.
Mi lascio convincere, non ho voglia di cercare un letto da solo. Fa caldo ed è quasi ora di pranzo.
Carmen è un’adorabile signora di sessant’anni, in carne, un bel sorriso radioso e modi gentili. L’atmosfera è familiare, accogliente, suo marito mi mostra la foto della figlia Dolores, che vive negli Stati Uniti.
Tengo un tono da bravo ragazzo lontano da casa, sgrano gli occhi blu e li conquisto da subito. Dopo un mese in montagna, un rilassante focolare domestico è quel che ci vuole.
La donna corre in cucina a prepararmi il pollo al cacao, mentre l’uomo promette di rianimare la piscina del piccolo solarium.
La pensione ha sei stanze, tutte libere, Ramon dice che aspettano una famiglia francese per la sera.
La camera non è da sogno, ma è comunque meglio della cassapanca che ho usato come giaciglio la notte scorsa, nella chiesa di San Cristobal. C’è anche il televisore.
La pala metallica del ventilatore sul soffitto lancia cigolii sinistri e non serve a contrastare la canicola. Un’ampia finestra si affaccia sulla via principale, il centro della città è tre chilometri più su.
Apro l’acqua della doccia e tolgo i vestiti. La vita mi sorride.
Dopo essermi rinfrescato, accendo il televisore e mi butto sul letto. Ci sono solo tre canali, uno trasmette ininterrottamente una soap opera.
Mi appassiono alle vicende di un’umile lavandaia di cui è innamorato, corrisposto, un ricco proprietario terriero. Un amore tribolato.
Decido di farmi una canna per meglio apprezzare l’intreccio.
Rovisto nello zaino alla ricerca del mio borsello delle meraviglie, riempito con ogni ben di dio che questa terra sa offrire, a cominciare da una gran quantità di ganja lisergica.
Lo cerco e non lo trovo.
La tensione sale, vorrei almeno fare un tiro prima che l’avvenente e malvagia figlia dell’alcalde riesca ad organizzare l’omicidio della giovinetta per sposare il bel latifondista.
Rovescio tutto il contenuto in terra e lo spargo a calci sul pavimento. Il borsello è scomparso, perduto chissà dove, con esso tutte le droghe.
L’umore rotola con lo zaino, adesso anche la lavandaia sembra meno bella e il suo destino meno interessante. Oltretutto, il brutale contadino ingaggiato per assassinarla, dopo aver passato ore dietro una tenda armato di coltello, semplicemente incombendo, prima di passare all’azione si impietosisce, venendo scoperto e disarmato come un fesso qualsiasi. E dire che sembrava un bastardo.
Vada per il pranzo allora e, dopo una piccola siesta, mi metterò a caccia d’erba per le vie della città.
Il pollo al cacao di Carmen è fantastico, lo accompagno con un paio di birre ghiacciate. Davanti ad una bottiglia di mezcal, a volte, riesco a diventare simpatico, con una vena arlecchinesca e la tendenza all’iperbole. Oggi sono in giornata, i coniugi gradiscono e non si tirano indietro, finiamo a sbilanciarci felici in confessioni quasi intime.
Voglio però trovare da fumare prima che l’alcol e il caldo prendano il sopravvento e, con una scusa banale, cerco un veloce congedo. Carmen non sembra convinta e chiede spiegazioni. Io, senza far complimenti, approfitto del clima confidenziale e spiattello candidamente i miei progetti.
I due confabulano, poi lei sorride e mi invita a fare un tuffo in piscina. Ci penserà Ramon ai miei vizi.
L’uomo, dall’alto del suo quintale abbondante e del suo sudare a cascata, mi porge la bottiglia di mezcal assicurando che un po’ d’alcol aiuta a sopportare meglio il caldo, poi si allontana. Ma non era il peperoncino? Ognuno ha la sua ricetta, non starò certo a discutere. Bacio con amore filiale Carmen e volo su per le scale, a prender costume e salvietta.
Da parte a parte, di slancio, attraversare la piccola piscina dell’albergo in apnea è uno scherzo, sarà lunga sì e no dieci metri. Annoiato, mi dedico allora ai tuffi acrobatici, ma la scarsa profondità della vasca mi fa sfiorare più volte il fondo con la testa e, dopo un paio di salti mortali, quando passo ai carpiati capisco subito che il passatempo avrà vita breve.
Decido quindi di crogiolarmi al sole, sfogliando distrattamente un quotidiano sportivo.
Tiene banco la sfida tra bomber di razza per il titolo di capocannoniere del campionato di calcio, una lotta serrata tra giganti dell’area di rigore, il camerunense Biyik contro il messicano Hermosillo, roba da quaranta gol ciascuno.
Di Hermosillo non si è mai parlato troppo in Europa, ma qui è una vera e propria ira di dio, è un centravanti di due metri che ha nel colpo di testa il suo pezzo forte.
Due pagine intere, corredate da foto eloquenti, sono dedicate all’incontro di pugilato tra la gloria nazionale Julio Cesar Chavez e l’italiano Parisi: è una notizia vecchia ormai più di una settimana, ma i giornali continuano patriotticamente a rimarcarne l’epilogo, con Parisi in fuga sul ring a cercar di scampare ai cazzotti del grande pugile messicano.
Finalmente vedo nella hall la sagoma sudata di Ramon puntare dritta al solarium, la accompagna un ragazzino. Così mi viene presentato Pablo, dodici anni all’anagrafe e il triplo negli occhi. Sarà lui a procurarmi da fumare.
Indossa un gilet di pelle aperto sul davanti, con una grossa aquila dipinta sulla schiena. Le braccia, dai muscoli troppo definiti per la sua età, hanno diversi tatuaggi mal disegnati: uno è il volto del Cristo, un altro è una rosa rampicante avviluppata ad una pistola, su di un bicipite fa sfoggio di sé un grande cuore con una S iscritta al suo interno. La mano sinistra manca del mignolo ed è impreziosita, come la destra, da anelli troppo grandi per le sue dimensioni.
Ci vuol poco a capire di che pasta è fatto il mio nuovo amico e, pur fidandomi delle garanzie di Ramon, adottare l’accortezza necessaria alla situazione.
Lui mi guarda duro, soppesandomi, e parla a bassa voce con tono calmo e autoritario, dettando le regole dell’affare. Non faccio storie. Vado in camera, mi cambio rapidamente, raccatto una manciata tra pesos e dollari, la distribuisco tra tasche, mutande e calzini e torno di sotto.
All’ingresso vedo che Pablo ha già chiamato un taxi e mi aspetta, un po’ scocciato, seduto sul sedile anteriore.
Mi metto dietro e lo osservo in silenzio istruire l’autista, che altri non è che il fratello beone di Carmen.
Prendiamo la strada verso l’aeroporto, allontanandoci dalla città.
Il vecchio sdentato riesce a sgommare anche in rettilineo e, come al solito, va a tavoletta.
Dopo una svolta su una via secondaria, l’asfalto finisce. Proseguiamo lungo uno sterrato che va dritto verso un quartiere popolare, nemmeno troppo fatiscente, costruito su una collinetta brulla.
Qui il taxi si ferma e Pablo scende, facendomi cenno di pagare.
Il fratello di Carmen prende i soldi senza sconti e riparte in controsterzo, in una nuvola di polvere.
Continuiamo a piedi lungo un’erta che porta ad una piccola discarica appena fuori il centro abitato. Ci sono diverse carcasse di automobili, quasi tutte americane, rottami di elettrodomestici, tubature per fogne mai realizzate e immondizia di ogni tipo. Il sole cocente aumenta a dismisura l’odore acre di decomposizione. Sciami di mosche mi investono a più riprese.
Aggiriamo le tubature raggiungendo uno spiazzo ben riparato da occhi indiscreti.
Qui Pablo comincia a fischiare. Fischi lunghi e potenti indirizzati verso il nulla.
In risposta, dalle macchine, dai tubi, dai cespugli, sbucano fuori una trentina di ragazzini più o meno dell’età del mio anfitrione e in men che non si dica mi trovo circondato.
Un’esperienza simile l’avevo provata anni prima in Spagna, in compagnia di un’amica. Vagavamo di notte nei pressi del campeggio in mezzo a decine di cantieri di palazzi in costruzione. Improvvisamente eravamo stati circondati da un branco di cani randagi. Un accerchiamento organizzato, intenzionale. Ricordo il mio istinto alla fuga e la mano di lei trattenermi con forza. Ricordo il suo dirmi tra i denti: “Stai fermo!”. Dopo un paio di minuti irreali, passati fronteggiandoli in silenzio, la situazione si era risolta a nostro favore, i cani se n’erano andati.
Mi sento come quel giorno, come la preda inerme di un branco di licaoni in un documentario sull’Africa di Piero Angela.
Pablo mi sta guardando e, come avesse intuito i miei pensieri, sorride sereno. Ha esibito il potere e adesso vuol dimostrarmi che non sono in pericolo.
Mi imposto su regole di cortesia imbarazzanti, sorrido fino alla quasi totale paresi della bocca, distribuisco sigarette e pacche sulle spalle, li tratto da pari, li lusingo.
Andiamo verso alcune sedie scompagnate poste intorno ad un tavolino nei pressi di uno scuolabus dismesso, lì ci accomodiamo.
“Sandra!”, urla Pablo più volte, urla e fischia, fischia fino a quando dalla vettura scende una ragazza magrissima e molto alta, molto più di lui. Ha capelli lunghi e castani che avrebbero bisogno di una bella lavata, porta un vestito estivo beige con un’ampia gonna a fiori. Tutto sommato è carina, anche se un po’ sciatta, con lo sguardo languido e spento da sniffatrice di colla.
Me la presenta e la obbliga a mostrare l’enorme anello che porta al dito, è un suo regalo.
Adesso capisco a chi è dedicato il tatuaggio sul bicipite di Pablo. Esse come Sandra, la pupa del boss.
Lei, senza proferire parola, fugge il mio sguardo e si siede in grembo al suo uomo, astraendosi subito da una situazione che sembra non interessarle. Al contrario, sento intorno a me la curiosità della banda, mi guarda come fossi un animale esotico dello zoo cittadino.
Un bambino grassoccio porge a Pablo una borsa di plastica da supermercato piena zeppa d’erba. Lui la mette sul tavolo e mi chiede quanta ne voglio. Il profumo è fortissimo, le cime sono enormi e ricche di resina. Pesco da una tasca cinquanta dollari e la borsa è tutta mia. Butto una manciata generosa di marijuana sul tavolo, rifilo qualche moneta al ciccione perché procuri della birra ghiacciata e comincio a rollare un cannone epocale.
Non l’ho ancora acceso quando vengo distratto da rumori provenienti dalle mie spalle.
La portiera di una vecchia automobile si apre cigolando e dall’interno dell’abitacolo emerge la figura di un uomo.
I ragazzi gli sono subito intorno e cominciano ad insultarlo e schernirlo. Lui reagisce male, barcolla avanti e indietro e vomita odio a casaccio. È completamente ubriaco, deve aver cercato riparo nell’automobile per smaltire la sbronza della notte precedente. Il caldo lo ha svegliato e adesso è furioso. Quando mi nota divento immediatamente l’oggetto della sua rabbia. “Yankee!”, “Hijo de puta!”, “Maricon!”
Prende una pietra e la tira con tutta la forza che ha in corpo.
La mira non è delle migliori, ma il gesto basta a provocare la reazione di Pablo, fino a quel momento estraneo alla faccenda. Il ragazzino scatta veloce dalla sedia scagliando Sandra a terra e raggiunge l’uomo colpendolo con un potente calcio al basso ventre.
L’ubriacone cade ululando, in un attimo tutti gli sono addosso. Comincia un pestaggio crudele e fulmineo in cui la vittima ha l’unica fortuna di perdere i sensi quasi subito.
Anche Sandra partecipa al massacro, furibonda e isterica, come in trance.
La violenza dura un istante, poi torna la calma. Pablo riprende posto sulla sedia. Ansima sudato con lo sguardo perso sul tavolo, poi guarda me e un angolo della bocca si deforma in un sorriso.
Io gli porgo cannone e accendino.
“Muchas gracias, hermano”, balbetto.
Lui prende la canna, la accende, dà una lunga tirata, poi sbuffa abbandonandosi sulla sedia.
“Pura vida”, dice a se stesso.