Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2013 “Il ponte” di Alessandra Governa

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2013

La felicità è un attimo. Si presenta, ti travolge e se ne va.

A questo pensa Bea mentre scende verso il ponte.

 

La felicità è un attimo, si presenta e ti travolge. Era quello che pensava mentre la Rosi un sabato mattina di due anni prima, le infilava forcine e una rosa nei capelli per fissarli in un’acconciatura perfetta.

Bea non ama il bianco e nemmeno le convenzioni. Così aveva scelto un completo, gonna lunga sfasata e top con scollo all’americana che si era fatta confezionare durante uno dei suoi viaggi in Africa. Era a Bamenda, cittadina sperduta del Camerun quando, camminando per il mercato, si era imbattuta nel vicolo dei sarti. Centinaia di cotonine impilate o appese a tappezzare i miseri stand dei venditori, uno di fila all’altro, uno appiccicato all’altro, come a tenersi su a vicenda in un tentativo di sopravvivenza più che di competizione. Ne aveva comprata una verde, marrone e oro e aveva scelto il modello per un vestito su misura. Quindici euro in tutto. Il giorno dopo aveva avuto tra le mani quello che sarebbe diventato il suo abito da sposa.

Pensava a ritroso mentre la Rosi ormai soddisfatta dei capelli, si stava concentrando su ombretto e fard.

“Una cosa leggera, signorì, che con questo vestito non serve essere vistosi.” Dal tono Bea aveva capito che per la Rosi, sessantacinquenne calabrese trapiantata al nord, la tradizione era molto, se non tutto. E al bianco, il giorno delle nozze, una ragazza non dovrebbe rinunciare.

La felicità. Non poteva dire di non averla conosciuta prima di quel sabato. L’aveva inseguita tenacemente, trovandola spesso nei luoghi più impensati.

Era partita per il Chiapas, senza nemmeno sapere cosa o dove fosse, a pochi esami dalla laurea. E poi Pakistan, Iran, Turchia, seguendo una delle rotte dei nuovi schiavi.

Partenza dopo partenza era diventata avvocato. Specializzata in cause perse, come diceva per tagliar corto a chi le ricordava gli stipendi e lo status a cui aveva rinunciato occupandosi di clandestini.

In ogni posto s’innamorava: di un viso, di un accento, di un dolore. Da ogni posto, finito il suo tempo, si staccava. Come le frontiere, anche l’amore cambia.

Si portava dietro, mescolate tra di loro, frustrazioni, rabbia, gioia e terra rossa. Storie racchiuse in piccoli quaderni che, si riprometteva ogni volta, un giorno avrebbe pubblicato.

Aveva trentaquattro anni quando in una libreria di provincia aveva incrociato lo sguardo di Leo. Agganciata con tredici parole “Non dirmi che sei di quelle che vorrebbero aver scritto i libri che leggono.” Agganciata da un bancario con l’aria semplice e sicura di chi ha capito la vita.

A Leo non piaceva viaggiare. Aveva il suo lavoro, solido e abitudinario, una collezione di bonsai e un gatto, One, da coccolare. E così Bea si era fermata e aveva arredato casa.

“Ci serve una libreria.”

“Basta essere più ordinata.”

“I miei libri sono tanti.”

“E allora vendili su ebay.”

“Una rossa, che dici? Domenica andiamo all’Ikea, due ore e siamo a posto.”

Leo aveva ceduto alla libreria rossa Billy, ai batik appesi in corridoio, alla collezione di giraffe. Solo sul divano era stato irremovibile. Era di sua nonna, di quelli con i tre cuscini, i braccioli di legno e il materasso ancora incelofanato piegato sotto la seduta.

Un mercoledì di gennaio le aveva chiesto di sposarla, con l’anello, le candele e il faro di Portofino sullo sfondo. Come nei film.

Dandosi un’ultima occhiata allo specchio era sicura che quel sabato mattina fosse solo l’inizio.

 

“Si riprenderà, lasciamole un po’ di tempo.”

I suoni le arrivavano ovattati nel dormiveglia chimico in cui la tenevano. Aveva la bocca impastata e le braccia pesanti. Gli occhi non si aprivano, come nei suoi peggiori incubi quando da bambina cercava di spalancarli ma non ci riusciva. Allora si svegliava di soprassalto, urlando. Per riaddormentarsi aveva bisogno di tenere la luce accesa.

“Dove sono?” ma non udiva risposta.

I medici, dopo, le dissero che era stata fortunata a non ricordare. Era meglio non accanirsi su particolari che non lo avrebbero riportato indietro.

Una precedenza non rispettata,  l’asfalto bagnato, lo schianto.

Il suo urlo straziato e poi, il nulla.

 

La tomba era nell’ala nuova del cimitero. Un vialetto laterale con le lapidi appoggiate a terra. Era tra Maria Rosa Canessa, mamma e nonna adorata, morta a novantasette anni e Giandomenico Fiore, ex carabiniere. Leo, di anni, ne aveva quarantuno.

Bea ci andava tutti i giorni. Si sedeva accanto alla foto – gliel’aveva scattata in battello mentre tornavano dall’Isola del Giglio – e gli parlava.

Raccontava della Lucy che non la lasciava sola un attimo, a costo di diventare invadente. Raccontava dei nipoti, Viola che aveva iniziato la prima elementare e Samu che aveva imparato a dire mamma. Raccontava di Giulia che si era separata da Francesco e di Valerio che aveva aperto una libreria.

Quando non aveva novità stava in silenzio oppure leggeva a voce alta pezzi del suo diario quasi a cercare in quei dolori o in quelle gioie lontane, un appiglio.

Una volta, la Lucy, glielo aveva chiesto.

“Ma perché non parti? Ti farebbe bene staccare. Qui ci penso io.”

Lei l’aveva guardata con occhi spenti.

“Perché non scrivi a Lawrence, eravate così amici. Se glielo chiedi qualcosa da fare te lo trova sicuramente.”

A poco a poco la Lucy si era trasformata in un pesce dell’acquario: Bea vedeva la sua bocca muoversi, ma le parole erano senza suono, perse in un mondo liquido e lontano.

“….anzi, facciamo così, gli scrivo io.”

Bea l’aveva guardata. Era calma e distante.

“Non lo capisci che è inutile?” Le parole erano uscite senza rabbia e le avevano illuminato il viso.

“Lascia fare a me. Per una volta, fidati.”

 

Con fatica Bea si siede sul parapetto. Ha smesso di prendere le medicine da alcuni giorni e la gamba le fa male. Il dolore è una delle conseguenze del fare come ti pare direbbe la Lucy.

Ha fatto tutto per bene: i biglietti dell’aereo, il visto, le pastiglie per la malaria. Li ha convinti tutti la sera prima: baci e abbracci, promesse di scrivere e di scattare tante foto. Le carezze di sua madre, lo sguardo bagnato di lacrime di suo padre, le fusa affaticate di One.

Respira, con i piedi a penzoloni nel vuoto. Non ha fretta e si concede il lusso di spostare lo sguardo da sinistra a destra, come fosse la prima volta che si affaccia dal ponte. La torre dei Saraceni, arroccata sugli scogli, una volta baluardo contro i pericoli e oggi luogo per cerimonie. Il mare calmo e di un blu cangiante. Il promontorio oscurato da una nave da crociera. La scogliera dell’Arenella e il castello dei conti Canevaro, silenzioso e disabitato. Sotto, la spiaggia di sassi grigi.

E’ ottobre e gli stabilimenti balneari hanno ritirato sdraio e ombrelloni già da un pezzo. Non si vede nemmeno Lotti che di solito se ne sta su qualche scoglio a dipingere il mare e le sue sfumature.

Dietro di lei, lo stretto passaggio pedonale a lato dei binari, separato da essi da una rete metallica arrugginita che fischiava al passaggio dei treni.

“Non viene più nessuno qui” pensa.

Estrae dalla borsa i suoi quaderni. Meticolosamente ne strappa le pagine per poi guardar danzare nell’aria tutte quelle parole inutili.

Il vento porta via i pensieri e le vertigini. La casa vuota e disordinata, il tallone gonfio, lo sguardo pietoso della gente per strada, i “povera Bea” che la colpiscono come pugni, non ci sarebbero più stati.

“Sto arrivando, aspettami.”

Sorride rivolgendo per un secondo gli occhi al sole.

 

 

Loading

2 commenti »

  1. Un delicato ricamo sul filo della memoria scritto con grazia e intensità espressiva. Molto bello

  2. Il ponte è il luogo di osservazione di un ambiente dove passato e presente si intrecciano e dove “il vento porta via i pensieri e le vertigini”; è il luogo di una partenza preparata, diversa da quella simulata, per lasciare tante cose, gli affetti, i dolori fisici e la falsa solidarietà della gente. Il ponte è l’abbraccio tra due luoghi separati dal vuoto, è lo spazio che unisce. L’abbandono della vita terrena perde di drammaticità perchè il lettore, accompagnato dall’autrice, coglie la sofferenza ed il desiderio di Bea.
    Molto bello.
    Emanuele

Lascia un commento

Devi essere registrato per lasciare un commento.