Premio Racconti nella Rete 2013 “Il padiglione numero Diciannove” di Marco Settimio Di Fonzo
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2013Il padiglione Numero Diciannove, quello in cui mi trovavo quando ricevetti la prima chiamata, era situato a metà circa del sentiero che dal Centro di Raccolta digradava a poco a poco verso i bungalow dell’area di richiamo, nella parte più bassa dell’isola. “Bungalow” era il nome che noi ultimi arrivati avevamo dato a quella specie di gigantesche bolle traslucide, la cui parte inferiore scompariva diversi metri al di sotto del terreno soffice della spiaggia.
Quando l’aria intorno a me cominciò a vibrare, mossa da una forza irrefrenabile, ero intento nella lettura di un fumetto d’annata – un vecchio e ingiallito Blondie & Dagoberto che avevo recuperato alcuni anni prima a casa di mia nonna. La vibrazione rappresentava il segno inconfondibile dell’arrivo di una chiamata, come avrei avuto modo di capire nel tempo a venire. Mi guardai attorno, con la sensazione che la stanza in cui mi trovavo, le pareti verde oliva costellate dei disegni fatti da bambino, fosse diventata d’un tratto la stessa in cui avevo vissuto i momenti d’infanzia più belli. Non provai dolore in quel momento: là dove mi trovavo il dolore era relegato a una forma alquanto vaga di ricordo, quasi appartenesse alla vita di un’altra persona. Fu piuttosto come ritrovarsi all’improvviso proiettato diversi piani più in alto, mentre tutt’intorno sfavillavano lampi di luce come istantanee in uno stadio gremito.
Un fruscio mi ridestò da quelle sensazioni, e mi alzai a sedere sul letto. Mi accorsi che da sotto la porta chiusa alla mia destra spuntava un lembo di carta di un colore dorato brillante, pulsante alla vista. Lo raccolsi, e subito sul foglio comparvero i lineamenti di un volto familiare. La rivelazione arrivò come un treno che sbuca da un muro di nebbia: quella persona mi stava chiamando, dovevo incontrarla… dovevo rivederla! Aprii la porta di scatto e piombai nel corridoio, con tanta voglia di urlare, e non poterlo fare, da emettere una sorta di sibilo tra le labbra contratte, gonfio di un fermento e un’eccitazione che a stento contenevo.
Ho detto che non potevo urlare: non era proibito, ma il silenzio era la dimensione che la sacralità arcana del luogo in cui mi trovavo esigeva. Chiunque una volta giunto lì continuava ad essere quello che era sempre stato, ma il Numero Diciannove non era un padiglione come gli altri: era quello degli ultimi arrivati, e per il momento ci era estraneo.
Sul viale d’accesso, sotto un sole luminosissimo e al tempo stesso incapace di far male agli occhi, moderai il passo, benché la ghiaia sotto le mie scarpe crepitasse con ritmata insistenza man mano che mi avvicinavo alla spiaggia. Meditavo spesso sul motivo per cui ero arrivato lì. Ero certo si trattasse di un mondo con regole completamente diverse da quelle che conoscevo, dove accettare di rivivere la propria infanzia a occhi aperti fosse normale, perfino consueto. Non mi riusciva facile contare i giorni dal mio arrivo, né, francamente, capire come vi fossi arrivato. Gli unici ricordi, gli unici sprazzi che avevo erano legati a momenti felici: che fossero un viso familiare, un giornalino umoristico o un disegno su una parete, giungevano tutti insieme nello stesso momento e a me stava bene così. Non mi davo spiegazioni, né le chiedevo agli altri.
Gli “altri” erano le persone che avevo visto nel padiglione Numero Diciannove. Gente dall’aria spaesata, come me, ma serena e gentile. Ero anche sicuro di averne conosciuto uno o due, di aver condiviso con loro l’impressione che la sconfinata spiaggia ai piedi del promontorio su cui ci trovavamo fosse disseminata di bungalow a perdita d’occhio, uno uguale all’altro. Eppure a questa sicurezza non si accompagnavano immagini definite: come ho detto, entro quei confini i ricordi erano vaghi come déjà vu, e il tempo rimaneva materia opinabile e del tutto indefinita, una nuvola di vapore acqueo al posto della cascata.
Quello che stavo realmente vivendo per la prima volta era la chiamata.
L’occasione della novità risvegliò in me alcune domande, che immaginai di essermi già posto in qualche altro momento: che mondo era quello, e perché era rappresentato in quel modo? Perché ero lì e accettavo che fosse rappresentato in quel modo? A questo, solo a questo avrei voluto saper rispondere.
Non ebbi il coraggio di guardare di nuovo il foglio che stringevo nel pugno, temevo che l’immagine si sarebbe dissolta con la stessa rapidità con cui era comparsa la prima volta; eppure averlo con me in quel momento – averlo ricevuto – mi restituiva l’intima serenità che meditazioni gravose avevano assorbito così velocemente.
Mentre il sentiero piegava in una curva e cominciava la sua discesa, vidi venirmi incontro un cagnolino. Era Aldo, il bassotto della signora Ostermeyer, che precedeva scodinzolando la grassa padrona di ritorno dalla sua chiamata. Non ebbi il tempo di riflettere su come fossi giunto a conoscenza di quei dettagli (notai invece che l’aura della signora Ostermeyer era più radiosa del solito) che con un largo sorriso sulle guance piene lei mi si parò davanti e mi rivolse la parola:
«È una gran brava ragazza, lo sai? Si vede subito!»
Colsi ogni singola parola, benché le avesse pronunciate in una lingua diversa dalla mia.
«Grazie signora Ostermeyer, è molto gentile da parte sua». Parlai speditamente come se mi aspettassi di essere capito con la stessa immediatezza con cui avevo capito io, e così fu.
«Ma è davvero lei?» domandai ansioso.
«Guarda il foglio che hai in mano» rispose lei con dolcezza.
Chiusi gli occhi per un istante e abbassai lo sguardo. La ragazza dell’immagine si stava muovendo! Rideva di gusto, arricciando il naso in quel modo che me ne aveva fatto innamorare, e si ravviava i lunghi capelli con dita affusolate. Esultai dentro di me, scoprendo che il legame era ancora così forte. Feci per mostrare il foglio alla signora Ostermeyer, volevo farla partecipe delle mie emozioni… ma lei aveva già ripreso la sua strada, spedita e senza affanno.
«Sta chiamando te» disse dandomi le spalle. «Io posso solo vederla nei tuoi pensieri.»
Rimasi in silenzio a guardarla mentre si allontanava, con un altro di quegli interrogativi che avrei accettato per atto di fede. Aldo reclinò la testolina e scomparve in un cespuglio.
Visti da vicino, i “bungalow” toglievano il fiato. Lambiti da un mare placido e regolare come il respiro di un bambino, sorgevano dalla terra e si confondevano con il cielo turchese, simili a enormi mongolfiere mosse da mano ferma e autoritaria. Da uno in particolare ero attratto senza apparente motivo, come se sapessi che da quello e non da altri proveniva la chiamata che avevo ricevuto. Mentre percorrevo l’ultimo tratto pianeggiante del viottolo che portava alla spiaggia, mi accorsi di non essere solo. Alle mie spalle altri sentieri, che serpeggiavano attraverso parti diverse dell’isola e convergevano sulla spiaggia, brulicavano di persone dirette all’area di richiamo. Alcuni erano in coppia, per lo più anziani; molti altri, uomini, donne e bambini di ogni età e razza camminavano da soli con passo calmo e sicuro. C’erano bambini piccolissimi in braccio a ragazzi o adulti, ed altri che camminavano e traballavano come fosse la prima volta che si alzavano in piedi. C’era chi rideva di gusto e chi lo faceva appena con gli occhi, ma tutti esprimevano una serenità quasi spiazzante. Tutti avevano la stessa aura luminosa che avevo visto nella signora Ostermeyer, come fossero appena usciti da una foto di fine ‘800, i lineamenti del viso a fuoco e i contorni sfumati.
Mi disorientò, inaspettatamente, constatare che tutte quelle persone avevano volti familiari e amichevoli, perché ero certo che nessuna di esse provenisse dal padiglione Numero Diciannove.
Giunsi davanti al mio bungalow, e osservando l’enorme cupola sentii il cuore picchiarmi nel petto con ostinazione. Colori caldi e freddi si rincorrevano sulla superficie della semisfera in spirali concentriche, alternandosi a una velocità tale da rendere impossibile anche solo tentare di elencarli. Allungai una mano per toccare quella magia, ansioso di vedere quelle sensazioni irripetibili trasferirsi dalla vista al tatto; ma mentre scorgevo figure circolari irradiarsi sotto il palmo della mia mano, come se stessi sfiorando una superficie liquida, mi resi conto di non ricevere alcuna percezione tattile in cambio. Toccavo, indubbiamente toccavo e scatenavo pulsazioni nuove tra quei colori, eppure mi sembrava di osservare la mano di un altro. Era come se la realtà, su quella spiaggia come su ogni altro spazio di quello strano mondo, non si muovesse su un piano fisico e sensoriale. Come gli occhi non erano stati abbagliati da quella luce così grande, così le dita non trovarono calore né freddo, non provarono solletico né sperimentarono altre sensazioni che avrei dato per scontate. Tutto era nuovo e indescrivibile in maniera disarmante. Era la percezione stessa dell’esistenza, o di un piano alternativo di essa, a trarre beneficio da quella visione, come se non possedessi più un corpo o una mente a fare da tramite. Come se non possedessi più una ragione a cui aggrapparmi per affrontare il contraccolpo di quell’emozione violentissima. Non saprei spiegarlo in maniera più chiara, e non tenterò oltre.
Avevo ancora il braccio disteso davanti a me quando una forza improvvisa mi tirò a sé e mi spinse via. D’istinto chiusi gli occhi, o forse immaginai di averlo fatto, e mi ritrovai sospeso all’interno del bungalow. Galleggiavo nella meraviglia che pochi istanti prima contemplavo da fuori, invaso dallo sfolgorio della nuova immagine che mi si presentava davanti agli occhi: lei, la ragazza che amavo perdutamente e che mi aveva chiamato… Poi, d’un tratto, portati dal suo sorriso, mi piovvero intorno i ricordi e acquisii la consapevolezza di quello che ero diventato.
Lei camminava su un prato, lentamente, e guardava verso di me. Vidi che sorrideva, ma aveva lo sguardo triste. Nella mano guantata di lana portava un mazzo di rose. La vidi farsi piccola nel cappotto per resistere al freddo del nostro prematuro distacco, chinarsi per consegnare alla gelida lastra di marmo i suoi fiori e una carezza. Le dissi che l’amavo, perché così era e così sarebbe stato per sempre, nonostante tutto.
Lei ripeté le mie parole, il sorriso sempre sulle labbra, e tra le lacrime ardenti pianse il mio nome, pronunciandolo con un filo di voce ancora e ancora. La mia anima fu con lei in quel momento, e la sua con la mia, e il sole risplendette alto sui bungalow lungo la spiaggia.
Lettura molto agile, direi che ogni parola si trova lì dove deve trovarsi. Sintassi ben congegnata, lessico ricco, descrizioni precisi. Mi piace che il paesaggio si scopra un po’ alla volta, così come il significato del tutto. Un aldilà diverso, dove i trapassati possono ricongiungersi alle persone che hanno amato, anche se queste sono lontano, a piangerli sulla terra. Purtroppo sono totalmente ignorante di fumetti, quindi non saprei individuare riferimenti e o citazioni, ove ci fossero. Comunque il racconto l’ho apprezzato lo stesso, soprattutto per l’esattezza dello stile.
Grazie Matteo, mi fai felice. Non ci sono citazioni da fumetti, l’unico che nomino è B&D, che ho letto davvero qualche volta da bambino (me l’ha fatto scoprire mio padre che a sua volta lo leggeva da ragazzo). I riferimenti reali sono della mia infanzia, all’inizio del racconto.
Bravo Marco, scrivi bene.
Ciao.M
Bello e metaforico. E’ bello per l’immediatezza delle immagini di questo CENTRO DI RACCOLTA, diverso dall’Ade degli antichi, e forse simile al Purgatorio dei cristiani. Metaforico perchè usa moltissimi riferimenti: il silenzio per la sacralità del luogo, la camera dell’attesa, la carta pulsante alla vista della chiamata-una per ogni situazione vissuta-, un tempo indefinito di permanenza, gli altri personaggi già conosciuti, la rivelazione come un treno che esce da un muro di nebbia, i bungalow (le bolle traslucide nelle quali si vede e si rivive i ricordi, sospeso) e poi l’aurea più radiosa e la proiezioni in diversi piani più in alto. Può essere la salita in Paradiso ?
Complimenti Marco.
Emanuele
Grazie a Emanuele e Maurizio, spero di potervi incontrare tra i 25!
…ORIGINALE RACCONTO…COMPLIMENTI MARCO PER LA VINCITA!!
Bravo Marco, congratulazioni 🙂
Stavo leggendo ora questo racconto… Complimenti Marco, mi affascina questo soggetto. Molto bravo.
Maurizio, io leggevo e tu commentavi,
sai che non è la prima volta?
C’è stato un incrocio anche qualche tempo fa…
MARCELLINA BELLA!!!!!!
Sei unica!!!!
Questo racconto è particolare!
Complimenti
Beh…Marcella, prima o poi le strade s’incroceranno…magari a Lucca,
o magari a Reggio… 🙂
Uno dei racconti più originali che abbia letto. Ben scritto, finale molto commovente. Complimenti!
Grazie a tutti per le bellissime parole, grazie davvero!