Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2013 “La miscela segreta del professore” di Pier Francesco Sica

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2013

Ogni mattina, il primo atto della giornata era dedicato al caffè.
Non un caffè qualunque, ma un sontuoso caffè nero, preparato con la sua unica e speciale miscela.
La miscela deve essere di prima scelta, ottenuta dalle migliori tostature.
Una notte a settimana, mai la stessa, va dedicata alla macinatura. Tutto dipende dalla percentuale di umidità.
Capitava, tuttavia, di dover accettare un caffè in bar o case sconosciute, così aveva visto preparare e presentare quella preziosa mistura nelle forme più disparate.
Quante volte vi sarà successo di sentire una vecchia signora gentile che, curva e con voce impercettibile, vi chiede se può offrirvi qualcosa. Un tè, un caffè ? Il tè, per carità! – dite tra voi – e vada per un caffè.
Le zelanti signore si presentano, con uno di quei servizi “buoni”, tirati fuori per l’occasione, su pesanti vassoi, con tazzine sottili come carta velina, piene di colori con il bordo dorato. Quel liquido nero, spesso, non ha neppure lontani legami di parentela con il vero caffè.
Ecco, in quel momento, vi siete pentiti di non avere optato per il tè.
Non è affatto indifferente prendere il caffè in una tazza piuttosto che in un’altra.
È come immaginare di bere un Sassicaia del 1985 in un bicchiere di plastica, anziché in un canonico e panciuto calice.
Diciamolo, anche il modo con cui gustare il caffè ha la sua importanza.
Ci vogliono tazze con il bordo spesso. Quelle tipiche da bar, per intenderci, soprattutto se il contenuto richiama quello di un espresso vero. Una crema densa, come le sabbie mobili, dove lo zucchero viene inghiottito in un quarto d’ora non lasciando traccia del suo passaggio. Anche se per me, da purista ed ex fumatore, il caffè va assaporato amaro.
Pasquale Cafiero, un nome una garanzia in fatto di caffè, era considerato un’autorità quando si trattava della pregiata miscela nera.
Durante la giornata, a casa del prof. Cafiero, professore di latino e preside in pensione, c’era un vero e proprio pellegrinaggio.
Il portinaio, il postino, il fruttivendolo, il fioraio, il farmacista, il giornalaio, il dottore e il commissario. Questi erano solo alcuni degli habitué di casa Cafiero.
Perfino il proprietario del bar all’angolo sgattaiolava nel portone e prendeva d’infilata le scale, perché mai avrebbe ammesso che anche lui saliva per gustarsi il vero caffè.
Passavano tutti, con qualche scusa più o meno plausibile, a casa di ‘Oprofessore, così era conosciuto.
E il motivo era sempre quello. Gustarsi una tazzina di caffè con i fiocchi.
Quando ‘Oprofessore girava per il quartiere era seguito dal solito codazzo di persone che cercavano di strappare qualche dritta sulla sua eccezionale e unica formula, ormai famosa ben oltre i limiti rionali.
Si vociferava, perfino, che una nota multinazionale del caffè avesse sguinzagliato i suoi segugi per provare a carpirne i segreti.
Lui, imperturbabile e impenetrabile come una sfinge, con un sorriso garbato, invitava comunque tutti a casa sua.
Il mercoledì era la serata del poker e, nel quartiere, facevano a gara per partecipare, non tanto per la partita in sé, quanto per assaporare l’immancabile caffè durante il corso della serata.
Anche il commissario De Montis era assiduo frequentatore di casa Cafiero. Ogni mattina, prima di recarsi in Questura, si accomodava al tavolo da cucina con ‘Oprofessore e lo ammirava preparare il caffè, alla sua maniera. Il professore gli descriveva minuzioso ogni passaggio. E il commissario si continuava a chiedere perché, invece, il suo caffè rimaneva ai limiti della “legalità”.
Ecco, quella mattina come al solito, prima di ogni altra cosa, ‘Oprofessore, non appena alzato, si era precipitato in cucina, come se stesse perdendo il treno, a mettere su la macchinetta.
Aveva svitato la moka e ripulito il filtro, passandolo sotto l’acqua, rigorosamente senza usare il sapone.
Del resto, tra un caffè e l’altro aveva l’abitudine di lasciarla esattamente come si trovava, intatta, fino alla successiva caffettiera.
Prendeva il barattolo e predisponeva il filtro alla nuova operazione, con l’acqua minerale sotto il livello della valvola di sfogo. Lo riempiva senza mai premere la polvere, inebriandosi del corposo aroma liberato dalla caffeina. La “sua” cupola del Brunelleschi, evocando improbabili parallelismi artistici.
Il caffè andava fatto respirare.
L’aroma del caffè ti entra dentro. Entra dentro tutte le cose.
Riempiva il lavello di acqua bollente e vi immergeva le tazzine per portarle alla giusta temperatura, pronte ad accogliere il capolavoro.
Diceva che il caffè se ne accorge subito se non lo prepari con amore e si vendica immediatamente.
Quella mattina la notizia si era sparsa alla velocità della luce, lasciando tutti a bocca aperta.
Il commissario De Montis si era precipitato e, incredulo, aveva cominciato a analizzare la scena.
Erano stati sentiti numerosi testimoni. Ognuno aveva la sua fantasiosa teoria. C’era chi sosteneva che era stato avvelenato. Chi diceva che era stato freddato con un colpo di pistola alla testa, come in un’esecuzione. Chi ipotizzava che fosse stato colpito con un corpo contundente. I meglio informati chiamavano in causa addirittura i servizi segreti “deviati”.
Sta di fatto, invece, che la causa della morte doveva ancora essere accertata ed era rimandata all’esito dell’autopsia.
Quello che regnava era un grande sconforto.
La ricostruzione delle varie dichiarazioni fu complicata. Andavano depurate con estrema fatica delle fantasie metropolitane che man mano arricchivano il racconto.
Alle cinque del pomeriggio si alternavano la pista mafiosa e quella terroristica.
Quello che De Montis fu in grado di ricavare era che un tizio ben vestito in giacca e cravatta, che non si era mai visto, proprio quella mattina, aveva chiesto informazioni sul professore al barista. “E adesso me lo dice?”.
La persona ben vestita ricordava un famoso attore, diceva il barista. Macché era un tipo anonimo sostenevano altri avventori. E poi di altezza media e con la barba secondo alcuni. Mentre altri ricordavano distintamente che era basso. Altri ancora avrebbero giurato che era alto. E poi no, non aveva la barba, aveva i baffi. Ma che baffi, aveva solo gli occhiali.
Insomma, alla fine tra mille difficoltà, fu rintracciato il rag. Fresconi, uno cui il titolo garbava molto, come si capì quando snocciolò le proprie generalità.
Era lui l’uomo che la curiosa vecchietta del primo piano aveva visto salire a casa del professore quella mattina.
La simpatica signora, dopo essere stata a casa della figlia tutto il giorno, non appena rientrata e saputa la notizia della tragedia, si ricordò di quello strano tizio dell’ultimo piano, e parlò con il commissario.
“Sia chiaro Signor Commissario che io non mi faccio i fatti degli altri eh…”.
“Non si preoccupi signora, mi dica quello che ha visto”.
“E no commissario ci tenevo a dirglielo… Comunque lo dicevo io che quella era una strana persona…”.
Alla fine la signora Maria, vedova del Cavalier Baldi, dispensò tutti i particolari a De Montis che riuscì a strappare la descrizione del nostro rag. Fresconi.
L’unica cosa che tornava era che si trattava di un uomo ben vestito.
Il rag. Fresconi, sentito, aveva dichiarato di essere stato invitato a prendere il caffè, ma quando se ne era andato era tutto in ordine.
Il titolo di ragioniere in realtà nulla aveva a che vedere col suo lavoro, visto che faceva l’agente di commercio. Si era appena trasferito nel quartiere, ma era sempre in viaggio per lavoro e avendo sentito delle mitiche qualità del caffè di ‘Oprofessore non aveva saputo resistere.
Abitava nello stesso palazzo dell’anziana signora Maria che lo aveva riconosciuto, per la mise sempre impeccabile, mentre quella mattina entrava nel palazzo del professore.
L’aroma del caffè ti entra dentro. Entra dentro tutte le cose.
Ne sa qualcosa anche il mio Castiglioni Mariotti. Il professore si ricordava dell’episodio ogni volta che andava nella casa dei genitori.
Era sempre lì, come un cimelio, nella libreria della sua cameretta, anche adesso che da tanto non ci andava più, ma gli pareva di vederlo.
Lo starnuto era stato talmente forte che la tazzina che aveva in mano si era rovesciata sul dizionario di latino.
A parte l’aspetto visivo, evocato dalla indelebile macchia che campeggiava sul margine delle pagine, anche a distanza di trent’anni, si sentiva un inconfondibile profumo che ti spinge a respirare a pieni polmoni.
Richiuse idealmente il dizionario e tornò alla realtà richiamato dal tipico borbottio che precede l’uscita del caffè.
Il citofono echeggiò.
Sbirciò da sopra il beccuccio aperto e si fece scappare un sorriso di soddisfazione nel vedere la prima goccia di caffè che si affacciava dagli ugelli.
Senza chiedere chi fosse aprì il portone, mentre sentiva il fragore che diventava più intenso raggiungendo il suo massimo.
C’è chi sostiene che bisogna aumentare progressivamente la fiamma e lasciarlo sul fuoco. Personalmente ritengo che subito prima del punto massimo il fuoco, fino a quel momento lentissimo, debba essere spento.
La temperatura sale e favorisce l’uscita del caffè senza bruciarlo. Il caffè va fatto riposare un attimo e girato nella caffettiera. Adesso è pronto. Servito bollente, va assaporato senza fretta.
L’aroma del caffè ti entra dentro. Entra dentro tutte le cose.
Anima e corpo si preparano ad accogliere quelle note calde con sfumature di nocciola e quel sapore robusto e persistente che caratterizza solo le migliori miscele.
Le labbra avvolgono il bordo della tazzina. Il calore emanato dal prezioso liquido sale. Il culmine del piacere si tocca quando il consistente aroma che penetra nelle narici si ricongiunge al sapore sprigionato nel palato.
Evidentemente, però, il mio assassino ignorava le più elementari regole della preparazione del caffè.
Dopo aver sentito tutti i testimoni e concluso l’interrogatorio dell’agente di commercio, il commissario De Montis era perplesso, anche se non sapeva esattamente cosa, qualcosa non quadrava. Ma cosa?
Per lo scrupolo che lo caratterizzava si fece ripetere più volte la versione dei fatti.
“Commissario glielo l’ho già detto è la quarta volta che glielo ripeto”.
“Me lo dica ancora una volta, allora, e se sarà necessario ancora un’altra…”.
“Il professor Cafiero mi ha offerto un caffè. E detto tra noi, non mi pareva poi gran che. Niente, dopo abbiamo parlato del più e del meno, mentre lui ripuliva la caffettiera, poi me ne sono andato…”.
Forza Commissario, su su dai che ci arrivi, possibile che tu non capisca, mi ripetevo, io non posso ma tu sì, ti ho mostrato mille volte l’arte del caffè.
Il commissario rimase in silenzio seduto al suo solito posto fissando un punto indefinito della cucina oltre la spalla sinistra dell’agente di commercio.
“Lei è veramente certo di quello che mi sta dicendo?”.
Miracolo, forse De Montis c’è arrivato, finalmente.
“Ma certo commissario, come glielo devo ripetere…io stavo seduto esattamente dov’è lei adesso e il professore stava al lavello alle mie spalle intento a ripulire la macchinetta dopo che abbiamo bevuto il caffè poi…”.
Aggrottò la fronte, inarcò le sopracciglia e sgranò gli occhi.
Non potevano esserci più dubbi, e a indicargli l’assassino era stato proprio ‘Oprofessore che gli aveva insegnato quella tecnica.
“Bene, la dichiaro in arresto allora, lei ha il diritto di non parlare, ma se rinuncia qualunque cosa dirà potrà essere utilizzata contro di lei, ha diritto a un avvocato…”.
Alla fine il rag. Fresconi Umberto, agente di commercio, separato dalla moglie e con due figli da mantenere, un lavoro sempre più precario, crollò.
Ammise di avere pensato di poter convincere il professore a rivelargli la formula della sua misteriosa miscela.
Gli aveva persino millantato contratti da favola per lo sfruttamento della preziosa mistura, senza riuscire a incantarlo.
E quando ‘Oprofessore aveva opposto il suo più netto rifiuto, invitandolo ad andarsene, perché i soldi non lo interessavano, lui aveva perso la testa.
Lo sconsiderato quando poi si era ritrovato a ripulire tutto, giustamente per non lasciare tracce, nella concitazione aveva lavato anche la moka e il filtro con il detersivo per i piatti, lasciandoli ad asciugare mortalmente feriti sul lavello.
Roba da far drizzare i capelli a un morto, appunto.
L’aroma del caffè ti entra dentro. Entra dentro tutte le cose.
E il caffè si era vendicato.
Pensò questo De Montis mentre sorseggiava non “il”, ma “un” caffè al bar all’angolo, tutti orfani di ‘Oprofessore.

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3 commenti »

  1. Un racconto giallo dal sapore decisamente ironico e leggero (a partire dal nome del professore, citazione di De Andre’). Una scrittura che mi piace molto. Complimenti Pier Francesco.

  2. Ti ringrazio per le belle parole Silvia. E soprattutto brava perché effettivamente Pasquale Cafiero è proprio un omaggio al grande De Andrè. Grazie ancora Silvia e a presto.

  3. Che bello, Pierfrancesco,
    Ritmo che ti sale dentro borbottando e gorgogliando, come la miscela del caffè.
    Registo sempre perfettamente a tono, atmosfera da realismo verace, personaggi che meriterebbero un respiro più ampio.
    Alla fine, ci lasci tutti un po’ orfani di ‘OProfessore, con la voglia di leggere altrove del tuo Commissario e e narici ricolme di un odore che è quasi un sapore, caldo, dal retrogusto amarognolo – la Moka, dove sta?… A me!…
    Bravo, l’auguro è che tu riesca a bissare il successo dello scorso anno.
    Monica

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