Premio Racconti nella Rete 2013 “Ultimo sogno” di Antonio Tammaro
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2013‹‹Ripeta: consapevole delle responsabilità che assumo con la mia deposizione…››.
‹‹Consapevole delle responsabilità che assumo con la mia deposizione…››.
‹‹Per cortesia più forte, non si sente quasi nulla: giuro di dire tutta la verità, solo la verità e nient’altro che la verità…››.
‹‹Giuro di dire tutta la verità, solo la verità e nient’altro che la verità…››.
‹‹Non sia così titubante, siamo appena agli inizi, su, ripeta con convinzione: …e di non nascondere nulla di quanto è in mia conoscenza››.
‹‹E di non nascondere nulla di quanto è in mia conoscenza››.
Il cancelliere è sproporzionato, le dita ossute tamburellano sul grosso codice aperto sopra il banco degli imputati, ostenta una calma che impatta fisicamente la mia impazienza. ‹‹Entra la corte!››, la sfilata delle toghe nere è lugubre e silenziosa: l’approdo negli scranni inesorabile.
‹‹Se non capisci qualcosa, urla “peperone” e vengo a spiegarti tutto!››: l’esortazione di mio figlio ritorna nei momenti più impensati, questo è uno di quelli e la mia reazione è la solita, cosa diavolo dovrei non capire io rispetto ad un ragazzino di appena otto anni che, nonostante l’età, mi scombussola l’anima ogni volta che apre bocca?
La corte è disposta ordinatamente ad emiciclo: la porpora dei copricapi spicca a livello, mezzo metro sopra le toghe nere. Quella ripetitività dovrebbe uniformare le coscienze giudicanti se non fosse per la parrucca a boccoli del presidente che, in posizione eminente, detta gli umori degli astanti.
‹‹Entri il Puuuubblico Ministero!››, il cancelliere ulula come un cane alla luna, alle mie spalle uno schiocco sul manicone della porta preannuncia un ingresso. Le dita ossute dell’uomo si contraggono, le unghie irte graffiano la formica del bancone, si tende come un arco di sambuco. Si dilata nell’aula la cadenza dei tacchetti che picchiettano sul parquet: una figura mi passa di lato, lascia una scia fruttata alla vaniglia che evoca spiagge tropicali. Non ci sono dubbi: è una donna vaporosa ed evanescente quella che avanza verso la corte, la toga bianca non riesce a contenere le curve del corpo che disegnano un cuore rigonfio sopra due trampoli di gambe. Si china, lieve, appoggiandosi con un braccio alla balaustra. ‹‹Signor Presidente, signori della corte, l’imputato è un soggetto estremamente a rischio: i fatti e gli atti acquisiti nell’istruttoria parlano chiaro, le prove a suo carico sono schiaccianti. Su vostra eminente approvazione procederei, senza indugio, alla requisitoria››.
‹‹Non perdiamoci in chiacchiere, avvocato! Non ho alcuna intenzione di perdere altro tempo prezioso con questo caso, per me la chiave è nella testa! Lui non è come gli altri! Lui no … lui è peggio!››. Il moscone ha alzato la testa, se ne sta con un’impronta facciale goffamente deformata dalla bocca aperta, è rimasto fulminato dall’imponderabile interrogativo rispetto alla sua effettiva capacità di controbattere. Riesce solo a deglutire un ‹‹Ma io…›› che sa di ammoniaca.
Ma tu sei un imbecille, dovrei ricusarti, ma chi diavolo me l’ha mandato questo impiastro, sarà un patrocinante d’ufficio, un inetto alle prime armi, uno che non è in grado di difendere nemmeno Gesù Cristo… possibile che non gli abbiano insegnato i fondamenti dello stato di diritto? Dovrebbe sapere che in qualsiasi processo penale nessuno…
‹‹Si, avvocato, ha ragione! Posso intuire ciò che voleva dire… nessuno è colpevole fino a prova contraria… quante volte, signori della corte, quante volte, signor presidente, ci siamo sentiti rinfacciare questa frase come se la nostra capacità di giudicare fosse inceppata in un meccanismo contorto che non ci permette di considerare semplicemente i fatti senza raccontarli per quelli che sono? Non siamo mica dei poeti o dei novellatori, noi, che raccontiamo la nuda verità rappresentandola attraverso la più soave delle bugie! Noi siamo dei magistrati, persone integerrime, la cui verità prescinde da qualsiasi declamazione di principi cristallizzati! L’imputato è colpevole in quanto tale e tanto può bastarci per il giudizio finale!››. Ora riesco a guardare negli occhi la mia aguzzina che, nell’enfasi, si è rigirata verso la platea: è come me l’aspettavo, il suo viso non tradisce emozione, angelica, diafana e innocente al pari di una liceale ripetente.
‹‹No… il mio cliente – allora lo pago io, l’imbecille – non è colpevole più di tanti altri! È vero in passato qualche peccatuccio lo ha commesso, ma si tratta di roba da poco, roba veniale… niente da cui possa scaturire una condanna pesante!››. Ha ripreso a svolazzare alle mie spalle, a ronzare parole inconcludenti, cariche di nessuna enfasi, che non fanno la minima breccia negli animi dei giudici. ‹‹…abbiamo molti testimoni che possono asserire che, nella sua vita, è stato un buon uomo, che non ha mai dato fastidio a nessuno, che ha tirato a campare una famiglia e che, seppure senza prefigurarsi la minima eredità, ha dispensato esempi di umiltà, di attaccamento agli ideali, di compassione verso gli infelici…››.
‹‹Obiezione, Vostro onore… l’avvocato avanza argomentazioni che sono confutabili con estrema facilità e che non dimostrano la non colpevolezza dell’imputato››.
‹‹Obiezione accolta››. La voce del presidente è perentoria e non ammette ripensamenti: la mosca deglutisce e capisco di essere spacciato.
‹‹Se non c’è altro avvocati, noi ci ritireremmo per la sentenza››.
Il cancelliere è sempre più gigantesco, le dita ossute tamburellano sul grosso codice aperto sopra il banco degli imputati, ostenta la solita calma che impatta fisicamente la mia impazienza. ‹‹Entri, nuovamente, la corte!››. Le lunghe toghe nere sfilano rapidamente, stavolta disponendosi a circolo intorno a me: mi accorgo di essere in posizione supina, lungo disteso come uno stoccafisso e comprendo perché, in tutti questi frangenti, ho percepito solo la parte superiore delle cose. I giudici popolari sollevano il grosso coperchio in mogano scuro foderato di raso rosso. Il presidente ha la parrucca scomposta ed impone di accelerare la pratica: ‹‹Non possiamo più procrastinare: emana già cattivo odore! La sentenza è passata in giudicato. Si chiuda il coperchio››.
Il coperchio è chiuso, il buio è talmente profondo che s’illumina di luce: tra il bianco ed il nero, tutto sommato, non c’è poi molta differenza. Ora capisco che è, nel passaggio, che si segna la differenza: è vivescenza ciò che attraversiamo e che tramuta in colori i nostri desideri. Man mano che la luce mi avvolge tutto si azzera.
‹‹Papà, papà… dove sono le tue mani, ti prego non ci lasciare, abbracciaci ancora!››. In un angoletto intravedo la piccolina fra le braccia della mamma: le mie donne si disperano. Più in là, da solo, in gilet e giacchina bluette, ci sei tu, impettito, pallido e tenero: sei un ometto ormai e sai che devi prendere in mano la situazione. Dai, questo è il momento in cui raccogliere le forze, ci sarà tempo per piangere e per ricordare quanto immenso è il nostro amore. Solo che, adesso, sono io in difetto nei tuoi confronti: non riesco a gridare e vorrei che, per una volta, tu mi spiegassi. Ti chiedo perdono, figlio mio, l’avessi fatto quando ne avevo bisogno.