Premio Racconti nella Rete 2013 “L’ultima notte” di Chiara Corno
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2013Rosa è accanto a me, sento che c’è, ma non sento più il suo respiro lento e affaticato anche nel sonno, non i suoi lamenti che negli ultimi giorni si sono fatti sempre più deboli, non un movimento, uno scarto, uno scostamento del lenzuolo. Mi ha lasciato ieri notte, non ricordo l’ora, è stato un momento, un momento lungo, sospeso, intenso, eppure ho capito che quello era il momento, solo quando il momento, insieme a lei, se ne era già andato. Sapevo da anni che sarebbe arrivato, da mesi, settimane e giorni che era vicino, lo stavo aspettando, ma quando è stato non sono riuscito a coglierlo, ad afferrarlo. Nessuna veglia funebre: ho chiesto che tutti se ne andassero, che ci lasciassero soli, nella nostra casa. Dalla finestra aperta entra un vento invernale freddo e pulito. In piedi, accanto a lei, alla luce della luna che riempie la stanza, le guardo con insistenza il viso per ritrovare i segni della sua bellezza oltraggiata dalla radioterapia e dal cortisone. Ripercorro con lo sguardo e con le mani i contorni del suo corpo, la bacio sulla bocca, una volta soltanto, per conservare di questo ultimo bacio un ricordo nitido, da tenere con me nei giorni che vivrò senza di lei.
Mi siedo su quello che da qualche mese è tornato ad essere il mio letto: il letto di quando ero bambino che dalla cameretta a casa dei miei abbiamo portato qui lo stesso giorno in cui due operai dell’azienda sanitaria locale ci hanno consegnato questo letto elettrico che ancora ospita mia moglie. Seduto nel silenzio la osservo senza tregua, immobile, ma con il passare dei minuti il freddo si fa più cattivo e penetra la pelle nonostante il pigiama pesante e la giacca di pile. M’infilo sotto le coperte di lana, mi pesano addosso senza riuscire a scaldarmi, mi giro su un fianco e stringo braccia e gambe al petto, ma le coperte si spostano scoprendo le spalle.
Rosa detestava il freddo: le rare volte in cui riuscivo a convincerla ad accompagnarmi in montagna e a dormire in rifugio, s’infilava, naso incluso, nel mio sacco a pelo termico rosso e blu, quello che usavo per le escursioni notturne in quota, e prima di mettersi a dormire mi rimproverava con lo sguardo. Il desiderio di infilarmi in quel sacco a pelo mi assale, si fa sempre più urgente e mi spinge ad uscire dal tepore che il mio corpo è riuscito a creare sotto le coperte.
Apro la pesante anta dell’armadio in legno massello: “noce nazionale”, ci aveva detto il mobiliere facendola risuonare sotto i colpi delle sue grandi mani. Noi, allora giovani e impazienti, non avevamo opposto alcuna resistenza alla sua forte stretta di mano e alla sua cordialità, autentica e robusta come la fattura del mobilio, e in un solo pomeriggio avevamo arredato la nostra nuova casa.
Aggrappato al bordo dell’anta mi arrampico sulla spalla tubolare del letto di Rosa: il mio piede nudo si ritrae al contatto con l’acciaio e un brivido gelido mi brucia dentro salendo per la schiena dalla gamba fino alla nuca. Mi allungo e, attento a non scivolare, con la mano libera afferro un lembo del sacco a pelo avvolto nel ripiano più in alto. Lo tiro a me, scendo dal letto, chiudo l’armadio, e con gesti fermi, perché collaudati, sciolgo il nodo del cordino che gli gira intorno, lo srotolo e lo sistemo sopra le coperte. Finalmente mi ci infilo, naso incluso, sa di lavanda e naftalina; l’aria via via più gelida mi dilata le narici e mi punge il viso, ma se non fosse per quest’aria, e per questa luna, non riuscirei a rimanere qui, accanto a Rosa: la lascerei sola e non potrei con lei ricordare.
Rosa è entrata nella mia vita in una notte di febbraio, una notte in cui non potevo sapere che in un’altra notte, in un altro febbraio, dopo più di vent’anni trascorsi insieme, se ne sarebbe andata. Chiudo gli occhi nello sforzo di ritrovare la prima volta in cui ci siamo incontrati e dalla quale non ci siamo più lasciati. Danza costretta in un paio di jeans e in una camicetta bianca. I capelli lunghi, neri, lucenti, come di seta, riflettono ad intermittenza le luci delle strobo, un sorriso bianchissimo si apre sulla pelle scura e tiene socchiusi gli occhi a mandorla che indovino scuri anche loro. È bella, molto, giovane e felice, ma non riesco a catturarne lo sguardo che alza con imbarazzo solo di rado e per pochi istanti. Devo conoscerla, staccarmi dal bancone e andare da lei, in mezzo alla pista, ballarle accanto, respirarne l’odore, farmi carezzare dai suoi lunghi capelli, trovare il suo sguardo.
L’ho persa, non la vedo più, tutto si è fatto nero, ma non voglio aprire gli occhi, ritornare nella stanza fredda, non ancora. Non respiro, provo a deglutire, in bocca nemmeno una goccia di saliva, le labbra asciutte. Devo alzarmi, devo bere, devo tornare da Rosa che danza, bella come un’india, ma qualcosa di pesante, come una zampa di un enorme pachiderma, mi schiaccia e mi tiene qui contro il materasso.
La tenda di organza mi sfiora il viso, sospinta da una brezza tagliente. Apro gli occhi: al lume della luna solo il comodino con le medicine, ancora disposte in ordine di somministrazione, l’armadio, la sedia a rotelle, con sopra la coperta ripiegata, nell’angolo dove prima stava il comò con la specchiera e questi due letti. Mi alzo, le passo accanto senza guardarla, vado in cucina, apro il rubinetto e bevo l’acqua che scorre sulle labbra e nella bocca, rapida e ghiacciata come da una fonte di montagna. In sala cerco la scatola di legno con le vecchie fotografie e per farlo accendo la piccola lampada di alabastro, che insieme avevamo comprato al bazar di Istanbul. Rosa amava questa lampada, per me invece non aveva mai significato molto. La scatola sta sulla libreria tra i miei 33 giri di vinile e alcuni numeri di Maglia bimbi. Rosa, incinta di Andrea, si era messa in testa di imparare a lavorare la lana con scarsi risultati fatti di qualche pezza sfilacciata e di tanti ferri e gomitoli azzurri, ancora custoditi nella cassapanca all’ingresso. Mi siedo sul divano, la scatola sulle ginocchia, la apro: un mosaico disordinato di immagini grandi e piccole, a colori, in bianco e nero, qualche polaroid, una fototessera. Le gambe rigide, le mani, fredde e sudate, strette alle pareti di legno. Guardo le foto, le fisso con insistenza, ma non riesco a comporre nessuna immagine. Figure confuse e smembrate, fatte a pezzi: due occhi sfuggenti scoperti da un passamontagna, un paio di grandi occhiali da sole in mezzo a una cascata di capelli bagnati, un mocassino marrone, una piccola tunica bianca con una croce d’oro nel mezzo, una mano a mezz’aria che tra le dita stringe un bicchiere di vino e una sigaretta, un coniglio blu su una tutina di ciniglia, un sorriso, il suo. Chiudo la scatola con un colpo secco, la getto sul divano, la testa pesante mi scivola fra le mani.
Prendo di nuovo la scatola sulle ginocchia e la apro: il mosaico è cambiato. Questa volta mi sforzo di fermare lo sguardo su di un punto soltanto e, finalmente, a poco a poco mi appare un’immagine intera. È Rosa, al mare, in Puglia, a Ostuni, nella casa dei suoi genitori, fra le braccia Leonardo di pochi mesi, accanto una torta con quattro candeline accese e Andrea nel giorno del suo compleanno, l’ultimo senza il macigno della diagnosi inesorabile. È felice Rosa, ride, bella più che mai, una madonna mulatta in mezzo ai nostri bambini, arrivati dopo anni di attese, visite specialistiche e test di gravidanza negativi.
Dieci anni dopo la nostra ultima estate insieme. Qui nel giardino della zia Ada, sua sorella, le ruote della sedia, sotto il tavolo di cristallo e ferro battuto, nemmeno si vedono, Rosa assente sfoglia una rivista: da mesi non riesce più a leggere. Ada ha nascosto la peluria ispida e rada della sua testa con un grande cappello di paglia a tesa larga, che pure le protegge il viso gonfio e sfigurato, dopo che con cura le aveva limato le unghie e ci aveva passato un velo di smalto rosa. Sul piano del tavolo alcuni petali del glicine che sta sul pergolato sopra di lei. Ne sento ancora il profumo che al sole di luglio si fa intenso e nauseante, non riesco a sopportarlo, la zampa dell’elefante di nuovo mi opprime e mi viene da vomitare. Inspiro espiro, inspiro espiro, inspiro espiro. Respiri profondi. Inspirare, espirare, respirare, spirare… Basta. Non ce la faccio, non ce la faccio.
Chiudo la scatola, l’appoggio sul tappeto, mi alzo, vado in bagno, senza spegnere la lampada. Mi sciacquo a lungo la faccia, con forza, violenza, mi asciugo, alzo l’asse e il suono dell’urina che cade nella tazza mi riporta dentro casa, la nostra casa, fredda e muta. Torno da Rosa in camera da letto, le accarezzo la mano aperta sul lenzuolo, la pelle è fresca e liscia, alzo gli occhi a cercarle il viso, disteso e sereno, ora che l’angoscia della morte lo ha finalmente abbandonato. Nel sacco a pelo, sfinito, chiudo gli occhi, piango e lascio che giunga il sonno.
Un campanello che suona, con insistenza, prima lontano poi sempre più vicino, è il mio. Freddo, molto, non so che ore sono, di sicuro però è giorno perché una luce chiara filtra attraverso le palpebre ancora chiuse. Le sollevo, il campanello continua a suonare, ho sete, sento le labbra rigide e ghiacciate. Mi metto a sedere sul letto ancora dentro al sacco a pelo, me lo stringo addosso e guardo Rosa. Sono venuti a prenderla, ma non c’è fretta. Non lascerò che la rinchiudano nella bara prima che arrivino i ragazzi. Con loro ci saluteremo ancora una volta, l’ultima. Poi che i becchini facciano quello che c’è da fare.
Leggere questo racconto fa venire i brividi, sembra di essere nella stanza con loro . Impressionante, bellissimo.
Travaglio. Impotenza. Disperazione. Amore. Ricordi nel ricordo. Dolore. La sua intransigente immobilità. Lo strappo. La crepa. La perdita. Il vuoto. Il crollo. L’uscita.L’addio più impossibile.
Rosa, Leonardo, Andrea e Ada possono essere nomi presi in prestito ma questa ‘ultima notte’ si ripropone nella vita di tutti: è universale. Credo che la sofferenza dell’abbandono per la morte del compagno o della compagna (della mamma, della figlia ecc.) abbia tutti i momenti descritti nel raccolto; gli ambienti in cui il dramma vive possono cambiare ma la persona toccata dal lutto sarà colta dai sentimenti individuati dall’autore. Testo molto espressivo. Brava Chiara!
Struggente questo addio. Non appare in nessuna riga, ma c’è, si sente, il PERCHE’ di chi resta. Lo sapremo solo più in là… si alzerà il velo e sapremo. Ma intanto è qui, di notte, che soffriamo soli. Di fronte a Lei siamo soli, chi va e chi assiste. A fare i conti.
Tanto tanto toccante, bravissima!
L’impotenza prima, il vuoto poi… si sentono entrambi. Brava.
Tanto dolore e tanto amore. Una storia forte e bellissima. L’uso degli oggetti lega ancora di più i personaggi alla storia. Brava , una bella emozione.
Tanto dolore e tanto amore. Si sente il freddo che entra dentro così come il sentimento del personaggio. gli oggetti ti legano alla storia e di danno la dimensione di una realtà da raccontare e da ricordare. Bella emozione, complimenti.
grazie a tutti, davvero
Come possono alcuni oggetti trasmettere tanto dolore.
Chiara riesce a farci sentire il freddo, la sensazione di perdita assoluta , il vuoto.
Siamo tutti in quella stanza e sentiamo tutti l’incapacità di separarsi dalla persona amata,
tutto in questo racconto ci fa sentire la solitudine e la tristezza del protagonista… MA PER UN ATTIMO SIAMO TUTTI GRAZIE AD UNA FOTO, SU UNA SPIAGGIA A GUARDARE UN MOMENTO FELICE …
sei riuscita a fotografare senza banalità un momento di dolore vuoto. Brava.
Racconto intenso ed emozionante, scritto molto bene. Le fotografie, gli oggetti raccontano una vita insieme e il dolore della separazione.