Premio Racconti nella Rete 2013 “Dentro la metafora” (ovvero, del come appiccicare una stella in cielo) di Costantino Simonelli
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2013
“Dentro la metafora”. Cazzo. Ha detto proprio così: dentro la metafora.
Il nostro, il mio, caporedattore di questa nostra rivista cultural letteraria un po’ filosofica un po’ filantropica, ( nel senso che, per resistere, è filantropo chi la compra e, la legge o non la legge, fa niente). ha spesso delle uscite così.
“Dai Tonì, dicci almeno: metà fora e metà dentro, un poco sì
ed un poco no.”- scherzo io.
“Nossignori. Dentro la metafora.”
Tonino prefigge, affigge, infligge a noi un compito.
Pulito ed efficiente il comando; come se di metafora si dovesse
fare una tesi di laurea, oppure una di quelle magniloquenti iperboli tautologiche
che, di solito, spremuto il succo fino all’ultima goccia, non cavano un ragno dal buco.
Anche per il ragno, nel buco, non c’è.
– E se io della metafora ho una idea approssimativa, incolta,
grezza?
– Non importa; falla funzionare lo stesso.
Dentro la metafora. Uhm e doppio uhm! (espressione onomatopeica
simulante riflessione pensierante ambulante prima di decisione;
e mutuata dalla frequentazione marginal-letteraria di Topolino).
Ribadisco: uhm e doppio uhm. Col doppio uhm il pensiero sembra
masticato. Col triplo uhm è addirittura ruminato.
Ma io mi chiedo: “Quanto tempo ci dovrei poi resistere dentro la
metafora?”. Quattro, cinque minuti? Il tempo d’una risonanza magnetica
per ortopanoramica dentaria a scoprire la direzione palatale
d’un dente incluso dall’età aurea del latte? Oppure i sessantasette
minuti dell’ultima volta, orologio smagnetizzato alla mano, che,
scansione sopra e scansione sotto, mi cercarono alacremente fin nel
midollo delle ossa un tumore che io ebbi, per presenza di spirito,
l’abilità di procrastinare, in maniera diagnosticamente definitiva,
solo ad una scansione di qualche annata dopo.
Devo dire che io, per pura paura, bleffo e bleffo.
Devo dire che dentro la metafora io mi ci sento costretto. Un
poco mi manca il fiato ed un poco mi viene da ridere. Perché di
metafora ci puoi morire, ma sulla metafora ci puoi pure costruire
una vita ed una posizione sociale assolutamente rispettabile.
Prendi mio cognato Oreste, un cazzallerta di dipendente comunale
che, fino all’illuminazione improvvisa, aveva fatto il fermacarte
istituzionale. Nel senso che lo pagavano per rallentare la consegna
dei certificati anagrafici di nascita residenza matrimonio e morte.
Quando arrivò la computerizzazione gli parve più problematico
rallentare tutte le certificazioni degli statu quo della vita.
E allora pensò di licenziare la sicurezza del posto pubblico e di
mettersi in proprio.
Mi disse: “La vita è tutta una metafora, o stai dentro o stai fuori”.
Ogni tanto aveva queste uscite da metalmeccanico del pensiero.
Ma devo dire che questa, da subito, mi parve una delle migliori.
Con la buonuscita del comune e chiedendo soldi in prestito ad
amici e parenti, mise su un’ impresa di pompe funebri. Era un fatto
statistico che lui, dal suo posto di certificatore, aveva valutato bene:
poco si nasce e ancor più poco ci si sposa. Ma quanto a morire, gli
ordinativi mensili sono pressoché puntuali. Con poi dei bonus di
vecchi nel periodo invernale e di giovani
al sabato sera.
L’ acidula riflessione metaforica con cui concludeva il ragionamento
era questa: “Non ci diventi ricco, ma ci campi bene”.
Ed io pure ci campavo bene dai venti ai trenta minuti a settimana
– con le situazioni nostre di più non si poteva – dentro Metafora.
Lei prendeva la pillola ed io, che non ci credevo, mettevo il profilattico.
– Non si sa mai, dicevo.
– Se mi ami toglitelo, diceva lei.
E chi l’amava. Non io. Ma come dirglielo? Dirglielo
apertamente? Mai. Perché, non lo capisce da sola?
Una che si chiama Metafora e che ti spara intelligenza da tutti i
pori della pelle, ti asfissia con l’opportunità, come preferenza assoluta,
scelta intellettualmente obbligata, di rapporti stabili e continuati
di puro sesso, perché adesso mi caca il cazzo?
Me ne esco senza fiatare. E rifaccio in breve , pensieri e poche
cose, le valige del mio sesso ambulante.
Me ne vado non come un amante rinnegato. No, come una cameriera
licenziata. E,però, uscendo, sbatto la porta.
Dentro la metafora.
Penso che a questo punto si sia capito che io ho un concetto
confuso della parola “metafora”.
Ma questo è il meglio che può capitare ad uno scrivente che col
solo atto di scrivere prova a decodificare se stesso.
La perfetta ignoranza è situazione ideale che , per necessità, stimola
l’invenzione
Metafora ha le lettere giuste ed il suono sillabato sulle labbra impaurite
per diventare il nome di un asteroide, e se vuoi esagerare,
perché no, di una stella.
Metafora. Me-ta fo-ra.
Lo ripeti in sequenza tre volte.
Me -ta-fo- ra , me- ta-fo-ra, me-ta-fo-ra.
Come ti allappano bene le labbra, di mistero. Ti viene naturale di
guardare il cielo.
E pensi al micromondo che ti circonda. E poi all’infinito sotto e sopra di te.
E a quello che, magari alla cazzo di cane, ma ha dato il nome ad ogni punto
di questo mondo e a tutto quanto.
Quello che è venuto anche per te, ma , soprattutto, prima di te.
E, guardando il cielo, non osando guardare più oltre, t’imbatti nella prima
costellazione che ti capita sotto gli occhi.
– Chi è il padrone di Orione?
– Sono io, che vuoi?
– Posso metterci una stella mia, magari a lato, vicina al gruppo,
ma in un posto che non da fastidio.
– E tu chi sei, e lei come si chiama, e quanto brilla, è vecchia o
nova?
– Per brillare brilla, e si chiama Metafora.
– Rispondi a tono. Vedete come fate … Sempre imprecisi.
Mi ci costringete voi a fare come fate voi giù sulla terra. Per
ogni assunzione – anche di una stella a contratto
a tempo, come li chiamate lì da voi, LSU, lavori socialmente utili
– ci vorrebbe un modulo.
– Per appiccicare una stella nel firmamento?
– Eh,… perché, ti pare ‘na cosa strana? Ci vogliono i referenti. Tu
chi sei, per esempio, suo padre, suo fratello, suo marito, un amico o un amante?
– Diciamo …un amante.
– Ecco. Gli amanti sono volubili. A volte sono tanti a farsi in
quattro per appiccicare una stella. Meglio i padri ed i mariti. Quelli,
una volta piazzata, è più facile che non se la scordano. Invece gli
amanti di solito vengono in gruppo facendo finta d’ignorarsi l’un
l’altro.Ognuno pare che voglia cercargli il posto migliore.
Tu sei stato modesto, direi ragionevole a chiedere una posizione
defilata in Orione. Ma ci sono certi che vengono sparati da me nella loro arroganza
ed impettiti mi chiedono di eliminare, come se niente fosse, la quarta
del Carro, (quella che vecchia è, ma che un migliaio di anni dovrebbe
ancora tirare a campare) per metterci la sbarbina loro. Che
non so poi come ci starebbe e come si comporterebbe e che pensieri
e parole avrebbe da dire nei confronti delle ottuagenomillenta
millenarie sue nonnastelle.
Si dice e si pensa ma non si riflette mai troppo su quanto possa
far male un conflitto generazionale. La tua, ridimmi, come di chiama?
– Metafora.
– E che cazzo di nome strano. E’ greca?
– Di padre, e di madre italiana.
– Bell’amplesso. Un gran culo ad incontrarsi. Un cocktail mediterraneo,
dei migliori. Quand’è così diventa euforico pure il DNA.
– Smettila, per favore.
– Lo dico per te, mica sei geloso? Io posso piazzarla.
– Dove?
– Tu hai detto Orione, vero?. C’è posto, un posto di fianco alla
terza che sta per morire.
– Quanto ancora?
– Due o trecento anni ad andargli bene. Certo, tu non la vedrai
luccicare in formazione. Forse non la vedrai mai. Che vuoi fare?
– Appiccicala.
Lo vide, con le mani da vecchio, appiccicare una stella nel firmamento come fanno
i bambini con le figurine sull’album.
Aveva mani e lingua per leccare la figurina che poi, inumidita,
aderì e diventò a tutti gli effetti figurina di album.
Poi, l’album lo richiuse con cura e, scavalcando nuvole, sparì.
Lui, il padrone del cielo, quello lì della signorina Metafora non lo rivide più, mai.
Forse lo pensò qualche volta, nel sogno notturno o nell’assoluto
silenzio diurno, lamentandosi del fatto che non si era fatto più sentire..
E che sul davanzale di quella stella, i fiori del ricordare non avevano
festeggiato neppure la sua assunzione in pianta stabile nella costellazione
di Orione.
Ma poi , ripensandoci, da buon saggio vice padreterno, realizzò che era inutile,
ormai, che lui stesso e che tutto l’universo ce l’avesse con lui.
Che chiunque, ricordando la sua faccia pulita, il suo amoroso silenzio
edificante, avesse indicato in lui quello che aveva fregato pure il padrone
del cielo e rubato il posto a tanti altri più degni questuanti.
Ormai Metafora, con inganno o senza inganno, era lì, momentaneamente (rispetto alla dimensione tempo che s’usa in quei luoghi) inamovibilmente brillante. E, sideralmente parlando,
pure belloccia.
E lui, il postulante, era stato solo il più risoluto di tanti poveri amanti.