Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2013 “Dentro la metafora” (ovvero, del come appiccicare una stella in cielo) di Costantino Simonelli

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2013

 

“Dentro la metafora”. Cazzo. Ha detto proprio così: dentro la metafora.

Il nostro, il mio, caporedattore di questa nostra rivista cultural letteraria un po’ filosofica un po’ filantropica, ( nel senso che, per resistere, è filantropo chi la compra e, la legge o non la legge, fa niente). ha spesso delle uscite così.

“Dai Tonì, dicci almeno: metà fora e metà dentro, un poco sì

ed un poco no.”- scherzo io.

“Nossignori. Dentro la metafora.”

Tonino prefigge, affigge, infligge a noi un compito.

Pulito ed efficiente il comando; come se di metafora si dovesse

fare una tesi di laurea, oppure una di quelle magniloquenti iperboli tautologiche

che, di solito, spremuto il succo fino all’ultima goccia, non cavano un ragno dal buco.

Anche per il ragno, nel buco, non c’è.

– E se io della metafora ho una idea approssimativa, incolta,

grezza?

– Non importa; falla funzionare lo stesso.

Dentro la metafora. Uhm e doppio uhm! (espressione onomatopeica

simulante riflessione pensierante ambulante prima di decisione;

e mutuata dalla frequentazione marginal-letteraria di Topolino).

Ribadisco: uhm e doppio uhm. Col doppio uhm il pensiero sembra

masticato. Col triplo uhm è addirittura ruminato.

Ma io mi chiedo: “Quanto tempo ci dovrei poi resistere dentro la

metafora?”. Quattro, cinque minuti? Il tempo d’una risonanza magnetica

per ortopanoramica dentaria a scoprire la direzione palatale

d’un dente incluso dall’età aurea del latte? Oppure i sessantasette

minuti dell’ultima volta, orologio smagnetizzato alla mano, che,

scansione sopra e scansione sotto, mi cercarono alacremente fin nel

midollo delle ossa un tumore che io ebbi, per presenza di spirito,

l’abilità di procrastinare, in maniera diagnosticamente definitiva,

solo ad una scansione di qualche annata dopo.

Devo dire che io, per pura paura, bleffo e bleffo.

Devo dire che dentro la metafora io mi ci sento costretto. Un

poco mi manca il fiato ed un poco mi viene da ridere. Perché di

metafora ci puoi morire, ma sulla metafora ci puoi pure costruire

una vita ed una posizione sociale assolutamente rispettabile.

Prendi mio cognato Oreste, un cazzallerta di dipendente comunale

che, fino all’illuminazione improvvisa, aveva fatto il fermacarte

istituzionale. Nel senso che lo pagavano per rallentare la consegna

dei certificati anagrafici di nascita residenza matrimonio e morte.

Quando arrivò la computerizzazione gli parve più problematico

rallentare tutte le certificazioni degli statu quo della vita.

E allora pensò di licenziare la sicurezza del posto pubblico e di

mettersi in proprio.

Mi disse: “La vita è tutta una metafora, o stai dentro o stai fuori”.

Ogni tanto aveva queste uscite da metalmeccanico del pensiero.

Ma devo dire che questa, da subito, mi parve una delle migliori.

Con la buonuscita del comune e chiedendo soldi in prestito ad

amici e parenti, mise su un’ impresa di pompe funebri. Era un fatto

statistico che lui, dal suo posto di certificatore, aveva valutato bene:

poco si nasce e ancor più poco ci si sposa. Ma quanto a morire, gli

ordinativi mensili sono pressoché puntuali. Con poi dei bonus di

vecchi nel periodo invernale e di giovani

al sabato sera.

L’ acidula riflessione metaforica con cui concludeva il ragionamento

era questa: “Non ci diventi ricco, ma ci campi bene”.

Ed io pure ci campavo bene dai venti ai trenta minuti a settimana

– con le situazioni nostre di più non si poteva – dentro Metafora.

Lei prendeva la pillola ed io, che non ci credevo, mettevo il profilattico.

– Non si sa mai, dicevo.

– Se mi ami toglitelo, diceva lei.

E chi l’amava. Non io. Ma come dirglielo? Dirglielo

apertamente? Mai. Perché, non lo capisce da sola?

Una che si chiama Metafora e che ti spara intelligenza da tutti i

pori della pelle, ti asfissia con l’opportunità, come preferenza assoluta,

scelta intellettualmente obbligata, di rapporti stabili e continuati

di puro sesso, perché adesso mi caca il cazzo?

Me ne esco senza fiatare. E rifaccio in breve , pensieri e poche

cose, le valige del mio sesso ambulante.

Me ne vado non come un amante rinnegato. No, come una cameriera

licenziata. E,però, uscendo, sbatto la porta.

Dentro la metafora.

Penso che a questo punto si sia capito che io ho un concetto

confuso della parola “metafora”.

Ma questo è il meglio che può capitare ad uno scrivente che col

solo atto di scrivere prova a decodificare se stesso.

La perfetta ignoranza è situazione ideale che , per necessità, stimola

l’invenzione

Metafora ha le lettere giuste ed il suono sillabato sulle labbra impaurite

per diventare il nome di un asteroide, e se vuoi esagerare,

perché no, di una stella.

Metafora. Me-ta fo-ra.

Lo ripeti in sequenza tre volte.

Me -ta-fo- ra , me- ta-fo-ra, me-ta-fo-ra.

Come ti allappano bene le labbra, di mistero. Ti viene naturale di

guardare il cielo.

E pensi al micromondo che ti circonda. E poi all’infinito sotto e  sopra di te.

E a quello che, magari alla cazzo di cane, ma  ha dato il nome ad ogni punto

di questo mondo e a tutto quanto.

Quello che è venuto anche per te, ma , soprattutto, prima di te.

E, guardando il cielo, non osando guardare più oltre, t’imbatti nella prima

costellazione che ti capita sotto gli occhi.

– Chi è il padrone di Orione?

– Sono io, che vuoi?

– Posso metterci una stella mia, magari a lato, vicina al gruppo,

ma in un posto che non da fastidio.

– E tu chi sei, e lei come si chiama, e quanto brilla, è vecchia o

nova?

– Per brillare brilla, e si chiama Metafora.

– Rispondi a tono. Vedete come fate … Sempre imprecisi.

Mi ci costringete voi a fare come fate voi giù sulla terra. Per

ogni assunzione – anche di una stella a contratto

a tempo, come li chiamate lì da voi, LSU, lavori socialmente utili

– ci vorrebbe un modulo.

– Per appiccicare una stella nel firmamento?

– Eh,… perché, ti pare ‘na cosa strana? Ci vogliono i referenti. Tu

chi sei, per esempio, suo padre, suo fratello, suo marito, un amico o un amante?

– Diciamo …un amante.

– Ecco. Gli amanti sono volubili. A volte sono tanti a farsi in

quattro per appiccicare una stella. Meglio i padri ed i mariti. Quelli,

una volta piazzata, è più facile che non se la scordano. Invece gli

amanti di solito vengono in gruppo facendo finta d’ignorarsi l’un

l’altro.Ognuno pare che voglia cercargli il posto migliore.

Tu sei stato modesto, direi ragionevole a chiedere una posizione

defilata in Orione. Ma ci sono certi che vengono sparati da me nella loro arroganza

ed impettiti mi chiedono di eliminare, come se niente fosse, la quarta

del Carro, (quella che vecchia è, ma che un migliaio di anni dovrebbe

ancora tirare a campare) per metterci la sbarbina loro. Che

non so poi come ci starebbe e come si comporterebbe e che pensieri

e parole avrebbe da dire nei confronti delle ottuagenomillenta

millenarie sue nonnastelle.

Si dice e si pensa ma non si riflette mai troppo su quanto possa

far male un conflitto generazionale.  La tua, ridimmi, come di chiama?

– Metafora.

– E che cazzo di nome strano. E’ greca?

– Di padre, e di madre italiana.

– Bell’amplesso. Un gran culo ad incontrarsi. Un cocktail mediterraneo,

dei migliori. Quand’è così diventa euforico pure il DNA.

– Smettila, per favore.

– Lo dico per te, mica sei geloso? Io posso piazzarla.

– Dove?

– Tu hai detto Orione, vero?. C’è posto, un posto di fianco alla

terza che sta per morire.

– Quanto ancora?

– Due o trecento anni ad andargli bene. Certo, tu non la vedrai

luccicare in formazione. Forse non la vedrai mai. Che vuoi fare?

– Appiccicala.

 

Lo vide, con le mani da vecchio, appiccicare una stella nel firmamento come fanno

i bambini con le figurine sull’album.

Aveva mani e lingua per leccare la figurina che poi, inumidita,

aderì e diventò a tutti gli effetti figurina di album.

Poi, l’album lo richiuse con cura e, scavalcando nuvole, sparì.

 

Lui, il padrone del cielo, quello lì della signorina Metafora non lo rivide più, mai.

Forse lo pensò qualche volta, nel sogno notturno o nell’assoluto

silenzio diurno, lamentandosi del fatto che non si era fatto più sentire..

E che sul davanzale di quella stella, i fiori del ricordare non avevano

festeggiato neppure la sua assunzione in pianta stabile nella costellazione

di Orione.

Ma poi , ripensandoci, da buon  saggio vice padreterno, realizzò che era inutile,

ormai, che lui stesso e che tutto l’universo ce l’avesse con lui.

Che chiunque, ricordando la sua faccia pulita, il suo amoroso silenzio

edificante, avesse indicato in lui quello che aveva fregato pure il padrone

del cielo e rubato il posto a tanti altri più degni  questuanti.

Ormai Metafora, con inganno o senza inganno, era lì,  momentaneamente (rispetto alla dimensione tempo che s’usa in quei luoghi) inamovibilmente brillante. E, sideralmente parlando,

pure belloccia.

E lui, il postulante, era stato solo il più risoluto di tanti poveri amanti.

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