Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2013 “Opere e omissioni” di Patrizia Mancini

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2013

Quando suo padre quella mattina uscì dalla camera dicendo che avrebbe mandato a chiamare il prete, Agostina seppe che il momento era arrivato, e che occorreva prepararsi.

Coi suoi magri quindici anni, aveva già visto la morte trascorrere diverse volte nella casa, e il rituale le era divenuto familiare. Bisognava avvisare i parenti, iniziando da chi abitava più lontano, controllare la scorta di caffè, riordinare il piccolo tinello, dove tutti avrebbero sostato, almeno per un po’. La geografia del dovere lasciava poco spazio alle domande, e Agostina aveva imparato che questa era una cosa buona.

Sua madre giaceva a letto da oltre un mese, con un cancro in pancia, dall’ospedale l’avevano rimandata a morire tra i suoi.

La casa era annegata nel silenzio. I sani avevano preso l’abitudine di bisbigliare, tanto che fuori, tra la gente, ogni voce li turbava come il presentimento di un’offesa, e faceva di loro degli esseri straniti.

Si badava a smorzare i gesti, ad accompagnare il chiudersi delle porte, e le lancette della grande pendola, di cui erano stati messi a tacere i rintocchi, montavano una guardia insonne sulle tre.

La luce calda di giugno straripava ovunque, ma la camera in cui era coricata l’inferma veniva mantenuta sempre in penombra, poiché lei mal sopportava il chiarore pieno del giorno, e il buio le dava terrore.

Le portavano a letto il mangiare. Erano cibi ridotti a consistenze molli, o più spesso del brodo, che lei dopo qualche minuto rigettava, tra gli spasmi, in un catino di latta posato sopra il comodino. Il catino veniva subito svuotato, ma l’odore acido di quei rigurgiti persisteva a lungo e addensava l’aria come una pioviggine, impregnando la pelle e i vestiti.

In quella camera Agostina andava di rado. Era il padre ad occuparsi di tutto, notte e giorno, con l’affanno di chi avesse una qualche colpa da farsi perdonare, e poco tempo per riuscirci.

Agostina sceglieva i momenti in cui scorgeva la madre addormentata. Raccolta nella poltrona bassa accanto al letto, esplorava con lo sguardo quella solitaria isola i cui confini si restringevano ogni giorno di più, ingoiati dal mare bianco dell’unico lenzuolo. Da quel territorio devastato, dove le ossa sporgenti disegnavano alture e avvallamenti innaturali, tentava invano di ricavare una mappa che potesse ricondurla alla donna che l’aveva generata e accudita. Per lo sforzo a volte si assopiva, e se la madre nel frattempo si svegliava le toccava la mano, con dolcezza le diceva di andarsene fuori, che c’era un bel sole.

Il dottore era venuto, una volta o due, e se n’era andato con l’aria di qualcuno a cui abbiano appena riportato alla mente una faccenda molesta.

Il prete invece veniva spesso. Arrivava a piedi, dalla vicina canonica, armato solo di un vecchio Vangelo con la copertina nera e le pagine consunte, da cui emergevano sottili ritagli di carta perché si aprisse senza incertezze sui passaggi che più temeva di dimenticare. Il piccolo libro quasi scompariva nella sua mano vigorosa, a cui poco si addiceva l’immobilità della preghiera, o il gesto lento del benedire.

Aveva l’età del padre di Agostina, e lei sapeva che in gioventù erano stati poco meno che fratelli. Sua nonna glielo aveva rivelato, una volta in cui le raccontava di com’era fatto il mondo prima che lei nascesse.

Il prete aveva preso i voti dopo la guerra. Era tornato da una lunga prigionia quando nessuno più lo immaginava tra i vivi, e il giorno del rientro a casa, quando tutti facevano a gara per riferire gli avvenimenti accaduti in sua assenza, aveva appreso che il suo compagno d’armi si era da poco sposato, e lavorava come operaio nella fornace riaperta qualche tempo prima al vicino paese.

Da allora non si rivolgevano parola. Quando Agostina aveva domandato il perché, l’anziana donna aveva risposto che l’amore era una cosa difficile, da cui era meglio tenersi lontani. Dopodiché non ne avevano più parlato.

Quando il prete arrivava, il padre di Agostina masticava un borbottio a testa bassa, a cui lui replicava volgendo lo sguardo verso la camera dell’inferma, dove chiedeva di essere accompagnato. Agostina, che lo conduceva fin lì, udiva poi dietro la porta socchiusa l’adagiarsi morbido del suo saluto.

A volte indugiava in corridoio per tutta la durata della visita. Seduta a terra, il filo verticale dell’esile schiena allungato contro il muro, ad occhi chiusi si faceva consolare da quel fruscio di voci come dal battito di un cuore.

Fu suo fratello, il più giovane, che quella mattina corse in canonica, a dire che la madre era in fin di vita, e si voleva confessare.

Il prete uscì dalla camera della moribonda dopo un tempo interminabile, le braccia abbassate lungo i fianchi, un passo lento che non gli apparteneva. L’arco della stola color porpora sembrava curvargli le robuste spalle come un giogo.

Alzò gli occhi su Agostina che coi familiari aveva atteso davanti alla porta, e per la prima volta, da quando l’aveva tenuta sopra il fonte battesimale, la vide.

Lei rimase esposta a quello sguardo come ad una carezza ricevuta durante il sonno, di cui al risveglio non sarebbe rimasta traccia. Ma il padre lo raccolse, e ne ebbe un tremore in tutto il corpo, forte da dover cercare sostegno al muro.

Il prete si voltò verso di lui, gli disse che la donna aveva rifiutato l’eucarestia. L’avrebbe vomitata, era per rispetto a Nostro Signore. Ma il sacramento era valido, aggiunse. Poi si avviò. L’uomo esitò ancora un attimo, radunò la forza nelle gambe, e lo seguì.

Mentre gli altri entravano in camera per preparare la veglia, Agostina rimase sulla porta. Osservando la figura della madre, ormai pacificata, si chiese quale rispetto poteva meritare un dio che ti lasciava morire come un cane alla catena, senza neanche il conforto di un po’ di cibo caldo da trattenere in pancia.

Si strappò da quella vista, e quando fu in fondo al corridoio udì la voce di suo padre riempire la stanza vicina.

Era diversa, smarrita, domandava perché.

Tu sapevi che non ero morto, disse solo il prete. Al funerale pianse lacrime grosse e silenziose, a cui i presenti guardarono con lo sgomento che avrebbero riservato ad un’eclissi non predetta.

Agostina al cimitero non andò mai.

 

 

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1 commento »

  1. Racconto toccante e bel modo di scrivere. Le ragioni del finale lo lasci a noi; poteva essere un bel Corto.
    Brava e in bocca al lupo …….
    Emanuele

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