Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2013 “Mamma” (senza lasciare traccia) di Mariella Federico

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2013

“Alla tua età avevo già tre figli, ed anch’io lavoravo” è il ritornello che rimbomba nel cellulare mentre non smetto di ascoltare Ligabue nello stereo della macchina, a volume abbastanza alto da compensare le esternazioni di mia madre. Frasi, concetti ascoltati infinite volte che mi raggiungono dappertutto. Mia madre è onnipresente: sempre stanca e sul punto di scoppiare, manda avanti da decenni la famiglia con la grinta di un capitano d’industria. La famiglia è il suo capolavoro: non sarebbe potuta esistere senza di lei, senza la sua caparbia determinazione a tenere in equilibrio un marito con le forze centrifughe dei figli. Mai lasciati andare, né l’uno né gli altri. All’avanguardia rispetto alla sua generazione e alla realtà immobile della cittadina di provincia in cui siamo tutti nati e cresciuti, si è resa indispensabile per la singolare capacità di essere efficiente senza fanatismo, presente e pervasiva con disinvoltura. Ha festeggiato le nozze d’argento e svariati ulteriori anniversari di matrimonio, è arrivata alle soglie delle nozze d’oro senza mai mettere in dubbio l’indissolubilità di un legame che di fatto ha difeso e mantenuto. Anzi no: a tratti ha dato l’impressione di voler sgusciare via, se solo ne avesse avuto l’occasione. O il coraggio. Ma che ne sarebbe stato delle sue creature, modellate a sua immagine? Infondendo nella materia inerte di personalità in formazione una quantità di dati, esempi, raccomandazioni, comportamenti, ha dato origine a risultati diversissimi di ordinaria infelicità.

Quanti eventi negativi ha fronteggiato, quanti rischi ha impedito che si materializzassero a minacciare la quiete familiare!…quiete per modo di dire, perché la sua indole battagliera e senza peli sulla lingua non ha consentito che scorressero molte giornate senza almeno uno scontro frontale. Da che ho memoria, mi accompagna la sensazione di dividere l’habitat con una pentola a pressione pronta a scoppiare, magari per motivi che non comprendevo per la mia giovanissima età e più avanti perché (come mi ripetevo spesso) “non mi sognerei mai di fare un casino del genere per una tale banalità”. Nel tempo, è maturata in me l’idea del matrimonio ed in genere della relazione con gli uomini come una grana necessaria, un impegno gravoso di cui purtroppo non si può fare a meno. Mi sentivo divisa e incapace di fronteggiare il divario tra i sogni romantici di simbiosi con l’anima gemella che non disperavo di trovare, e la caotica gestione del quotidiano che si presentava sotto i miei occhi. Forse è per questo che mio fratello non si è mai sposato. Lui sì che ha realizzato (forse involontariamente) il contro-capolavoro: ha fatto della mamma la compagna, la confidente, l’amica, la persona di cui fidarsi ciecamente e con cui condividere progetti, eventi, problematiche che non possono essere certo messi in mano alla prima venuta! Praticamente una moglie, senza darsi la pena di cercarsene una all’altezza e di costruirci un rapporto, e senza gli inconvenienti che la presenza di una moglie comporta. Oltretutto, nella posizione di sbaragliare tutte le possibili concorrenti, quanto meno per la inarrivabile capacità di comprendere ed andare incontro a tutte le esigenze (e soprattutto ai difetti) di lui, che conosce come nessun altro, letteralmente dalla nascita.

Persa in questi pensieri ed in altri che non riferisco, sono arrivata al lavoro; pulisco il display del cellulare strofinandolo sui jeans, mi dò un’occhiata nello specchietto della macchina, dal quale tolgo con la manica un paio di impronte, e scendo per andare incontro agli appuntamenti della mattina trascinandomi dietro l’inevitabile ritardo. “Come fai ad essere sempre in ritardo, hai due persone che ti aiutano in casa, tua figlia è grande e poi è sempre qui da me, non hai neanche il fastidio di doverla seguire nei compiti…sei sicura che la tua organizzazione non sia difettosa?”: quale miglior modo di farmi venire il dubbio di essere difettosa io, con la mia vita affettiva approssimativa e precaria, squarciata da separazioni e lutti che solo io conosco, e questa insopprimibile tentazione di mollare tutto, una volta per tutte, e di mettermi alla ricerca del vero senso della mia vita.

Ogni giornata comincia lottando con il sonno che non vuole lasciarmi andare, contro la parte di me che reclama ancora qualche minuto da spendere sulla soglia dell’irrealtà, in compagnia di sogni che purtroppo non si avverano. Tutte le mattine il passaggio è brusco: devo strappare via dalla mente i pensieri che potrebbero curarmi e realizzare mio malgrado la posizione delle lancette sul quadrante luminoso. Che mi guarda ostentando commiserazione attraverso quegli occhi fosforescenti, e dispensa il battito di un ritmo inafferrabile.

E’ sempre troppo tardi per fare qualcosa per me; mi trovo nell’ansia di recuperare tempo, lucidità, concentrazione, e la giornata non è nemmeno iniziata. Frappongo al mondo esterno il tempo della colazione, in compagnia dei pensieri molesti che si affacciano appena metto piede in cucina. Mi preparo il caffè, scaldo il latte nel microonde e intanto, soprapensiero, asciugo le gocce d’acqua dal ripiano di marmo e dal lavandino, come se volessi cancellare ogni traccia del mio passaggio.

Spesso, mentre me ne sto con la tazza in mano a guardare fuori dalla finestra i bambini che vanno a scuola, lo sguardo si posa sulle impronte impresse su uno sportello, e d’istinto le cancello con la spugnetta, ed asciugo bene l’alone d’acqua finchè la superficie torna liscia e impeccabile.

La mia psicologa dice che ho un modo particolare di toccare gli oggetti, di tenerli in mano, come se non volessi lasciare alcuna traccia; ed in effetti faccio attenzione, apro gli sportelli laccati tenendoli con la punta dei polpastrelli, e quando mi accorgo di qualche macchia (sicuramente lasciata da altri) intervengo strofinando e lucidando, e non mi dò pace finchè non tornano come devono essere.

Mi vesto senza fantasia rimuginando sulla tentazione di adottare – come i maschi – una specie di divisa: giacca, camicia e un paio di pantaloni. Invidio le amiche capaci di alzarsi un’ora prima al mattino, solo per il gusto di specchiarsi soddisfatte della propria immagine. L’armadio spalancato attende paziente: lo richiudo con un moto di fastidio.

Vorrei che lo sguardo degli altri mi lasciasse indifferente; invece la cura dei dettagli, le frasi di circostanza, la disponibilità ostentata mal dissimulano la voglia matta di essere lasciata in pace.

Mi consento, almeno una volta al giorno, di fantasticare su come sarebbe vivere in una grande città, in un posto in cui nessuno mi conosce, nel quale la mia esistenza non si misuri sul parametro di essere la figlia o la mamma di qualcun altro. Un posto nel quale svolgere il mio lavoro senza identificarmi con il ruolo, senza l’esposizione all’approvazione o alla disapprovazione, al sussurro e alla chiacchiera. Mi sento, soprattutto nei momenti di fragilità, esposta, indifesa, giudicata per sentito dire; cammino vicino alle sabbie mobili di comportamenti striscianti e ipocriti, cercando di non mettere il piede in fallo. Quando cammino per la strada o mentre esco dal portone di casa, mi assale l’inquietudine. Per difendermi, ho preso l’abitudine di parlare con gli altri guardandoli dritto negli occhi, alla ricerca della scintilla di sincerità o dell’inequivocabile ombra che dovrebbe mettermi sull’avviso.

Intanto, mi esercito nell’essere all’altezza. Dell’idea che gli altri si sono fatti di me e di quello che si aspettano. Di una figlia che di giorno in giorno sembra sfuggirmi dalle mani e strattona come un aquilone ancora legato al suo filo ma portato sempre più in alto dal vento. Delle donne che frequen-to e che definirei amiche se indovinassi sempre l’opinione (affettiva) che hanno di me. Delle mie collaboratrici, che si aspettano un capo che le guidi con sicurezza e mi dimostrano con un’occhiata tutto il loro smarrimento di fronte ai miei momenti di stanchezza e di sconforto. Di mia madre, che accarezza di nascosto il progetto di un libretto di istruzioni da consegnarmi, nel quale prevedere ogni sorta di comportamento adeguato alle circostanze, e nel quale condensare senza esprimerla la diffidenza per la mia inaccettabile indipendenza.

Mi sento come se avessi raggiunto la maggiore età senza meritarla. Come se avessi falsificato il documento di identità. Ogni tanto, la notte, quando finalmente persuasa dalle palpebre che si chiu-dono decido che è abbastanza tardi per andare a letto, sogno di essere impegnata in un interminabile esame, incongruo come sanno esserlo i sogni, ma abbastanza preciso con i suoi riferimenti a formule, domande e quesiti da poter essere vero e reale. A volte mi avvicino ai vetri di grandi finestre da corridoi di vecchi istituti scolastici, che non sporgono – come ci si potrebbe aspettare – su una strada o una piazza, ma direttamente a strapiombo su un mare scuro e spesso agitato, talvolta distanziato da scogli sui quali le onde si infrangono, spumeggiando senza rumore. Altre volte mi angoscia un irrecuperabile ritardo che rischia di mandare a monte la prova prima ancora di incominciarla.

Squilla di nuovo il cellulare. Rimpiango l’ovattato isolamento del sonno. Sono indecisa se rispondere, rassegnata all’irruzione di qualcuno che mi parla mentre sto inseguendo un pensiero, e mai che dica qualcosa che mi interessi realmente. Più che coinvolgermi, mi distrae.

Mamma mi raggiunge al telefono di casa per parlarmi di pranzi e cene, per organizzare spostamenti, per chiedermi di accompagnarla. Mamma mi raggiunge al cellulare perché ha qualcosa di urgente da riferirmi o da domandarmi, così urgente da non poter aspettare che arrivi al lavoro. A volte vorrei spegnere l’audio; mi piacerebbe che le comunicazioni passassero attraverso il pensiero, così sarebbero tutti costretti ad aspettare il proprio turno. A mettersi in fila, dietro i pensieri già in corso, dietro quelli che si avvalgono della corsia preferenziale, dietro quelli privilegiati, dietro quelli in grado di farmi stare bene. Probabilmente lascerei che si creassero file interminabili, tanto i pensieri non fanno chiasso, non protestano, non si spintonano l’un l’altro. Possono essere invadenti, coglierti di sorpresa, alle spalle, ma solo quando sono i tuoi, quelli che emergono dalle pieghe del vissuto, o vengono distillati in conati di ansia o di paura. I pensieri degli altri avrebbero ingresso solo se autorizzati e dopo aver digitato (telepaticamente!) la password: e solo se c’è una connessione in corso in modalità “visibile a tutti”.

Mi rendo conto che mia figlia ha più privacy di me: la sua sfera gode di immunità ed è protetta dagli accessi non graditi. Anche dai miei: diventa sempre più sintetica e distaccata nel raccontare le sue cose, spesso si trincera dietro argomenti frivoli, parliamo più di moda e vestiti che dei suoi sogni fatti di carne e sangue. Forse teme la mia disapprovazione, eppure non può fare a meno di provocar-mi, imponendomi compagnie che non condivido, migliori amiche che non mi convincono; misura la distanza da me a suo rischio e pericolo. Confida i suoi segreti a sanguisughe e vampiri. Si lamenta a gran voce per la mancanza della madre che vorrebbe facendo dilagare gli oggetti in un disordine che marca il territorio e riempie i vuoti. Tiene ancora sulla scrivania i pupazzetti dei tempi delle elementari; ogni tanto riordina,  ma solo le videocassette dei cartoni animati, le bambole allineate sulle mensole, ed i peluches dai quali non si sogna di separarsi. Il resto è disordine sparso di oggetti e pensieri; è comunicazione fatta di sms alluvionali o attraverso chat psichedeliche zeppe di emoticons e turbinanti di abbreviazioni, di parole mozzate per risparmiare tempo. Per comunicare più in fretta una quantità di dati inutili, di emozioni filtrate attraverso uno schermo, che non hanno niente da spartire con le risate soffocate e la realtà di foglietti passati di nascosto da un banco all’altro, ai miei tempi della scuola.

Mentre spendo troppi minuti nell’ennesima telefonata inutile della mattinata, scorro con le dita il profilo del computer portatile togliendo aloni di polvere, tracce di penna, un po’ di cenere volata dalla sigaretta. Meccanicamente passo un fazzoletto di carta sul ricevitore, insistendo sui punti in cui il fondotinta ha ceduto il colore chiazzando il grigio uniforme dell’apparecchio.

L’insofferenza cresce insieme al senso di urgenza per le incombenze che mi aspettano, per gli appuntamenti che si accumulano, per i fascicoli ammucchiati sulla scrivania e ancora nemmeno aperti, e tutto diventa pressione insopportabile, mancanza d’aria. Proprio in quel momento, alzando gli occhi in direzione della finestra, la vedo: attraversa la strada transitando dietro la lampada che occupa buona parte della scrivania. Per un attimo è nascosta dal paralume, poi riappare. Incredibile: è identica. Una sosia. La mia sosia. Forse appena più giovane: mi intriga la possibilità della mia età alleggerita da una coincidenza. Sono sicura di non averla mai vista, quindi dev’essere forestiera: la città è piccola, sulle solite strade si avvicendano le stesse facce, man mano più segnate dal tempo che passa ma comunque riconoscibili. Familiari.

Un corto circuito nel cervello mi suggerisce l’idea assurda, pazzesca: seguirla per vedere dove va, se abita qui, se è di passaggio, se per qualche misterioso motivo posso convincerla a barattare la sua vita con la mia. Potrebbe essere interessata, non posso escluderlo. Per soldi, perché ho un buon lavoro che potrebbe piacerle, una bella casa; perché potrebbe desiderare un figlio e accomodarsi con l’idea di imbattersi in una già adolescente. Perché vuole cambiare vita e identità e a sua volta sparire da scenari consumati e soffocanti. Spero non voglia farlo per via di sua madre: sarebbe un segno dell’ineluttabilità del mio destino. Mi inchioderebbe su un particolare non trascurabile, per via di una leggerezza che non posso garantirle. E se una madre non l’avesse? O non l’avesse pari alla mia? Potrei convincerla omettendo di scendere nei dettagli, occultando il gravoso impegno tra le opportunità vantaggiose. Se a quest’ora non è al lavoro, ci sono buone possibilità che sia disoccupata; magari è di buona volontà, conciliante e con un carattere dolce. Compatibile. Più compatibile di me con mia figlia e mia madre. Quando si dice gli scherzi della natura! Sono convinta che sarà così. Non dovrebbe essere difficile. Non vorrà farsi pregare. Non capita tutti i giorni di ricevere proposte simili. Senza rischi, garantita. In cambio chiedo solo la capacità di svolgere con disinvoltura un ruolo, e un po’ di sopportazione. Tutto qui. E se fosse straniera? Se ci fossero problemi di lingua, di religione, impedimenti di vario genere o semplicemente un banale tratto somatico che visto da vicino smonterebbe la messa in scena…e se mi imbrogliasse? Se non fosse capace di reggere la finzione? Non avrei neanche il tempo di acchiappare di corsa un aereo, di atterrare all’aeroporto di destinazione con un margine che mi consentisse di far perdere le mie tracce. Verrei segnalata, ricercata, individuata in virtù di una beffarda coincidenza di tempi; un’idea brillante miseramente sprecata. Il cerchio sta di nuovo richiudendosi intorno a me, non posso indu-giare oltre, è necessario che prenda tutto il coraggio che ho e la raggiunga e le parli…le spieghi bene, in faccende del genere non si può lasciare spazio all’approssimazione, tutto deve essere pianificato nei dettagli, e prima ancora spiegato, ben compreso, accettato, digerito, metabolizzato.

E adesso che l’ho quasi raggiunta che faccio, mi fermo? No, non è possibile: non dirmi che hai cambiato idea. Che non senti la pressione del cerchio che si sta richiudendo, degli impegni che ti assillano, delle cose di cui faresti volentieri a meno; non senti che la vita scorre e hai questa straordinaria possibilità di riacchiapparla e una volta in sella di tirare bruscamente le briglie facendola voltare nella direzione opposta?…Hai paura di un rifiuto, paura del ridicolo, o cosa?

Forse hai paura che si avverino i sogni pazzi che finora hai cullato, che il tempo torni indietro dandoti la seconda chance. Quella di sparire attraverso una porta magica, mutando i connotati e abbandonando sulla soglia tutto ciò che ti ha reso finora riconoscibile, inequivocabilmente portatrice di un ruolo stretto e soffocante ma, ancor di più, rassicurante. Chiamala, falla fermare, prima che sia troppo tardi, l’immagine di vita vera che ti è passata accanto alla velocità dei sogni, ma non così in fretta da impedirti di accorgerti di lei. C’è tutto, ormai hai tutto….Alle mie spalle, sulla scrivania senza un granello di polvere, lo schermo del computer ancora acceso, lucido e senza un’ombra, e accanto gli occhiali appena puliti. Senza nessuna traccia.

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