Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2013 “Dormi bene” di Sebastiano Iannizzotto

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2013

C’è una foto, appesa in soggiorno, in cui ci siamo io e nonna che prepariamo i biscotti. Avrò avuto quattro o cinque anni, sono in piedi su una sedia per poter raggiungere il tavolo della cucina. Lei li tingeva ancora, i capelli. Erano corvini e la luce li faceva scintillare. Ha gli occhiali con la montatura bordeaux in equilibrio sulla punta del naso sottile. Abbiamo le maniche dei maglioni tirate su fino ai gomiti. Guardiamo entrambi l’obiettivo e sorridiamo, con le mani affondate nella pasta frolla.

Dal finestrino abbassato a metà entrava l’odore dolciastro dei gelsomini che coprivano i cancelli delle ville del paese. Si mischiava all’odore della sigaretta che papà teneva stretta tra le labbra. La cenere gli cadeva sui jeans. Aveva lo sguardo fisso sulla strada, la mano sinistra sul volante e la destra sul cambio. L’odore dei gelsomini svanì quando uscimmo dal paese e imboccammo la strada statale. Rimase solo l’odore aspro del tabacco. La statale lambiva i paesi della costa. Non avevo mai visto questa strada così vuota. Quando di giorno si passa da qui per andare al mare, ci sono così tante macchine in coda che non si riesce a vedere l’asfalto, ma soltanto una lenta processione di targhe e paraurti. Quella notte, invece, vidi scorrere porzioni di asfalto nero e poroso illuminate dai fari. Ci scorrevano di sotto come un grande tapis roulant. Guardai la lancetta del contachilometri e strinsi ancora più forte la maniglia della portiera. La plastica ruvida mi grattò il palmo della mano.

«Non ti azzardare a guidare così quando prenderai la patente, l’anno prossimo».

Mi ero svegliato dopo il primo squillo del telefono. La luce dei lampioni, filtrando attraverso le persiane, tracciava sul muro delle righe orizzontali. Avevo sentito la voce di mio padre arrochita dal sonno e da troppe sigarette, poi il rumore della fibbia della cintura e l’acqua scorrere dal rubinetto del bagno.

«Che ci fai sveglio? Sono le due, torna a dormire» mi aveva detto lui mentre si passava l’asciugamano sul viso.

«Ho sentito il telefono. Chi era?»

«La casa di riposo. Nonna sta male e l’hanno portata in ospedale».

«Mi vesto e vengo con te».

L’ospedale si trovava dopo una grossa rotatoria. Da un paio d’anni le rotatorie si erano diffuse nella nostra provincia come una malattia infettiva, nel vano tentativo di smussare gli angoli degli incroci e di liberarci dalla tirannia dei semafori. Gli pneumatici emisero un fischio acuto, io chiusi gli occhi e mi sentii sul tagadà che ogni anno viene in paese per la festa del santo patrono. Quando riaprii gli occhi eravamo già nel parcheggio dell’ospedale.

La maglietta di cotone sudata mi si era appiccicata alla schiena. Il frinire dei grilli copriva il rumore dei nostri passi sul marciapiede. Mi affrettai per raggiungere papà.

Nonna era stesa su un lettino del pronto soccorso. La stanza era rettangolare e stretta. Sul lettino accanto a quello di nonna c’era un signore di mezza età steso su un fianco, rivolto verso il muro. Sembrava che dormisse. C’era un forte odore di candeggina. Faceva caldo in quella stanza e immaginai la macchia di sudore allargarsi velocemente sulla mia schiena. Il naso e la bocca di nonna erano coperti da una maschera per l’ossigeno. Aveva gli occhi socchiusi, come se le desse fastidio la luce. Quando ci vide, sollevò la mano destra. Sul dorso della sinistra era infilato l’ago della flebo. Papà le accarezzò la mano e la baciò sulla fronte.

«Vado a parlare con un dottore. Non ti muovere da qui».

Pensai che stesse parlando con nonna, perché lo disse continuando ad accarezzarle la mano e a guardarla negli occhi. Sentii la pelle umida sotto le ascelle. L’odore di candeggina mi stava facendo venire la nausea.

«Posso aprire un po’ la finestra?» dissi guardando un punto in mezzo ai due letti.

Nonna mosse la mano libera dalla flebo. Interpretai quel gesto come un sì. Il signore di mezza età rimase girato sul fianco. Non disse nulla, non si mosse.

Ero in piedi vicino alla finestra. Nonna continuava a tenere gli occhi chiusi come se ci fosse troppa luce. Con la mano libera dalla flebo provò a togliersi la maschera per l’ossigeno. Non ci riuscì. Ci provò anche con la mano sinistra e l’ago della flebo si sfilò scivolando sul pavimento di linoleum. Alcune gocce di soluzione fisiologica e sangue macchiarono il lenzuolo bianco. I pori della pelle del petto si allargarono per lasciare uscire minuscole gocce di sudore che mi bagnarono la maglietta. Mi avvicinai al letto. Adesso sentivo puzza di pipì. Il signore del letto accanto dormiva, pensai, perché rimase immobile, voltato verso il muro, anche quando nonna iniziò a lamentarsi emettendo suoni gutturali. Le abbassai sul collo la maschera. Chiuse gli occhi e prese a lamentarsi sempre più forte. Mi pulsavano le orecchie. Le immaginai rosse e calde come quando c’erano le versioni di greco. Il lamento era diventato un rantolo sordo e costante. Mi girava la testa. Fissai il pavimento di linoleum.

Una domenica di maggio di sette anni fa, io, papà e nonna andammo a fare un picnic in campagna. Era da tanto tempo che non lo facevamo, quando c’era mamma ci andavamo più spesso. Dopo pranzo papà rimase a riposare steso all’ombra di un arancio, mentre io e nonna passeggiammo per la campagna. Nonna aveva raccolto uno stelo lungo e flessuoso di grano selvatico. Facendolo scorrere tra l’indice e il pollice eliminò la spiga ancora verde e fece un piccolo nodo proprio in cima, ricavandone un cappio minuscolo. «Con questo adesso andiamo a caccia», mi disse. Poco più in là, su alcune pietre laviche ai piedi di una collinetta, c’erano delle lucertole immobili sotto il sole. Ci avvicinammo con cautela, facendo attenzione a non fare rumore. Allungando il braccio, nonna fece penzolare il cappio sulla testa di una lucertola e, con un movimento ben calibrato verso il basso, fece scorrere il cappio, che, non appena la lucertola si mosse, si strinse attorno al suo collo grigio grosso quanto un mignolo. Mi inginocchiai per osservarla da vicino. «Così non sta soffrendo? Liberiamola subito» dissi a mia nonna senza smettere di osservare quel piccolo animale in trappola. Quella sera, dopo cena, venne in camera mia per rimboccarmi le coperte e darmi la buona notte. Si chinò per darmi un bacio sulla fronte, ma esitò. Si sedette allora sul bordo del letto. «Promettimi una cosa», disse dopo un lungo respiro, «se io dovessi stare tanto male da non poter più giocare con te e correre in bici e fare tutto quello che facciamo insieme, se io non potessi più farlo, mi aiuteresti a non soffrire più? Mi libereresti come abbiamo fatto oggi con la lucertola che avevamo catturato?». Sgranai gli occhi e annuii. Lei allora si sporse un po’, mi diede un bacio sulla fronte e mi disse dormi bene.

Glielo avevo promesso. Guardai mia nonna su quel letto. Guardai la pelle raggrinzita attorno ai suoi occhi chiusi. Guardai le pieghe attorno alle labbra contratte dal dolore. Il suo petto si alzava e si abbassava con un ritmo sfasato. Glielo avevo promesso.

Con una mano le sorressi la testa e con l’altra sfilai via il cuscino. Lo poggiai contro il suo viso. I grilli, fuori, non la smettevano di frinire. Feci pressione con entrambi i palmi delle mani. Guardai oltre la finestra aperta. La collina declinava verso il mare. Seguendo le gocce di luce in fila indiana dei lampioni, si arrivava al primo paese sulla costa, in cui quelle stesse luci diventavano dei grappoli in corrispondenza della piazza. Più in giù, si allungava sul mare il braccio di cemento del porticciolo in cui, l’estate scorsa, ero andato a cercare la Provvidenza con nonna. La sagoma scura dei faraglioni, appoggiati sulla superficie color catrame del mare, sarebbe stata una presenza rassicurante e inoffensiva vista da lì, dalla terraferma, dal lungomare illuminato dalle insegne dei bar. Visti da lì, seduti a un tavolino di plastica, mentre i cucchiaini affondano nei bicchieri colmi di granita, i faraglioni sarebbero stati una riproduzione, in piccolo, certo, della sagoma scura più grande alle nostre spalle, quelle pendici che stringevano in un abbraccio tutta la provincia. Nonna mi avrebbe raccontato la storia di Polifemo, cieco e arrabbiato che scaglia quelli che per lui sono solo sassolini contro Ulisse, e di Efesto, brutto e curvo nella sua fucina nel cuore dell’Etna che fabbrica le armi di Achille.

Dopo alcuni brevi sussulti, era finito tutto. Sprimacciai il cuscino e lo misi di nuovo al suo posto, sotto la testa di nonna. Mi chinai per darle un bacio sulla fronte.

Dormi bene.

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