Premio Racconti nella Rete 2013 “Racconti di Roma” di Roberto Tomassi
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2013Osservo le lancette dell’orologio che continuano a fare il loro giro scandendo un ritmo regolare, incessante, al punto che il tempo mi appare come un cinico meccanismo. Qualunque cosa accada non c’e modo di fermarlo. Lo stesso vale per questa città cosi tremendamente viva anche in un anonimo, comunissimo mercoledì sera. All’angolo di una piazza aspetto un amico che arriverà in ritardo come di consueto e nell’attesa centinaia di veicoli passano a pochi centimetri da me. Macchine con dentro gruppi di ragazzi diretti in qualche locale, moto, biciclette e un’ambulanza. Ha il finestrino aperto e da lontano riesco a scorgere la persona soccorsa; dalla testa capisco che si tratta di un uomo sulla sessantina, con pochi capelli bianchi e un respiratore sul viso. Un malore? Forse un infarto? Non lo so ma mi sconvolge il fatto che lui, a pochi metri da me, rischia di morire mentre io sto per trascorrere una serata spensierata in compagnia dei miei amici. I destini delle persone a volte si incrociano secondo piani davvero beffardi. Mi dispiace che lui si trovi in quelle condizioni e mi scandalizza la moderna concezione della vita per cui nonostante la sofferenza non ci si può fermare, non ci si deve fermare. I fari delle macchine assomigliano alle luci stroboscopiche di una discoteca e illuminano la strada come fosse una pista pronta ad accogliere la movida capitolina dal cuore pulsante.
Quando io nacqui, Roma, aveva da tempo perso il suo splendore; la Roma di Aldo Fabrizi, delle carrozzelle, dei giubbonari, dei funari e dei vaccinari era già stata spazzata via dal traffico di droga, dalla prostituzione e dalla malavita. Già a partire dal ventennio fascista iniziarono a sorgere dei quartieri che subirono un inesorabile degrado, trasformandosi in terreno fertile per tutti quei crimini.
Da bambino, durante le mie giornate trascorse per le vie di S. Lorenzo mi capitava sovente di incontrare drogati che mi chiedevano se avessi “qualche spiccio”; erano figure inquietanti, dall’incedere incerto e dal volto segnato dall’abuso di stupefacenti. Il quartiere all’epoca brulicava di queste figure che vagavano apparentemente senza meta per le vie in cerca di un cartone di vino o qualcosa da mangiare. Erano il risultato di un processo di sgretolamento del tessuto sociale ormai avviato da tempo e li vedevo gravitare intorno a me come corpi celesti privi di orbita; un giorno uno di questi avanzava barcollante sul marciapiede di via marsala e, preso da uno slancio di carità, volli donargli una barretta di cioccolata.
<<Tieni, mangia qualcosa>>gli dissi
<<Mi dai una sigaretta?>>rispose lui con voce flebile
<<Ma come! Cerco di aiutarti e tu vuoi scavarti la fossa da solo?>>
Questo pensai e avrei voluto dirgli ma non l’ho fatto. Me ne sono andato con la consapevolezza che ogni aiuto sarebbe stato un buco nell’acqua, uno scherno alle mie illusioni.
I ragazzi crescevano sulla strada diventando presto bulletti sprezzanti del pericolo; la malavita conquistava fette di territorio sempre più consistenti e nel quartiere si poteva incappare in risse tra gang o assistere a sparatorie. Non amo la violenza ma da bambino dovetti farne uso in alcune situazioni. Ricordo che una volta stavo giocando a pallone ai giardini pubblici insieme a mio fratello e un nostro amico. Ad un tratto dei teppistelli iniziarono a lanciarci addosso dei petardi e noi provammo ad allontanarci. Loro ci seguirono e giunti ad un muretto che delimitava il cortile di un condominio ci trovammo bloccati. Decidemmo di scavalcare il muretto ma mio fratello, più piccolo di me, non ci riuscì. Uno dei teppisti scavalcò e l’altro rimase con mio fratello. Pensai che se gli fosse accaduto qualcosa di male non me lo sarei mai perdonato. A quel punto, temendo per la sua incolumità e pieno di rabbia per quella violenza gratuita, mi scagliai contro il teppistello e lo picchiai con calci e pugni, con furia, finché la mia rabbia sfogò in pianto e mi allontanai da lì. Rincontrai mio fratello sotto casa nostra e grazie a Dio stava bene.
La situazione era fuori controllo e purtroppo si trattava di un decorso irreversibile cui non era possibile sottrarsi se non andando via da San Lorenzo. E cosi avvenne; infatti ci trasferimmo in periferia nella casa ereditata da mia madre facendo un cambiamento che fu positivo per certi versi. Ci stavamo allontanando da un quartiere malfamato ma la nostra destinazione non si annunciava come un luogo idilliaco: si trattava della magliana, zona nota soprattutto per l’imperversare della banda divenuta protagonista della serie Romanzo Criminale.
A magliana trascorsi tutta l’adolescenza fatta essenzialmente di scuola e partite di pallone. Fino ai 18 anni ho vissuto così tranne qualche rara occasione in cui si usciva dal quartiere per una passeggiata in centro, una festa o per le vacanze estive. C’era un grande prato vicino casa mia e là, sotto il sole, su un tappeto di erba fresca, tra alberi che fungevano da porta, si accendevano sfide calcistiche degne delle notti di champions league. Anche se eravamo un gruppo di amici giocavamo con tutta l’anima assecondando il nostro inesauribile desiderio di segnare e vincere. Perché ogni partita era vissuta come una finale. Non mancavano le liti, le polemiche e le botte vista la giovane età e l’intensità che mettevamo in campo ma il giorno seguente si ricominciava a ridere, giocare e prendersi in giro come non fosse successo niente.
Dopo i 18 anni molte cose cambiarono; iniziai l’università e mi trovai un lavoro ampliando il mio giro di amicizie. Cominciai a frequentare una zona molto più ampia di Roma rispetto al mio piccolo quartiere e di colpo cambiò il modo in cui percepivo la città; fino ad allora l’avevo ripudiata ma poi, come se avessi iniziato a vederla da una prospettiva più elevata, ne compresi le dimensioni reali e mi resi conto non solo della sua vastità territoriale ma anche della gamma di opportunità, delle visioni del mondo, delle scelte, sviluppando con Roma un legame quasi affettivo. Inconsapevolmente entrai in connessione con essa e fui pronto ad accogliere tutto ciò che aveva da offrirmi. Uno degli aspetti che mi affascinava di più era la sua millenaria eredità storica; i resti dell’epoca imperiale, le antiche domus, le chiese sfarzose, i ponti e le piazze, fino ad arrivare ai caratteristici vicoletti di trastevere. Tutto ciò mi dava la confortante sensazione di far parte di un universo immutabile, impermeabile al tempo; inoltre la mia romanità mi consentiva di sentirmi in un certo senso proprietario di quell’eredità e quindi un pò più ricco degli altri. Il quartiere invece era un altro mondo. inevitabilmente iniziò a starmi stretto e ad opprimermi: lontano dai luoghi di maggior interesse, degradato, fornito di servizi scarsi e malfunzionanti, popolato da un numero sempre maggiore di macchine in rapporto alle persone, si stava trasformando in una penosa prigione dalla quale ogni occasione era buona per evadere. Il lavoro, l’università, la palestra, gli amici e perfino la fidanzata erano fuori dal quartiere, un contesto vuoto, amorfo e privo di stimoli al quale non avevo intenzione di arrendermi. Il traffico mi stringeva alla gola come un cappio spesso e ruvido, il boom dei centri commerciali non provocò in me l’effetto sperato per colpa della noiosa e piatta ridondanza di struttura e merci offerte che li caratterizzava. Infine i mesi estivi rendevano la vita ancora meno sopportabile per la micidiale calura che imperversava per quasi 20 ore al giorno trasformando ogni attività, anche la meno impegnativa, in un irritante, frustrante bagno di sudore. Il sole sembrava non tramontare mai e sorgere sempre troppo presto; fu durante una di quelle torride estati che partii per una vacanza come tante e decisi di non tornare più. Avevo chiuso. Ero evaso definitivamente. Almeno era ciò che credevo. Mi ero illuso di potermi lasciare alle spalle tutto quel disagio e quello stress colpevoli di farmi sentire più stanco, vecchio e depresso di quanto non fossi in realtà. La permanenza lontano dalla capitale però durò appena un anno e mezzo perché sulla mia vita e quella della persona che nel frattempo era divenuta mia compagna per la vita irruppe un evento drammatico. Fummo investiti insieme ad altre migliaia di persone da un’onda distruttiva originata dalle viscere della terra che il 6 aprile 2009 condizionò per sempre il nostro destino e quello di tutti gli abitanti dell’Aquila. Il terremoto ci fece vacillare, ondeggiare, ci sbatté da una parte all’altra così come fece con le case, le strade, le vite; mentre la sua forza si stava placando e tutti si precipitavano in strada per riprendersi, soccorrere, fuggire o piangere, io e mia moglie eravamo su un marciapiede, abbracciati, mezzi svestiti e lei mi disse con voce incerta ed impaurita, poche semplici, inequivocabili parole: ti prego, portami a Roma.
Così tornammo. Pochi giorni dopo scoprimmo che tra le macerie di quella notte avevamo già con noi la speranza di ricominciare una nuova vita infatti, custodita nel grembo di mia moglie c’era la nostra bambina che rappresentava il coraggio e la forza di guardare avanti ed essere di nuovo felici. Andammo ad abitare nel quartiere di Tor Vergata, una zona sviluppatasi notevolmente negli ultimi venti anni grazie alla costruzione dell’università, del policlinico, di alberghi e centri commerciali. Il rovescio della medaglia era rappresentato dalla vicinanza di questo quartiere a zone come Tor Bella Monaca e Torre Angela, periferie malfamate dove lo spaccio di droga regna da sempre indisturbato e la malavita è la sola padrona del territorio. A pochi passi da casa nostra ogni notte si radunava una comitiva di ragazzi per passare qualche ora in compagnia. Sfortunatamente per tutto il vicinato costituivano un disturbo continuo alla quiete pubblica. Li sentivo ridere. Ridevano, bevevano, fumavano e urlavano. Provavo a chiudere gli occhi ma era impossibile dormire. Il letto in quei casi diventava un giaciglio di spine sul quale mi giravo spasmodicamente senza trovare pace. chiudere la finestra non era il caso viste le temperature equatoriali e comunque non sarebbe servito. Li avrei sentiti lo stesso perche il rumore che facevano era pari solo alla loro inciviltà. La comitiva era riunita e sembrava essere al gran completo. C’era il tamarro con l’autoradio a tutto volume, il burlone che rideva più forte di tutti arrivando a coprire il suono dell’autoradio; c’era la reginetta del quartiere che ogni tanto domandava ad un amichetto: <<aho ma che me tocchi er culo? Ma come te permetti!>>
Una motocicletta sfrecciava a folle velocità sotto la finestra della cucina. Il rombo del motore faceva scattare sull’attenti il pastore tedesco del vicino che a sua volta, abbaiando, chiamava in causa gli altri cani del circondario dando vita, tutti insieme appassionatamente, ad una fastidiosa quanto inopportuna nenia notturna.
Per un po’ tutto taceva. Morfeo sembrava aver disteso i suoi drappi su tutta la zona ma la quiete era presto infranta da una musica da piano bar. Il pub situato sulla strada principale aveva riaperto i battenti e dato il via all’imperdibile serata di karaoke (Certe volte vorrei picchiare Fiorello per averlo portato in tutta Italia).il locale non era affatto insonorizzato inoltre il proprietario si era arrogato il diritto di sistemare dei tavoli in un’area esterna dove gli avventori si fermavano letteralmente a bivaccare tutta la notte tra cocktail e risate creando un notevole disagio al vicinato. Ma a loro non si poteva imputare la colpa di andare in un locale a divertirsi; il fuorilegge era colui che gestiva la bettola, uomo arrogante e irrispettoso.
Una notte poi udimmo un gruppetto di auto fermarsi proprio sotto casa nostra. Non si sentì nessuno parlare. Poi uno, due, tre spari ed il rumore di un vetro in frantumi. Mia moglie andò a sbirciare dalla finestra socchiusa per capire cosa stesse accadendo e vide tre SUV neri allontanarsi a gran velocità. Il giorno dopo mi raccontò ciò che aveva visto e sentito e fui colto da sgomento; come potevamo crescere i nostri figli in un ambiente come quello? mi chiesi. Lei annuì e si strinse a me angosciata. Uscii di casa presto e nel parcheggio condominiale trovai un manipolo di persone intorno all’auto del mio vicino di casa.
<<Angelo che succede?>> chiesi incuriosito. L’auto aveva una gomma squarciata ed un vetro rotto. Inoltre l’autoradio era stata rubata.
<<Stanotte ho sentito un pò di casino ma non credevo ce l’avessero con me>> disse Angelo preoccupato. Poco distante notai una Mercedes parcheggiata in doppia fila. La riconobbi da un particolare inconfondibile, una targa attaccata sul lunotto posteriore che rivelava l’identità del proprietario: Il Giustiziere. Si trattava di uno pseudo-bullo del quartiere un pò avanti con gli anni, probabilmente da giovane si era macchiato di qualche piccolo reato, magari si era fatto anche qualche anno di galera per poi tornare nel quartiere aspirando a diventare una sorta di boss dalla reputazione infondata. Quella mattina simulava un controllo della situazione a dir poco ridicolo: sembrava dire “a bello, questo è er teritorio mio, so tutto quello che succede da ste parti. Nun se move na foja senza che io ne sia ‘nformato. Tranquillo rega’ te la risorvo io sta storia.”
Descrisse con dovizia di particolari lo svolgersi degli eventi come fosse stato presente la notte scorsa tanto che rimasi basito da tanta vana superbia. Restai un pò in ascolto poi chiamai Angelo in disparte e gli dissi con secco pragmatismo: <<Avverti la polizia quanto prima>>. E detto questo me ne andai.
Tor Vergata è tuttora un quartiere fatto di contraddizioni dove moderne infrastrutture si fondono con i brandelli di abuso edilizio ereditati dai decenni passati producendo uno stile architettonico senza soluzione di continuità. Case popolari, palazzine di recente costruzione e casupole indipendenti si affacciano su strade strette, dissestate e prive di marciapiedi. Il futuro cerca di imporsi ma il passato gli resiste con le sue case condonate, con le signore che fanno la spesa al mercato, con gli orti ricavati nel giardinetto di casa e con la torre in mattoni di terracotta salda, come sempre, al suo posto.
Il mio amico arrivò parcheggiando come sempre in divieto di sosta, scese dall’auto e mi venne incontro per salutarmi. Dopo una breve chiacchierata salimmo sulla sua macchina e partimmo. Le riflessioni che mi avevano fatto compagnia fino a quel momento esplosero nell’aria come bolle di sapone mentre noi ci tuffammo nel ruggente caos metropolitano per vivere il nostro “mercoledi da leoni”.