Premio Racconti nella Rete 2013 “Antigone” di Alessandra D’Eugenio
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2013In un piccolo paese ai confini del mondo, annidato negli anfratti di dolci colline, tremila anime consumavano la loro esistenza. L’apparente idillio celava silente le sue profonde piaghe, la quiete decantata occultava il pianto dei disperati, che tacitamente trascinavano l’atavica croce di chi diede loro i natali.
Carmela, un’angelica creatura dal sorriso serafico, portava in dote il fardello della sua discendenza. Era nata da una delle famiglie più povere del paese, ma soprattutto da una famiglia ove la follia e il caos regnavano incontrastati, trascinando tutti verso un’incontenibile deriva. Era l’ultima di quattro figli, messi al mondo da genitori per i quali crescere un agnello o un bambino non costituì una differenza così rilevante. Divenne adulta quasi in solitudine, imparando ad evitare le trappole tese da un destino già segnato dalla nascita. La madre morì giovane, quando lei, Carmela, aveva appena cinque anni; ma la sua presenza, anche prima della tragica fine, fu come una meteora, perché consumata tra i campi e le case di cura. Il padre, uomo visceralmente legato alla terra, manteneva un dialogo costante con gli elementi di madre natura, ma non si era mai sforzato di cercare un linguaggio appropriato a comunicare con i propri figli. Questi erano cresciuti ascoltando il fruscio delle foglie tra i rami, il sibilo del vento, cullandosi tra il calore di un agnello o di un coniglio, ma raramente avevano assaporato la stretta di un abbraccio materno o la dolcezza di una parola di conforto del padre. Fu dura la loro infanzia in famiglia, ma ancor più in società, tra la gente che riusciva a sentire soltanto l’odore, troppo intenso, di terra che emanavano le loro carni o ad osservare i vestiti lisi che portavano addosso. Una famiglia dannata la sua, ove ognuno viveva la propria dannazione in solitudine, senza neppure la condivisione della disperazione. Carmela era la più piccola dei fratelli ed era l’unica che aveva tentato di redimere se stessa da quell’immeritata condanna al nichilismo e all’emarginazione.
Si era iscritta all’Università a Roma, come facevano tante coetanee “per bene” del suo paese. Fu un tentativo di emergere da quel limbo di follia che opprimeva la sua famiglia, ma fu consumato in completa solitudine. Era troppo sola per riuscire ad affrontare un mondo così cinico e selettivo come la città. La violenza poi, non tardò a toccarla e ad infierire in un cuore già spezzato dalla nascita. Un abuso sessuale la ricacciò tra le tenebre, suggellando la convinzione che al mondo esisteva soltanto malvagità. Non c’era nessuno al suo fianco, non una madre, non una sorella ad ascoltarla e a reggere con lei il peso schiacciante di quel dolore. In realtà una sorella più grande ce l’aveva, ma era stata adottata all’età di dieci anni da una facoltosa coppia senza figli. Tutto ciò che rimaneva tra loro era il legame di sangue, che si manifestava con un “Ciao, come stai?” a Pasqua, a Natale e al Compleanno, ammesso che se lo fossero ricordato. Anche un uomo, con una sensibilità educata sarebbe stato in grado di confortarla, ma gli uomini di casa sua vivevano la negazione dell’emancipazione umana. Oltre al padre, volontariamente esiliato nelle sue lande agricole, i fratelli, cresciuti alla stregua di quel modello, menavano la loro esistenza tra la realtà campestre e tentativi surreali di costruire un loro presente nella società ordinaria. Tra fantomatiche imprese di trasporti e vendite di oggetti inutili, non si erano mai accorti di avere anche una sorella. Carmela rimaneva dunque, l’unica persona della famiglia ad essere presente a se stessa; l’unica che aveva maturato assieme alla coscienza della sua provenienza sociale, anche la volontà di affrancarsene e di affermarsi come individuo. Dopo le tragiche conseguenze del soggiorno a Roma, delusa dalle aspettative, tornò a vivere in paese, ma lontano dalla dimora paterna. Trovò un appartamento, con due piccole stanze arredate con poca cura, ma soltanto sue…lontane dal padre, dai fratelli, dalla gente, più curiosa che solidale, dalla città spietata. Creò il suo mondo nel mondo, una dimensione per contenere il suo animo incompreso, per poter studiare e realizzare quel sogno che timidamente le si affacciava alla mente: diventare avvocato…per difendere i dannati come lei. Tuttavia, la maturazione del suo percorso individuale non l’aveva distolta dal grande amore che in silenzio serbava per la sua famiglia. Fu infatti, la sua voce, la prima e l’unica a levarsi quando il prete volle negare il rito religioso al fratello morto suicida. Antonio, il primogenito, era il più ingenuo tra i fratelli e di conseguenza il più coccolato da Carmela. Era stata come una mammina per lui, piccola ma piena di premure, quelle attenzioni che avevano sempre animato la forte gelosia di Nicola. Questi era il più scaltro di tutti, ma alla sua furbizia alternava una buona dose di follia che lo rendeva periodicamente un soggetto pericoloso. Infatti rispetto alla misteriosa morte di Antonio, Carmela, poco convinta dal suicidio, pensava molto intimamente, proprio ad un possibile coinvolgimento del fratello Nicola.
Fu un colpo quando il padre le riportò la notizia della morte di Antonio, ma ancor più quando gli vide negata la celebrazione di una messa e di un degno rito funebre. Andò così, in ginocchio da don Peppino a scongiurarlo di concedere al fratello l’ordinaria ritualità che si compiva con tutti i defunti, ma niente di fatto. Il prete, di un cattolicesimo integralista, non volle neppure ascoltarla e la congedò con un “Andate in pace!”. L’unica persona che prestò ascolto alle sue parole, fu il nipote di don Peppino, un ragazzo molto timido che viveva con lo zio, perché orfano dalla nascita. Ascoltò la conversazione, origliando dalla porta della sua camera e provò un’immensa pietà per quella ragazza, con la quale forse, sentiva già di condividere il peso di una sorte non proprio benevola.
Si tenne il funerale in silenzio, senza chiesa, senza prete, poca gente, poche lacrime…soltanto quelle di Carmela e del padre. L’amministrazione comunale, sempre in prima fila ai funerali “importanti”, non spese neppure un consigliere per dimostrare solidarietà alla famiglia di uno condannato “ all’inferno”. Soltanto Paolo, il nipote di don Peppino, camminava dietro Carmela, contemplandola come una madonna in processione. Non conosceva ragioni il suo sentimento, era incondizionato e imprudentemente opposto alla volontà dello zio. Carmela non lo degnava neppure di uno sguardo, anzi riversava su di lui tutto lo sdegno e il rancore nutrito per l’ecclesiasta. Ma Paolo, ostinato, trovò, in un giorno di pioggia, il coraggio di “bussare alla sua porta”. Lei aprì e lo trovò impalato, senza ombrello, bagnato fradicio. “Che vuoi?” disse bruscamente “Ti manda tuo zio per umiliare ancora la mia famiglia?” Paolo rispose imbarazzato “No, mio zio non sa… e non deve sapere nulla che sono qui!” “E allora che vuoi?” Incalzò dura Carmela. “Voglio dirti…che non faccio altro che pensarti, da quando ti ho vista… che vorrei stare con te e asciugare ogni tua lacrima…che ormai sento che il tuo pianto è anche il mio, il tuo dolore mi appartiene e penso che l’amore…solo quello può guarire entrambi dal malessere che attanaglia la nostra anima.” Carmela guardò i grandi occhi di Paolo, cercando la conferma di quelle parole, che come soffici fiocchi di neve si erano posati su quel fuoco implacabile che le ardeva dentro.
Le si annebbiarono gli occhi a causa di quelle lacrime, che per amore, per tristezza, per quello strano nodo che dallo stomaco sale alla gola, si fanno incontenibili. Non riusciva a credere che qualcuno, addirittura il nipote del prete, le offrisse il suo amore incondizionatamente. “Posso abbracciarti Carmè?” Le lacrime scendevano sempre più fitte fino a farsi pianto, un pianto di gioia, di strazio, un pianto catartico che libera i sensi e la mente e purifica l’anima. Paolo la strinse in un abbraccio dal gusto eterno. Per la prima volta Carmela si sentì davvero compresa e amata, e pareva quasi un miracolo per lei che, da tempo, aveva abbandonato ogni sogno d’amore. Per una settimana, non ci fu un attimo in cui si distaccarono. Paolo divenne disertore dell’abitazione dello zio. La motivazione ufficiale della sua latitanza era che “dormiva a casa di amici per discutere di un importante progetto”, lui che di progetti intimi ne aveva, ma di amici, neppure uno. Un giorno uscendo, in piazza, gli riferirono che lo zio aveva saputo della sua permanenza da Carmela. Si diceva che avrebbe pazientato ancora qualche giorno, ma poi sarebbe andato a cercarlo di persona, per salvarlo dalla temibile compagnia di quell’eretica. Per evitare sofferenze a Carmela, Paolo anticipò lo zio e tornò a casa con l’intento di spiegargli le sue motivazioni; ma il prete, con intransigente distacco sentenziò che l’unica condizione per tornare a vivere nell’armonia di sempre era quella di dimenticare e allontanarsi da quella ragazza. Dimenticare? Impossibile…piuttosto la fuga…piuttosto la morte! Ne parlò con Carmela manifestandole la reale indignazione, ma anche tutta la determinazione nel voler rimanere con lei. Dopo lunghe ore di discussione, la saggia, ma pur sempre cattolica, decisione a cui giunse Paolo fu quella di assecondare, soltanto per un po’ di tempo, la volontà dello zio, tanto per far calmare le acque. Non si sarebbero visti per un paio di settimane e intanto avrebbe parlato al prete dei suoi sentimenti, cercando di convincerlo ad accettare la situazione. Carmela si mostrò d’accordo, ma intimamente scettica, non credeva che Paolo sarebbe poi andato fino in fondo nel contestare lo zio. Lo salutò, con occhi bassi e con la flebile promessa di attenderlo, fiduciosa del suo ritorno. “Ti aspetterò.” Furono le ultime parole di Teresa.
Era passata una settimana dall’ultima volta che aveva visto Paolo e da due giorni non smetteva di piovere. Goccia dopo goccia la pioggia sembrava scandire il tempo, che scorreva lento, senza alcun mutamento. Nello spazio di quelle quattro mura si consumava la sua ennesima attesa senza speranza. E la speranza andava ad affievolirsi fino a dissolversi nella totale disillusione, nella nube di una profonda malinconia che rendeva quella casa un sepolcro vivente.
In quell’assenza di felicità, Carmela sentiva già palpitare la sua morte, quella morte che le scaldava la mente e le raffreddava il cuore…quella morte che le toglieva il respiro…e che la soffocò con un cappio in gola.
Pendeva dal soffitto quando Paolo, affranto per le contese con lo zio, ma col sorriso di chi ostinatamente ama, spalancò la porta di casa per annunciarle la sua decisione di fuggire e vivere..insieme…per sempre….altrove.
Già, proprio altrove.
Era certo, ovunque lei fosse andata, lui l’avrebbe seguita. E così fu. Non indugiò un attimo nella volontà di raggiungerla… ovunque.
Tirò su una corda e poi fu subito giù…da lei…nelle tenebre dell’amore.
Complimenti davvero è profondo, vero, ti investe in un crescendo di intensità. m’è piaciuto