Premio Racconti nella Rete 2013 “Il palpito invisibile” di Roberta Zilio
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2013Alle sei e trenta di pomeriggio, d’estate come d’inverno, il filobus della linea 92 diretto alla Bovisa arriva nei pressi della Stazione Centrale bello e pieno ed è già una fortuna se ci si riesce a guadagnare uno spazio abbastanza largo in cui assicurarsi un buon appoggio dei piedi e una sbarra o una maniglia cui aggrapparsi.
Per Lara, ormai, salire, timbrare e posizionarsi nella pancia lunga del veicolo è un processo automatico, che svolge tenendo gli occhi bassi, a un livello non superiore a quello dell’obliteratrice. Le basta inquadrare gli scalini ed eventuali ingombri all’altezza delle gambe. Quando le porte sono chiuse e il filobus comincia a muoversi, capisce se l’autista appartiene al partito della guida scattante e nervosa, che accelera per inchiodare all’improvviso, o se è tra quelli che davanti a un semaforo arancione non ci pensano due volte a rallentare, lasciando che diventi rosso. Di conseguenza cerca qualche altro appiglio o sostegno cui affidarsi o, al contrario, si distende e lascia che le mani siano libere di fare altre cose. Con gli anni ha acquisito e affinato questo istinto metropolitano, lei che è cresciuta in campagna e a Milano c’è arrivata che era donna già fatta. L’importante è riuscire a creare velocemente e senza troppa fatica uno spazio vitale, un bozzolo entro il quale avere meno interferenze possibili con chi le sta intorno. E in questo modo riuscire a trascorrere al meglio i venti minuti di tragitto fino a piazza Bausan. Venticinque, quando il traffico è più denso del solito. Un tempo tutto per sé, la parentesi di decompressione tra l’ufficio e la casa, tra il suo ruolo di impiegata e quello di madre di famiglia.
Lara di solito lo dedica a quella parte di lei che viene dopo tutto e che si accontenta delle briciole di un’esistenza vissuta di corsa. Estrae un taccuino dalla borsetta e con una grafia resa traballante e irregolare, a volte quasi illeggibile dalle scosse e i sobbalzi sull’asfalto, appunta una frase. Un’annotazione, breve, telegrafica. Il distillato di una giornata.
Un pensiero al giorno. Questa è la regola del gioco che ha stabilito Elisa quando le ha regalato quella specie quaderno con la copertina rigida il trenta di dicembre, come buon auspicio per l’anno nuovo. Su un angolo di ogni pagina, di carta riciclata, la sua amica aveva aggiunto a mano un numero progressivo, che arrivava fino a centoottantasei, tante quante erano le facciate. “Intanto cominciamo con questo, poi vedremo” le ha detto, e poi aveva aggiunto che si sarebbe impegnata a fare altrettanto. Le ha mostrato un volumetto identico al suo: “Alla fine potremmo scambiarceli, che ne pensi?”. Lara ha accettato quella sfida come un gioco aveva il sapore dell’adolescenza. Nel corso della prima settimana ha scritto ogni giorno, alla sera, prima di andare a letto. Poi l’otto di gennaio si è accorta di avere già lasciato vuote due pagine. Per rimediare a quella smagliatura, ha improvvisato qualcosa che andasse a occupare i fogli che erano rimasti bianchi, ma nel rileggere quelle frasi messe su di proposito si è accorta che si trattava di un inganno che avrebbe nuociuto prima di tutto a se stessa. Così il giorno dopo Lara ha infilato il libretto nella borsa con cui va in ufficio in modo tale da averlo sotto mano se si fosse presentata l’ispirazione e l’occasione per la scrittura. All’inizio avvertiva il disagio di chi si sente costretto a esprimere per forza qualcosa che meriti di essere immortalato. Poi, una mattina di inizio febbraio in cui, seduta su uno dei sedili arancioni del convoglio ATM, rimirava il vuoto nella sua testa, le è capitato lo sguardo su una donna di mezza età materializzatasi dopo la fermata di Lancetti. Stava lì, a due metri da lei, impalata, al riparo dietro di due spesse lenti poste a pochi centimetri dal display del cellulare. L’acconciatura, la montatura degli occhiali, il cappotto che indossava, tutto aveva una forma squadrata: sembrava che per quella donna le curve non esistessero. Le sue dimensioni, in altezza e larghezza, si sviluppavano secondo degli angoli. Gli occhi erano due robotiche fessure rettangolari che a intervalli si stringevano, riducendosi a una linea. Lara è stata colta dall’impulso a fermare l’immagine di quel personaggio e siccome sentiva che le parole non le avrebbero tenuto dietro con la velocità e precisione che avrebbe voluto, ha deciso di farne un disegno. Ha tracciato le linee con decisione, velocemente, perché la donna avrebbe potuto scendere da un momento all’altro. A compimento dell’opera ha aggiunto un fumetto che usciva dalla bocca del ritratto. All’interno non c’erano parole, ma numeri, figure geometriche e altri segni a esprimere un linguaggio composto da formule astratte.
Ha guardato quello che aveva fatto, incredula e divertita, e ha richiuso velocemente prima che qualcuno potesse sbirciare. Da allora si è lasciata andare, annotando un po’ di tutto, anche le cose apparentemente più sciocche e frivole. E questo la faceva stare bene, perché in quel fermarsi ad osservare il significato che per lei aveva un fatto, un sentimento, riconosceva se stessa. E il sentire di poter aggiungere qualcosa al mondo attraverso il proprio sguardo le riportava il gusto di essere viva.
Non è riuscita a mantenere la promessa di scrivere ogni giorno, ma il libriccino è diventato un suo alleato.
Un pomeriggio di metà luglio Lara esce prima del solito. L’ufficio dove lavora è un open space senza finestre e così, quando sbuca sulla strada passando dall’uscita di emergenza, è sopresa dal fatto di non trovare il sole ad abbagliarla. Nessun riverbero dei raggi sulla pietra bianca del palazzo nelle cui viscere ha trascorso gran parte della giornata. All’orizzonte il cielo è ricoperto da un drappo viola scuro. Lei si affretta verso la fermata. Sale al volo sul primo autobus che arriva. Non è della sua linea, non la porterà vicino a casa, ma l’importante per lei ora è mettersi al riparo dalle folate ruvide e insistenti che spazzolano la carreggiata da cartacce e stralci di foglie.
Si sente la testa pesante. Quando succede così, una volta a bordo, è molto meglio starsene a guardare fuori dal finestrino, lasciare che le immagini delle auto e delle case sfilino davanti agli occhi senza fare il minimo sforzo, senza stabilire alcuna connessione logica che assomigli vagamente a un pensiero.
Il sedile davanti a lei si libera, ma non ha voglia di contenderselo con la ragazza al suo fianco e lascia che questa le scivoli davanti per accomodarsi.
A Zara il veicolo cede parte dei suoi viaggiatori alla metropolitana e rimane in sosta, con le porte aperte per permettere a chi arriva all’ultimo minuto di saltare dentro prima che il semaforo diventi verde e si riparta.
Lara ha davanti ai suoi occhi la pensilina sulla parte opposta della strada. Sotto la tettoia, sedute sulla panchina, un paio di donne con delle sporte. Il resto della gente in attesa è distribuita lungo lo spartitraffico. Tra questi c’è un uomo che parla e se la ride da solo, beve piccoli sorsi da una bottiglietta di plastica, camminando avanti e indietro. C’è poi un giovane dal fisico atletico, in sandali e calzoni corti, con in mano una rosa rossa fasciata dal cellophane. L’involucro trasparente assomiglia a una guaina, tanto è stretto. Chissà a chi è destinato.
A quella vista Lara sorride. Anche lei oggi ha avuto delle rose. Durante la pausa pranzo, attraversando la strada davanti all’imbocco del tunnel sotto i binari, i suoi occhi hanno intercettato una grande macchia rossa sul marciapiedi, a ridosso di un bidone della spazzatura. Si è avvicinata per verificare se fosse proprio quello che sembrava e sì, erano tante rose rosse tagliate sotto la corolla e giustapposte per formare un grande cuore. Sui petali luccicavano ancora delle perle d’acqua.
Lara rimaneva lì, incantata, tra gli autobus in arrivo da Malpensa che riversavano viaggiatori provenienti da ogni dove, giunti a destinazione o ancora in transito insieme a valigie, zaini e fagotti. Famiglie dagli occhi a mandorla guidate dall’iPhone nella ricerca della via più breve per giungere all’hotel; ragazze dai capelli biondi in calzoni corti, infradito è il naso all’insù, quasi del tutto coperto da grossi occhiali scuri; interi ginecei provenienti dall’Africa, o dall’India, avvolti in abiti talari, circondati da bambine e bambini di varia età. Negli anfratti di quei portoni della stazione che rimangono perennemente chiusi, qualche anima persa in una lattina di birra, e venditori ambulanti accucciati per terra a sorvegliare la merce esposta su delle lenzuola: occhiali da sole, mascherine per smart-phone e altre chincaglierie di plastica colorata.
Di tanto in tanto il rombo di un treno in partenza arrivava a coprire i richiami dei conducenti d’autobus e le frasi in varie lingue straniere.
Nessuno si fermava ad osservare il cuore vicino alla spazzatura. Nessuno, tanto più, che ne rivendicasse la proprietà. Forse avrebbe dovuto prenderlo lei, se non altro per tenerlo in custodia. Ma a questo punto si poneva il problema di dove sistemarlo e come conservarlo. E comunque che cosa l’autorizzava a portarlo via da lì?
Mentre contemplava la sagoma di quell’insolito bouquet, scura come un grumo di sangue sul pavet grigio battuto dal sole, Lara si sentiva la testimone privilegiata di un fatto eccezionale. Doveva conservarne una prova. E così lo aveva fotografato.
Infine era andata avanti, ma con la sensazione di lasciarsi qualcosa di incompiuto alle spalle, di non essere andata a fondo in una faccenda che in qualche modo la riguardava. Forse quelle rose erano proprio per lei.
Era entrata dentro la stazione, come faceva quasi ogni giorno da quando l’azienda di cui è dipendente si è trasferita lì vicino. Le dà piacere guardare la gente che si dirige verso un treno. Vive insieme a loro l’eccitazione della partenza. La contemplazione del paesaggio dal finestrino, gli incontri possibili, le letture. Preferisce pensare che siano tutti in procinto di andare in qualche dove. Di partire. Il ritorno non lo contempla, perché non è interessante, di fatto è la conclusione dell’avventura.
Per distrarsi dall’immagine del cuore era entrata in libreria. Aveva dato uno sguardo alle nuove uscite, leggendo qualche pagina qua e là. Alla fine non aveva preso niente. Di libri in attesa di essere letti ne aveva già troppi, a casa.
Quando ormai la pausa stava per finire si era diretta verso l’ufficio.
Era giunta sul punto dove aveva sostato mezz’ora prima.
Il cuore era ancora lì, intatto, nello scalpiccio della gente che andava e veniva.
Lara gli aveva lanciato un ultimo sguardo di congedo e aveva proseguito.
Dopo aver attraversato via Farini, il filobus ha percorso Viale Stelvio ed è infine sbucato in Viale Jenner.
Quando Lara scende in piazzale Nigra il vento si è fatto ancora più forte.
Lei attraversa la strada e si infila in via Catone. Deve percorrere almeno un chilometro per arrivare a casa. Il cielo bluastro incombe sopra i palazzi e i caseggiati che una volta erano appartenuti alle industrie. Un tuono percuote l’aria come fosse la pancia di un tamburo.
Questo la intimorisce e la fa camminare più svelta. Una musica proviene da un appartamento lì di fianco. Lei alza gli occhi. A un balcone, un uomo in boxer fuma scrutando i nuvoloni.
Lungo il marciapiedi s’affrettano le persone. Chi cammina con le borse di nylon del supermercato che spenzolano dalle braccia. Chi trascina dei bambini per mano.
Lara ha l’impressione di riuscire a percepire che cosa stia attraversando la mente di ognuno di loro. Ripensa al cuore sull’asfalto e le sembra quasi di sentirlo battere, con il palpito invisibile di ogni uomo e ogni donna che torna a casa a fine giornata.
Cadono le prime gocce, prima rade, poi sempre più forti e corpose, come acini d’acqua.
Due ragazzi sudamericani in giacca e cravatta corrono verso di lei. Si coprono il capo con delle borse di pelle. Si stanno sfidano a chi arriva prima, ridono.
Lara si scosta, sente il fresco dell’aria da loro smossa. Inspira e si sente più leggera. Sollevata.
Rallenta il passo, si accosta a un muro, apre il suo libriccino.
E ascolta il fruscio della pioggia.