Premio Racconti nella Rete 2013 “Moana” di Laura Ciapetti
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2013“Io e lui stiamo seduti intorno al tavolo, composti, tutti e tre rivolti verso un ipotetico spettatore. Lei sta in mezzo, sopra il tavolo, poggiata su un fianco, con le cosce dalla mia parte e le gambe un po’ piegate. Si sostiene con il braccio destro e inarca la schiena per mettere in risalto il seno. Noi siamo figure minuscole, due committenti prostrati ai piedi di una madonna, dipinti nelle pale d’altare: lui alla sua destra, io alla sinistra. Lei è grande, quasi nuda. La sua carne ci sovrasta, sembra toglierci ogni forza, ogni soffio di vitalità. Ha i capelli di un biondo carico, lucidi e vischiosi come miele di castagno, e riccioli molli quasi sfatti. La sua immobilità fa pensare a un tornado guardato dietro a un vetro. La pelle chiara, porosa come carta della migliore qualità, turgida e tesa sui seni, sulle braccia, sembra saturare tutta la stanza. All’improvviso so che ho perso. Chiunque io sia stata fino a adesso, le frasi che ho pronunciato, le cose che ho fatto, non contano più. Mi arrendo alla carnalità che prorompe, mi attrae e poi mi cancella. Lei fa la stupida, parla con voce in falsetto, ammicca; tutto quello che ci si aspetterebbe da una donna così, seduta su un tavolo mezza nuda. I suoi gesti, le moine sono assurdamente seduttive, come se ce ne fosse bisogno o come se non si potesse chiederle altro. Non ha vestiti, né biancheria intima, solo minuscole strisce intorno al corpo, un nastro nero che passa sui capezzoli come una colata d’asfalto sulla neve e uno rosso che gira intorno al collo. Nodi, intrecci precari che non coprono ma infittiscono il mistero. Improvvisamente lui si alza, le si avvicina, senza guardarmi le prende un seno con le mani e comincia a succhiare. Io mi alzo, sbraito, sono piena di rabbia, in un balzo sto loro di fronte, ma mi tengo a distanza. Brucio di indignazione, da lui mi aspettavo altro, lui così integerrimo, così rigido. Comincio a inveire per distoglierlo, fargli cambiare idea urlando che mi sta facendo del male, parlo di umiliazioni, di princìpi, ma lui non mi sente. E’ attirato da quel candore come un magnete e lei se ne sta immobile, placida. Non mi guarda, non reagisce, come fossi un moscerino e la mia voce stridula niente più che un tenue ronzìo. Mi sento tradita, delusa, buttata, sono arrabbiata, ma nonostante tutta questa agitazione c’è in me uno strano silenzio, qualcosa di immoto, un altro occhio che guarda la scena, fermo. Lui stacca la bocca, solleva il viso, si volta e mi guarda: le sue labbra dicono senza voce “non ce la faccio”, alza le mani rivolgendomi il palmo, come in una preghiera, e poi le abbassa all’improvviso, braccia molli che ricadono lungo il corpo. Si rianima e si gira per rimettersi al lavoro, io mi dico che non posso resistere, mi volto, me ne vado sbattendo la porta.” Il teatro era minuscolo, le poltrone incombevano sul palco come in un salotto troppo piccolo e affollato. Velluti rossi sgangherati, pulviscolo e sudore sembravano aver precipitato gli spettatori in una intimità immediata ed eccessiva. Ernesto continuava a lisciarsi la barba brizzolata senza riuscire a staccare gli occhi dalla donna in piedi sul palco, lievemente appoggiata al leggìo. Avrebbe dovuto leggere, invece aveva recitato con una abilità che non si aspettava. Avvolta in un abito cangiante color bosco, strascicato sull’assito con disinvoltura, si era concessa lunghe pause, toccandosi i capelli e serrando le labbra. Quando le sue parole si spensero tutto sembrò sospeso. Ernesto si sentiva costretto in una posizione innaturale, le ginocchia unite puntate sul sedile di fronte, i piedi poggiati sull’ombrello gocciolante. Aveva percorso un lungo tragitto per vedere la sua scrittrice preferita, sentire cosa avrebbe detto. La ragazza seduta vicino a Ernesto sospirò piano asciugandosi i palmi delle mani sulla gonna. La donna sul palco sembrava perfetta e fissava la platea oscura con la luce sulla faccia. All’improvviso tutti cominciarono ad applaudire con un fragore che riportava al presente. Ernesto avvertiva un prurito sul collo, passava e ripassava meccanicamente due dita intorno al risvolto del maglione, fissando la scrittrice; quel che aveva letto sembrava non averle procurato il minimo imbarazzo, sarebbe stato curioso, lui, di vederla i giorni precedenti a correggere le bozze masticando distrattamente la matita, trasandata, dimentica per un momento del fascino che sapeva di emanare. Seduta in terza fila, Giulia aveva pensato che le parole lanciate sembravano petardi, una polvere sottile aleggiava sugli spettatori e si sarebbe sedimentata piano piano. I suoi capelli erano ancora umidi per la pioggia, avrebbe voluto alzarsi e scrollarsi come un cane, ma non si muoveva, continuava a tornare quasi febbrilmente sulle parole che aveva ascoltato. Il presentatore era risalito sul palco e stava commentando l’esibizione, Ernesto ripensava ad una immagine che aveva catturato la sua attenzione su una rivista qualche settimana prima. La foto ritraeva una modella come tante, statica, inespressiva, ma era stato spinto a tornare indietro e guardare di nuovo, più a lungo, soffermandosi sul reggiseno traforato attraversato da una striscia di seta nera. Mentre sfogliava distrattamente le pagine si era chiesto perché. Con un gesto delicato si lisciò il cranio glabro. Ogni volta che leggeva le sue cose, Ernesto sentiva di avere con la donna sul palco una grande affinità intellettuale ma adesso gli sembrava una coincidenza singolare che coltivasse le stesse fantasie. Giulia scrutava il volto della scrittrice, le sue clavicole ossute messe in mostra come gioielli, il suo sguardo coraggioso, rivolto alle ultime file. Doveva esserci qualcuno, là dietro, che forse aveva riconosciuto o che sperava di vedere. Giulia cercava di captare il suo sguardo, agitandosi sulla poltrona scricchiolante, chiedendosi turbata cosa la donna sapesse di lei. La scrittrice cercò di concentrarsi sulle parole dell’uomo che, in piedi vicino a lei, le porgeva il microfono. Spostò il peso da un piede all’altro, togliendosi gli occhiali da vicino con disinvoltura. “Dovrei chiedere di abbassare un po’ le luci, sto morendo di caldo” pensò, mentre frugava con noncuranza apparente fra i volti delle ultime file. “Mi ha detto che veniva a sentirmi, vorrei sapere..” si chiese, sorridendo al presentatore e si morse le labbra, volgendosi verso il divano di velluto un po’ logoro che troneggiava in mezzo al palcoscenico, mostrando di volersi sedere, prendendo tempo mentre cercava una risposta alla domanda che non aveva sentito. Ernesto la guardava, seguiva ogni suo movimento, sembrava più magra che in passato, guizzante come un nervo scoperto. L’incanto di qualche istante prima era rotto, tutti si aggiustavano sulle poltrone, tossivano, l’eccitazione fuggiva a nascondersi, umida come una talpa, minacciata dalla luce improvvisa. Giulia frugava nella borsa, rovistando cercava il suo taccuino, facendo rumore, urtando col gomito il vicino. “Lo avevo scritto” pensava e intanto alla cieca, con le mani, scansava le chiavi, una busta, scontrini e carte di caramelle, seguendo febbrilmente i contorni degli oggetti con le dita. All’improvviso capì, si arrese, abbandonando le mani inerti dentro la borsa floscia. La testa di Giulia turbinava mentre intorno si susseguivano gli interventi dal pubblico, le domande, gli applausi degli spettatori sedotti dalle pause della scrittrice e dal suo modo di succhiare la stanghetta degli occhiali. Ernesto fissò Giulia per un attimo, di sbieco. Era un bel tipo, pensò, ma si agitava troppo, distraendo la sua attenzione dalla donna sul palco. Chissà come sarebbe stato conoscere la scrittrice, chiederle di raccontare ancora di quelle strisce nere sui seni bianchi come il latte. Intanto lei parlava della perdita, della rinuncia, dell’esitazione che contiene per un momento infinite possibilità e di come il matrimonio sia l’evento che si dispone a far cadere nel vuoto il più alto numero di occasioni di qualsivoglia natura si presentino ad un essere umano. Ma a chiunque guardasse la scrittrice appariva evidente che lei non era disposta a rinunciare a niente. Scandiva le parole lentamente, come si rivolgesse ad una sola persona, e lei sola conoscesse il significato recondito di quello che stava dicendo. Dalle ultime file la luce, densa di pulviscolo, la seguiva come un occhio ingordo. La scrittrice cercava di non perdere il filo del discorso, raccoglieva il vestito frusciante con una mano davanti alle cosce, camminava tentando di sottrarsi al faro che la seguiva, ossequioso. Recitava per un unico spettatore e desiderava intensamente che fosse presente. Giulia si chiedeva come fosse potuto accadere. Quello che la scrittrice aveva messo in scena era il suo sogno. L’aveva fatto qualche mese prima, aveva saputo subito che era uno di quelli speciali, per come ricordava con nitore ogni particolare, per le associazioni che erano fluite a fiotti, per l’urgenza che l’aveva spinta a scriverlo di getto prima che svanisse. L’aveva trascritto e poi raccontato alla sua analista. Ne avevano parlato a lungo, dipanandolo per più di una seduta. Non poteva essere una coincidenza, non poteva essere un caso. “Finalmente si è placata” si disse Ernesto, rilassandosi prima ancora di percepire che Giulia era finalmente immota. Anche lui stava immobile, non tormentava più il collo del maglione, non avvertiva neanche la scomodità della posizione. Con le sue parole, la scrittrice sembrava aver raccolto da una grotta nascosta dentro di lui una manciata di muschio luccicante, trasformandolo sul palco in un mazzo di rose scarlatte dai petali maturi e carnosi. “E’ stata lei, è stata lei”. Giulia non riusciva a pensare ad altro e sentiva in bocca il sapore secco della polvere. Si ripeteva “che stronza, che stronza”, senza capire se era rivolto alla donna che aveva conquistato l’uditorio rubandole le parole o all’analista che era riuscita a trasformarla a tradimento nella scrittrice che desiderava diventare. Sul palco la scrittrice si girò per tornare verso il divano, si trovò in ombra, improvvisamente, e scorse nell’ultima poltroncina in alto a destra il viso che cercava, illuminato dal bagliore di un girocollo di perle. Si raddrizzò con uno scatto, come una cavallerizza trionfante. “Sapevo che saresti venuta, amore. Vedi di cosa sono capace per te? Dammi i tuoi segreti, ti regalerò la sola cosa che so fare: una storia”.
lascia una buona sensazione leggere queste righe, intense e serrate quasi compresse per le immagini che lascia.
Realtà, sogno, istinto,ragione,cuore, testa,questo mi seduce in questo racconto e mi riconduce a lui.
Fluido, scorrevole,intenso…… un bel racconto.