Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Racconti nella Rete 2009 “Uomini” di Adriano Ficili

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2009

Nelle calde sere di maggio Catania sembra una città più bella, in cui la luce soffusa dei lampioni proietta sui muri grigi degli edifici le ombre malinconiche dei passanti.

Il brusio della gente, sfiancata dal lavoro, dalle corse in macchina, dalle liti con i vicini, dagli assordanti rumori dei clacson, si riversa su via Etnea che maestosa, in tutta la sua lunghezza, si mostra come la madre di tutte le strade, la regina indiscussa della notte.

In questa città il cui manifesto fascino architettonico viene spesso calpestato dagli abominevoli fatti di cronaca che impestano come funghi velenosi intere pagine di quotidiani, molte delle tragiche storie che accadono rimangono nel dimenticatoio, relegate in fondo alle viuzze della periferia, all’ombra di vecchie case degradate.

Una di queste storie dal sapore amaro, che lasciano dentro il senso di un tormento al quale non si potrà mai fare a meno di pensare, è quella di Livia, la figlia del tranviere.

Il padre lo conoscevano tutti nella zona in cui abitava, quella di piazza Rosolino Pilo.

La sua casa faceva angolo con il panificio di sant’ Anna ed era la più grande del quartiere.

La mattina presto, quando usciva dal portone vestito di tutto punto, col berretto e la valigetta di pelle, i baffi spioventi e gli occhi vivi, a tutto somigliava meno che a un tranviere, e per l’aria e il portamento che amava assumere, la gente del vicinato gli aveva addossato il soprannome di “dottore”.

Il dottor Zingale, questo il suo cognome tipicamente catanese, amava il suo lavoro, ed era assai meticoloso e preciso in tutto ciò che faceva, dai due cucchiaini e un terzo di zucchero che regolarmente dopo pranzo versava sul suo caffè, alle ciabatte che posizionava sempre appaiate e parallele al fianco del letto prima di andare a dormire. Per non parlare del suo passatempo preferito: la collezione dei tappi di bottiglie stappate a natale dall’84 a oggi; tappi che amava conservare, disposti in verticale su sei file, alla stessa distanza gli uni dagli altri, in una teca che aveva comprato apposta.

Quando qualcuno gli faceva notare la sua eccessiva attenzione nel fare delle cose a volte del tutto frivole lui si indispettiva a tal punto che non gli rivolgeva più la parola.

La moglie, una nobildonna catanese appartenente ad una delle più illustri famiglie della città, aveva litigato con tutti i suoi parenti, compresi i genitori, nel momento in cui non aveva voluto sposare il cugino, nobile nullafacente di partito buono, preferendo convolare a nozze con un uomo dal tenore di vita sicuramente inferiore, ma che di certo l’amava maggiormente.

I suoi abiti pomposi, le sottane ricamate, i gioielli sempre bene in vista, i capelli dai grandi riccioli neri che finemente contornavano il suo viso bianco e morbido non facevano altro che alimentare le malelingue delle anziane donne limitrofe, che nell’ora del vespro, con la scusa del ricamo, formavano giù nelle strade dei veri e propri circoli di pettegolezzo.

Livia, la figlia, completava l’insolito quadretto familiare nella maniera più insolita.

Tutti si chiedevano da chi avesse preso il suo carattere, così diverso da entrambi i genitori.

Aveva da poco compiuto ventitré anni e fin da piccola si era distinta per la sua innata capacità di dipingere.

Spesso non poteva proprio farne a meno e trascorreva intere giornate davanti a una tela, con i pennelli in mano, a dare libertà alle sue voglie e ai suoi turbamenti.

I soggetti che preferiva erano i paesaggi, quelli dolci delle campagne nelle fredde sere di Novembre, allietati qua e là da piccole sagome in lontananza, forse di uomini, sfumate e impercettibili, mentre castagni, pini e abeti ricevevano luce e vita dai colori, il cui accorto impasto denotava grande maestria.

Senza che i genitori ne fossero almeno in parte d’accordo Livia aveva deciso di iscriversi all’accademia di belle arti, per rendere il giusto onore al suo talento.

Le serate notturne, il caos di giovani che si creava intorno ai pub verso piazza teatro massimo, il frastuono delle discoteche, non l’attraevano più di tanto. Anzi spesso preferiva restare in casa, nella sua stanza, a dipingere o a leggere le poesie di Quasimodo o Baudelaire. Odiava il rumore delle auto che impazzavano lungo via Etnea, la polvere per cui era allergica e che la rendeva nervosa, la cenere dell’Etna che copriva con un sottile strato nero i tetti delle case e i balconi, compreso il suo dal quale amava affacciarsi la sera per guardare le stelle.

Quando andava a trovare la nonna, quella paterna, alla quale era più affezionata, che abitava a pochi isolati di distanza, in via Oberdan, si divertiva a canticchiare le canzoni di Battisti.

A volte di notte si metteva le cuffie alle orecchie e riascoltava anche più di dieci volte di fila le stesse melodie, fino a quando non si addormentava.

Una domenica di metà Maggio, com’era solita fare, Livia uscì fuori per andare dalla nonna.

Erano le tre del pomeriggio. Il sole rischiarava i ciottoli grigi delle strade. L’aria era tersa e leggera.

Poche macchine circolavano. I più erano ancora dentro a riposare dopo un’abbondante pranzo, alcuni si stavano già risvegliando dal pisolino ristoratore che si erano concessi, mentre altri avevano già acceso la televisione per seguire le partite di campionato che presto sarebbero iniziate.

Livia avanzava gaiamente, saltellando, ripetendo a mente le parole della canzone “ due mondi ” che aveva ascoltato la notte prima e che le aveva fatto pensare, forse per la prima volta seriamente, all’amore e a come questa forza potesse smuovere così tanto gli animi e infiammare i cuori.

Prima di uscire si era guardata allo specchio cercando ancora una volta di scorgervi l’immagine che lei desiderava, e nuovamente era rimasta delusa nell’osservare la ragazza di sempre, magra, emaciata, scura in volto, forse poco piacente, dalla personalità complessa non ancora del tutto formata, alla ricerca di un forte stimolo che la facesse uscire dal guscio, che la facesse veramente gioire. Per anni aveva dovuto subire di essere etichettata dagli altri come la figlia del “dottore” e della “contessa”, termini usati malignamente da coloro che ignoravano il suo stato d’animo.

Mentre camminava saltellando, per distogliere la mente dai brutti pensieri fantasticava, pensando che un giorno anche lei avrebbe incontrato il principe azzurro e che una volta sposati si sarebbero trasferiti su un’isola deserta, come nei film.

Teneva la mente occupata da tutto questo ed era già tornata a sorridere.

Fra l’altro tra poco avrebbe riabbracciato la cara nonnina, che non vedeva da diversi giorni.

Era ormai giunta alla soglia di casa. I raggi del sole iniziavano a pizzicarle la schiena.

Alza gli occhi verso il campanello, va per suonare ma si ferma.

Il portone è aperto. Lo spinge ed entra. La nonna lo avrà lasciato aperto, pensa, mentre saltella lungo il corridoio. In fondo a destra c’era il salotto dove la cara vecchietta di solito si sedeva per lavorare a maglia. La chiama a gran voce, poco prima di entrare: – nonna, sono io, hai dimenticato di chiudere il port… d’improvviso le parole le si smorzano nella gola.

Guarda la nonna, riversa a terra con la faccia in giù, in un lago di sangue; anche le pareti e le porte sono imbrattate, schizzate come da vernice rossa.

Livia si porta le mani al volto. Piange. Grida. È scioccata. Non sa cosa fare. Le gira la testa.

Poi lo sguardo va a sinistra. Le sembra di vedere qualcosa, una sagoma. Un uomo. C’è un uomo dietro la tenda che la sta fissando. Livia grida: – aiuto, chi sei? –

L’uomo esce allo scoperto e avanza verso di lei. È interamente vestito di nero. Il volto scuro, tetro. Non ha l’aspetto di un principe azzurro.

Con la mano destra impugna un coltello da cucina dalla lama insanguinata; nella sinistra stringe un mazzetto di banconote da cinquanta euro.

Quel giorno la nonna di Livia era andata alla posta per ritirare la pensione; il malfattore aveva aspettato che la signora rientrasse e nel momento in cui stava per aprire l’aveva costretta a farlo entrare, per poi ucciderla selvaggiamente. Da lì aveva approfittato per rigirare la casa alla ricerca di altri soldi o di gioielli. Stava quasi per andarsene, quando ha sentito Livia gridare.

Ed ora si trovava proprio di fronte a lei. I suoi occhi, accecati dalla follia, tradivano una furia omicida non ancora del tutto appagata.

Le grida strazianti di Livia si spensero quando la lama affilata del coltello le raggiunse il ventre, mentre tutt’intorno si offuscava e svaniva, in un tremendo istante, in cui il dolore si mischiò alla sua assoluta indecifrabilità.

Il resto si sa: i pianti, i lamenti dei parenti, ma soprattutto il senso si vuoto nei cuori dei genitori. Davanti ad un interminabile cordoglio funebre il loro strazio per la perdita si unì al senso di inettitudine, all’impotenza. Le viscere si rovesciarono nello stomaco e il peso del mondo si sommò al peso del loro mondo.

Niente di simile ai due mondi che Livia si augurava di conoscere, il suo e quello del suo principe azzurro. Forse in un aldilà avrà trovato la pace e avrà conosciuto il vero volto dell’amore. Forse, mentre ci guarderà dall’alto, potrà ancora dipingere i suoi dolci paesaggi e forse quelle sagome scure, dai contorni poco definiti, che lei vi inseriva, prenderanno forma e colore diventando uomini. Uomini, non bestie.

 

 

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