Premio Racconti nella Rete 2013 “Dalia” di Lucia Cosci
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2013“Non può essere” sbuffa Dalia.
Le è sembrato di sentire arrivare dallo studio di Aldo, il ticchettio della macchina da scrivere. Ma Aldo non c’è. “Dopo quarantanove anni di matrimonio ha visto bene di tornare al creatore per primo” piagnucola.
Si alza dalla poltrona in pelle verde bottiglia, appoggia la tazzina di porcellana. La tisana al biancospino emana un sottile fumo verticale.
“Forse avrei bisogno di una cura per i nervi, più che di un po’ di fiori in infusione” rimugina.
Le manca tutto di suo marito. Le manca a chi preparare le mele cotte la sera, quando sulle scale si spandeva quel sentore stantio di commenda.
Le manca il giro al mercato per comprargli calze di lana.
Le mancano al pomeriggio i rammendi da fare e pantaloni da stirare.
Avvolta in questi pensieri si avvia, furtiva, verso lo studio. Ha deciso di controllare la macchina da scrivere.
Apre la porta, le giunture cigolano secche.
Le batte sugli occhi un raggio di sole e le brillano dinanzi una miriade di particelle di pulviscolo. Come in una fotografia sfocata, le torna alla mente il giorno in cui conobbe Aldo.
Dalia si trovava seduta a bere un orzo al bar “Le Fontane”, nell’attesa di riaprire la merceria. Aldo entrò per un caffè prima di proseguire il giro dei negozi.
Lei aveva appena vent’anni, lui poco più di trenta.
Aldo poggiò i suoi occhi di rettile su di lei. Era stretta in un cappotto rosa cipria. La sua figura era magra ma aveva spalle e i fianchi arrotondati.
Aveva capelli biondo-cenere, come di lana che donavano sul viso allungato. Gli occhi piccoli e rivolti all’ingiù, il naso stretto, la bocca piatta.
Aveva lo sguardo sempre rivolto a terra lo sollevò un momento per osservare Aldo.
Se Dalia avesse dovuto usare una parola per descrivere quell’uomo, avrebbe usato il termine asciutto. Era asciutto nel fisico, asciutta era la sua pelle, asciutto lo sguardo. La schiena dritta gli regalava un portamento fiero.
Dalia pensò che fosse raffreddato poiché finì le poche frasi dette al barista con dei colpi di tosse.
Erano i primi anni sessanta, fuori l’acqua delle fontane scrosciava e il bar sapeva di caffè tostato. Risuonava dal jukebox la voce di Claudio Villa.
Dalia finì di bere l’orzo e, nell’appoggiare la tazza le scivolò di mano, tintinnando contro il piattino. Lui si voltò impercettibilmente.
Per l’imbarazzo lei dimenticò il borsellino in pelle vicino alla cassa. Quando Aldo andò a pagare e si accorse, era già scomparsa in strada. Così la sera stessa, dopo l’ultimo cliente prese l’indirizzo dalla carta d’identità e vi si recò: via delle Rose numero otto.
Dalia da poco rientrata dalla mesticheria, si stava massaggiando i piedi infreddoliti nelle calze di nylon quando udì il campanello.
– Chi è? – chiese il padre dalla finestra. Dalia appoggiò l’orecchio alla parete.
– Salve, mi chiamo Aldo Coppini, ho trovato al bar in piazza il portafoglio di Dalia Savelli.
– Ah! Grazie. E’ mia figlia. Prego, salga.
Le guance di Dalia si tinsero di rosso, a chiazze. Poi sbirciò attraverso la fessura della porta.
– La ringrazio molto – disse porgendogli la mano il signor Savelli. – Sa, mia figlia è un po’ sbadata.
– Si figuri. – Aldo dette due colpi di tosse.
– Perché non entra e ci beviamo un Campari? Lo conosce?
– Certo, sono rappresentante di prodotti alimentari.
– Davvero? Un collega! Io sono l’agente Campari della provincia.
Aldo e Dalia quasi non si parlarono, a parte i timidi ringraziamenti di lei che rovesciarono un bicchiere sul tappeto. Aldo rispose con poco più di un paio di colpi di tosse.
Una settimana dopo Aldo era a cena dal signor Savelli. La moglie aveva preparato i pici fatti a mano e una crostata di ciliegie.
Dalia non lo capì subito ma a suo padre quello sconosciuto che aveva bussato alla porta una sera di fine inverno, era parso un buon partito per la figlia.
Una sera di maggio, Aldo portò Dalia al cinema, a vedere “La ciociara”. Le prese la mano molle e la tenne nella sua, asciutta. I baci vennero dopo, stretti come la bocca di Aldo.
Che fortuna pensava Dalia che Aldo fosse capitato così a casa sua. Era un uomo intelligente, con un lavoro, parlava poco ma era educato. Sì, un po’ introverso e all’apparenza burbero, ma non cattivo.
Dalia, a suo modo, era una ragazza diversa. Seria. Lavoratrice. Non fumava, non metteva il rossetto e non ancheggiava dentro gonne aderenti. Sicuramente Aldo a trent’anni, con i suoi occhi stretti sempre in auto per lavoro, non avrebbe trovato di meglio.
Il sedici settembre del millenovecento sessantadue, in una chiesetta di campagna adorna di garofani rossi, Aldo e Dalia si sposarono. L’unica assente era Susanna, sorella di Dalia. Doveva presentare una collezione di moda a Parigi. Da due anni non tornava a casa.
Susanna aveva raggiunto Giselle, una cugina della madre che aveva aperto un’elegante boutique. Voleva imparare a disegnare, tagliare e cucire gli abiti. “Come se in città non ci fossero scuole di sartoria”, le aveva rinfacciato il padre prima di partire. Lei aveva replicato con la sua voce squillante: “Babbo, ci fosse anche la migliore scuola di moda, io ho bisogno di cambiare. Vedere volti diversi, respirare un’altra aria. Capisci?”
Un anno dopo il matrimonio, una domenica mattina Dalia era appisolata sul divano. Era al sesto mese di gravidanza. Il medico le aveva raccomandato di riposare. Aldo era in garage, stava incollando la suola dei suoi mocassini in cuoio.
Rombò dalla strada uno scoppiettare di marmitta che si fermò, con un tonfo sordo, proprio davanti casa loro. Aldo, si affacciò dal garage e vide un maggiolino rosso ceralacca.
Scese la bella copia di Dalia. Ciò che in Dalia era chiuso in quella donna si apriva. Il portamento, rivolto verso l’alto. Il viso, rotondo. Gli occhi grandi, che guardavano il cielo. Il sorriso immenso come il luccichio che emanava. Anche i capelli si aprivano in larghe onde eleganti. I colori erano gli stessi di Dalia, ma la vita fuoriusciva da quella donna.
Mentre andava verso di lui, con passo lungo e deciso, un foulard viola al collo, proruppe con il tono squillante della sua voce:
– Scommetto che tu sei Aldo! La cara Dalia ti ha descritto bene nelle lettere. Io sono Susanna, avrai sentito parlare anche tu di me. Sicuramente non bene. – Nel dire questo gli strinse la mano come una morsa.
– Piacere. – sibilò Aldo.
Il cuore prese a scalpitargli come un animale pazzo.
– Vieni da Dalia. Sta riposando. Sarà sorpresa di vederti – le disse con gli occhi immobili e il consueto raschio di tosse in gola.
Dalia li vide, dal risvolto delle tende in sala, osservò lo sguardo di suo marito posarsi sulla schiena di Susanna. Pensò che sarebbe stato bello se fossero andati d’accordo.
Sei mesi dopo quella domenica Susanna tornò per rimanere. Rincorreva un nuovo sogno: acquistare una vigna e produrre vino. Seguì un corso di enologia e il professore di viticoltura s’ invaghì dei suoi foulard e dei guizzi di quegli occhi. Si sposarono su uno scoglio ad Amalfi.
Dalia e Susanna trascorsero da allora tutte le ricorrenze assieme, incluse tutte le vacanze estive, tra schizzi di mare, palette di plastica e gli sguardi muti di Aldo.
Una nube svelta attraversa il cielo e oscura il raggio di sole che illuminava lo studio. Dalia guarda la macchina da scrivere, imponente in mezzo al centrino inamidato.
Ne sfiora le levette. Sono fredde. “Stupida” dice a se stessa con amarezza, “chi pensavi le avesse usate?”
Intanto, su uno dei tanti faldoni sulla libreria, quello verde con fuori scritto “contabilità generale” è racchiuso il cuore di Aldo. Lì era sicuro che Dalia non sarebbe mai arrivata. Lei detesta leggere, non si porta appresso nemmeno la lista della spesa al supermercato.
Lì dentro c’erano il profumo di mora selvatica che Aldo avrebbe voluto regalare a Susanna. Le stelle cadenti del quattordici dicembre, che nessuno conosce, e lui avrebbe mostrato solo a lei. Le passeggiate immaginate su salite di montagna per poterla poi scaldare la sera dentro un plaid ruvido. C’erano sogni in quel faldone. Parole. Immagini e colori sbiaditi dalla sua vita, finiti là a prendere polvere su uno scaffale.
In silenzio lui aveva imparato a riconoscere ogni ruga di Susanna, uno squillo di voce più argentino, la sigaretta di troppo o un nuovo colore di rossetto.
Dalia se ne sta andando, trascina lente le pantofole spelacchiate.
Poi torna indietro. Non l’ha mai fatto. Decide di farlo adesso.
Stira il foglio inserito nel rullo della macchina che esce fuori frusciando. Era lì da quando tre settimane prima quel fatale mal di testa aveva strappato Aldo al mondo. Mette gli occhiali per la lettura, che tiene appesi al collo con un cordoncino e legge:
“mi mancheranno la luce dei tuoi capelli, il verde dei tuoi occhi e la tua voce squillante.”
Dalia tira su con il naso. “Lo sapevo”, pensa “che Aldo era romantico dentro il suo petto asciutto”.
“La voce squillante deve essere stato l’amore a fargliela sentire, povero caro” sussurra tra sé e un piccolo sorriso nel pianto, le deforma il viso in una smorfia. “Io l’ho sempre avuta nasale”.
Tutta una vita giocata sull’equivoco! Per fortuna Dalia non se ne rende conto … Lasciamole la sua illusione, ora che è vecchia e vive di ricordi. Dalia: una persona comune, scialba, narrata con voce piatta. Invece, il cambio repentino di tono quando irrompe Susanna, un parentesi che illumina il racconto, che poi di nuovo si spenge quando con passo lento Dalia riprende la scena. Ecco ciò che mi piace: la dicotomia nella narrazione, difficile da attuarsi in così poche righe.