Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Racconti nella Rete 2009 “Spinalonga” di Cristiano Caracci

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2009

“Chi è là?”, urlò al buio spingendo avanti la picca con cui veniva armato all’inizio del turno di guardia; quel giorno, quella notte anzi, gli era toccato il peggiore, l’ultimo, il turno per lui più duro; a quelle ore, infatti, non si incontrava mai nessuno della fortezza, in quell’ultimo baluardo di suolo veneziano e così, nel profondo silenzio che precede il giorno, gli pareva sempre di doversi attendere qualcosa; allora scrutava, aguzzando la vista stringendo le palpebre, scrutava la costa di fronte a cercare un lume, una fiammella, un segno di allarme temendo ogni notte di scoprire, nell’orizzonte dell’aurora, mille giannizzeri pronti, le barche in acqua, preparati a scagliarsi contro la loro isoletta e spazzare in un ultimo assalto il piccolo presidio dove nessun cristiano, certo, sarebbe sopravvissuto.

Era troppo giovane per avere partecipato alla guerra tremenda, anni di sangue, speranze e città cadute l’una dopo l’altra, fino al disastro ultimo; non aveva combattuto, dunque, la peggiore delle guerre ma, nelle lunghe giornate di quella vita assediata aveva ascoltato i racconti di tutti i veterani comandati laggiù per badare loro, ai più giovani sconosciuti alla battaglia, ignoranti di sangue e della peggiore ferocia.

Insomma, ormai sapeva bene dell’eroica resistenza, della difesa quasi palmo a palmo del veneto dominio, della disperata sconfitta e la fuga con le ultime navi; così, quando accadeva di terminare il pauroso ultimo turno, la mattina volentieri, ritirandosi, guardava i compagni alzare una volta in più sul pennone della piazza e alla poppa dell’unica nave, il loro magnifico stendardo, provocazione per i Turchi, sicura protezione marciana almeno delle anime fedeli.

Mai, invero, aveva compreso il senso di quell’accordo per cui l’enorme isola di Candia era fatta islamica, mentre quella manciata di terra, di sassi anzi, rimaneva ai vinti che trascorrevano il tempo a Spinalonga asserragliati, senza potere mai raggiungere la costa, impegnati a costruire, con le pietre lì intorno e le poche altre sbarcate in estate, caricate a Venezia, in Istria o magari a Brazza, costruire fortificazioni che non avrebbero retto pochi colpi di una batteria turca.

Ma certo un motivo di quell’inutile fatica e sofferenza, i saggi, lassù in laguna, dovevano averlo visto, non stava a lui, povero fantaccino, giudicare; a lui bastava contare a ritroso per la fine del servizio quando la nave se lo sarebbe portato via da quell’isola maledetta per sbarcarlo a Ossero, dove era la sua patria e la cara famiglia, dove avrebbe finalmente ricominciato a lavorare nei campi e a pescare nel quieto mare di casa.

 

Dunque, “chi è là”, urlò al buio, armando la picca; l’altro rideva, un passo avanti a farsi trafiggere, parte a parte, dalla punta acuminata; rideva e quasi sbeffeggiandolo gli ricordava di come, effettivamente, tutti loro fossero assai numerosi ma, infine, sempre gli stessi, parvenza di uomini antichi e moderni.

“E tanto più in questa tenebra di notte di luna nuova, meglio ancora avresti dovuto riconoscermi; e pure io ti vedo brillare al buio come, una volta, ti avrei visto in pieno sole, a mezzodì, quando perfino le ombre ricordo scomparire”; e sorrise quando parlò delle ombre. “E cosa e come avrei dovuto rispondere al tuo avviso “chi è là?” quando neppure il fantasma di un turco, se avesse voluto raggiungerci, nulla di male avrebbe portato, né alla tua guarnigione né al nostro ospedale”.

”Gli ordini” balbettò il giovane ritirandogli la picca fuori dal ventre; e che mai ci si poteva fidare della parola del turco, neppure dei sigilli del Sultano, infedeli e traditori, odiosi di Marco erano sempre stati, “gli ordini, il dovere, il sacrificio, l’onore”.

 

Invece l’altro, assai più vecchio ma appartenuto a un tempo assai più giovane, ricordava con grande strazio il giorno in cui era sbarcato su quella parvenza di isola; e subito perse il gusto di quella pur innocente canzonatura rivolta al giovane antico; appartenevano veramente a età tra loro estranee, tuttavia riconosceva le illusioni giovanili e l’inutile generoso slancio di cui la vita, infine, avrebbe profittato senza riguardi; fortunato, pensava, era stato quel giovane al quale non erano stati presentati falsi bilanci.

Per quello che lo riguardava, sempre ripensava come, nei primi mesi avesse ricevuto i pacchi con regolarità; sicuramente i genitori con la sorella andavano a visitarlo ogni volta fosse stato loro possibile; veniva avvertito dall’infermiere e saliva, emozionato e dolente, i gradoni di pietra del bastione veneziano, da lassù intuiva lontani i volti dei suoi cari e si salutavano con la mano, agitando le braccia, lanciandosi baci.

Corrispondeva con loro, li informava del suo male, bagnava la carta e, spesso, gli pareva come di riconoscere le lacrime di risposta; era, comunque, una corrispondenza strana, mai tempestiva perché le lettere in partenza rimanevano in quarantena, prima di venire evase, mentre quelle in arrivo seguivano il normale recapito e, magari, rispondeva a qualche risposta.

I pacchi le visite le lettere, così gli era parso, si erano fatti più frequenti, numerose e angosciate quando decise di fare loro sapere come la malattia procedesse inesorabile e che presto, seppure il più tardi possibile, si sarebbe dovuto dare inizio alle amputazioni; al loro ultimo incontro li aveva salutati agitando il moncherino fasciato e da allora più nulla.

Aveva quindi cominciato, “finchè ho gambe” pensò, una minuta esplorazione dell’isola, illudendosi di scoprire ogni giorno qualcosa di nuovo.

La stranezza di quel modernissimo lebbrosario stava infatti nell’essere edificato entro il perimetro di un’antica fortezza veneziana, debole baluardo cristiano, un braccio di mare al largo dell’ultima conquista turca; camerate salette camminamenti, seppure cadenti erano ben riconoscibili e le camerate , gli ambulatori, un cinematografo perfino, si alternavano a quelle antiche costruzioni e si poteva fingere, sbagliando l’ingresso, di non risiedere in un luogo maledetto di fantasmi viventi incapaci di tenere insieme mani e braccia, piedi e gambe; a pezzi, si moriva a pezzi; meglio, assai meglio sognare le lotte vecchie di due secoli e di cui il piccolo camposanto veneziano era testimonianza.

 

Il soldato veneto, piegò la testa perché aveva ascoltato i pensieri dell’altro e finalmente comprendendo la tragedia di lui, immaginando quella di tutti gli altri moderni lì ricoverati simili a lui, guardando il piccolo cimitero dei suoi compagni morti su quell’isola assedia, ricordò ogni cosa di sé stesso; di come fosse stato giovane e inesperto, fiducioso nel prossimo, spavaldo quanto basta, che mai un turco avrebbe rotto la tregua con la Serenissima, ed era impossibile colpire da terra sugli spalti con un tiro tanto preciso; poche ronde notturne e spaventevoli gli erano toccate allora, mentre il giorno pieno e assolato, il riposo quieto dopo il servizio lo avevano rovinato e nessuno, poi, aveva neppure pensato a coprirlo della lieve terra di Ossero.

 

Anche il compagno moderno, ormai, si era permesso di ascoltare i pensieri del giovane ma quello, dopo tutto, greco in Grecia, neppure aveva conosciuto il problema della terra; l’edificio più grande, discosto dal resto degli impianti, dalle stanze tristi, tragiche e antiche, provvedeva a che nulla rimanesse del malato, né gli arti perduti in vita, né il rimanente del corpo perduto in morte.

“L’ora è tarda”, disse il soldato; “ogni ora è tarda”, gli rispose l’altro “e anche prima lo sono sempre state”

 

         

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7 commenti »

  1. L’atmosfera del racconto in bilico tra passato e “presente” sembra comunque svolgersi sotto i nostri occhi per la vivezza della prosa e i richiami a realtà comuni anche quelle odierne.
    Scorrevole e nello stesso tempo capace di farci riflettere.

  2. La narrativa storica è, ormai una rarità e credo che a molti lettori faccia piacere ritrovarla.
    J.S.

  3. Il giovane ed il vecchio mi sembrano davvero vivi, forse perchè non sono mai morti, e credo che se vai a Spinalonga li puoi incontrare, ma solo pochi sono in grado di riconoscerli: e Caracci è uno dei pochi

  4. il giovane ed il vecchio
    il passato ed il presente
    il giovane
    la veglia, la paura, la solitudine ed il ripianto di non aver vissuto un passato glorioso, la speranza nel futuro
    il vecchio
    il ricordo di lontano affetti, l’ abbandono e la conscienza che tutto ormai non può che finire
    l’ ora è quella che precede l’ alba dove tutto ciò che circonda sembra essere ciò che si vuol vedere ma che lentamente si ridimensione e ritorna reale con l’ avanzare della luce
    Bello ed incisivo

  5. il giovano e il vecchio, seppure così diversi, sono uniti nella lotta per la sopravvivenza contro l’ignoto che si fa sempre più stanca e carica di rassegnazione.

  6. Un efficace e vivido fotogramma di due “non esistenze” in un tempo remoto.

  7. Affascinante ed insolita l’ambientazione, che denota una profonda consoscenza dei luoghi e della storia; ben descritta la contrapposizione tra giovane e vecchio, veramente un bel racconto

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