Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Racconti nella Rete 2009 “Solimano” di Cristiano Caracci

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2009

Caro Sinan, l’esercito non ha ancora ultimato l’allestimento del campo e già desidero scriverti mentre intorno a me guardo svolgersi gli usuali preparativi per assediare questa piccola, maledetta città di Ungheria; assisto al dispiegamento della nostra potente artiglieria, con i cannoni più pesanti sistemati su robusti terrapieni cui i genieri hanno provveduto in fretta; guardo l’avanzare lento e pauroso dei giannizzeri che vanno disponendosi accanto ai pezzi, pronti a precipitarsi nelle brecce al crollo delle mura, avidi di saccheggio; già la cavalleria è schierata, in ordine, per respingere ogni tentativo di incursione; scorgo le teste dei resistenti al rivellino e, più indietro, comparirne altre tra la merlatura dei bastioni: teste che presto il comandante dei giannizzeri mi presenterà raccolte e sanguinanti nelle ceste di vimini; i soldati delle nostre retrovie stanno alzando un mare di tende bianche, alloggi notturni e riparo dalle piogge che qui cadono anche d’estate; i cuochi accendono gli enormi bracieri e macellano le prime bestie per la fame del grande esercito.

Da molti anni non presiedevo a un simile rituale di guerra, sembra ieri l’ultima volta, ma il calendario parla di nove anni; allora fu uno scontro duro, ai confini orientali, una vera campagna che ben si poteva chiamare “augusta”, con sacrificio per i soldati i quali si adattavano ai pericoli fidando in me, sempre loro accanto a sopportare rischi e privazioni. Qui, oggi, comandanti inetti e imbelli pascià hanno richiesto un esercito a Istanbul e la mia augusta presenza sul campo dove pochi anni fa i vecchi generali avrebbero saputo ridurre a ragione questi piccoli, meschini, litigiosi principi ungheresi con le sole forze dei presidi locali, senza neppure darne notizia alla Porta. Comunque sono qui, settantenne, al servizio dell’Impero, primo degli schiavi, a comandare quest’ultima battaglia; la truppa è entusiasta, mi benedice, mi invoca quando, ancora a cavallo, attraverso gli accampamenti.

Ma ricordo commosso il mezzogiorno di quel lontano Ramadan, quando fui costretto a sedermi a tavola davanti alla mia tenda, anche allora sulla cima di un colle, perchè tutti i fedeli mi potessero vedere mangiare e tutti fossero sicuri come il Libro consenta di interrompere il digiuno ai combattenti della gihad; e soltanto dieci anni sono trascorsi da quando quei giannizzeri volevano battersi senza mangiare e senza bere! Ormai vecchio, sono qui e con strazio ho lasciato, credo per l’ultima volta, la mia amata città, che tu hai fatto ancora più bella, ho lasciato la famiglia e la mia casa da dove, finalmente con l’aiuto di un vero Gran Visir, potevo dedicarmi alla pace e alle sue opere, alle leggi, alle strade dell’Impero, all’organizzazione del governo anche nei territori più lontani; in pace ricevevo gli ambasciatori e gli artisti dalla Francia e dall’Italia e mi incontravo con te, stimato architetto, per continuare, questa conversazione che, come Dio ha voluto, dura da quaranta anni. Comunque sono qui e presto le deboli mura quegli spalti adatti a difendere la città dai ladri le ridicole fortificazioni, cadranno sbriciolate dall’artiglieria distruttrice delle fortezze di Belgrado e Rodi, l’invincibile artiglieria ottomana sfidata da questi meschini senza senso e senza motivo, esponendo gli inermi al massacro.

Ormai, caro amico, conosciamo reciprocamente i pensieri dell’altro; quando leggerai, la tua mente andrà dove adesso, mentre scrivo, è la mia; a quel giorno lontano quando ti ho fatto cercare tra gli ingegneri giannizzeri sparsi per tutta la Rumelia, mentre l’esercito rientrava reduce dalla grande campagna che ci diede terre sterminate. Rientravamo vittoriosi, benché il sacrificio fosse stato grande, ma enormi erano la gloria, i territori e il bottino dei soldati; rientravamo a Istanbul con tappe brevi, in un’atmosfera di festa: giannizzeri suonavano ballando, compiacendosi l’un l’altro, l’allegria era di tutti e l’enorme esercito partecipava con gratitudine alle preghiere perché ciascuno sentiva su di noi la protezione di Dio insieme alla Sua volontà di condurci alla vittoria per l’Islam. Anche tra i pascià e i visir del seguito si respirava aria di soddisfazione e i più sfacciati mi lodavano magari con parole scherzose, quasi a voler cogliere quell’occasione felice per vincere la mia nota, naturale austerità e apparente indifferenza ai successi come alle contrarietà; ben volentieri lasciavo fare, consentendo addirittura che ridessero in mia presenza, poiché  anch’io, niente affatto indifferente, ero felice e condividevo i sentimenti del mio esercito. Allora, in quello stato d’animo, nell’allegro fracasso dei tamburi, avvicinandoci a un fiume, apparve il ponte.

Come ricordo bene quel ponte di un’unica arcata, altissimo sull’acqua, dalla carreggiata di bassi gradoni a non ostacolare i carri ma a facilitare, d’inverno, il cammino sul bagnato e sul ghiaccio; contro i programmi di marcia disposi a pernottare vicino quel ponte che continuai a guardare fino allo stagliarsi contro il sole al tramonto; quel ponte volli illuminato la notte da molte fiaccole, poi rivisto all’alba col sole alle spalle! Allora, architetto, decisi di farti cercare, informarmi su quel lavoro e perfino ordinai di punire per negligenza chi, per primo, mi riferì del tempo occorso alla sua realizzazione; le persone del paese, tuttavia, confermarono anche la pochezza dei mezzi, il piccolo numero degli uomini impiegati, il fatto che nessun incidente si fosse verificato e tutto sempre più sollecitava il mio interesse a incontrare quel costruttore di genio. Quando finalmente ti accompagnarono a palazzo, il mio carissimo Ibrahim era già Gran Visir e ti ricevemmo insieme; tacevi, aspettando di essere interrogato, mentre noi conoscevamo un uomo robusto, poco più anziano di me, a capo chino sotto il turbante giannizzero; poi si cominciò a parlare e per giorni, tra un impegno e l’altro, a tavola e nei giardini privati, noi tre parlammo, quasi tra amici, dell’Impero e di Santa Sofia; di come noi intendessimo essere unici e veri eredi del grande Giustiniano; come lui avremmo codificato la legge degli uomini; avremmo costruito moschee più belle e più grandi di Santa Sofia, dove la cupola fosse il cielo dei credenti.

Passarono anni prima che il mio firmano ti nominasse, come già avresti meritato, capo degli architetti di corte; ma furono anni, lo sai bene, di guerre continue, di mie lunghissime assenze dalla città, finché fummo toccati dalle prime sconfitte. Conosci e, forse, apprezzi la prudenza e la lentezza del palazzo, la tendenza a rinviare il superfluo per agire con energia nelle questioni militari; ricordi come anche dopo la tua nomina, ti furono commissionati lavori di minor conto, quasi per metterti alla prova; ma quando, in pochi giorni, la malattia si prese il più amato, il migliore dei figli, chiesi a te la sua tomba e una grande moschea in ricordo del prediletto Mehmet. Mi consolasti con un’opera splendida dove ancora mi reco a pregare e a cercare conforto per quella ferita mai sanata e per tutti i dolori della mia lunga vita di solitudine. Dopo quella costruzione, nessuno, poteva disconoscere i tuoi meriti e la tua arte; così non fu difficile far accettare al diwan l’enorme spesa per erigere, sul colle più alto di Istanbul, la grande moschea che, a mio nome, dedicavo a Dio, cominciandone i lavori nel trentesimo anno di regno.

E se la guardo da lontano, o passeggio nel giardino, o vi entro, quasi intimidito, a pregare, ancora mi chiedo come si è fatto a ultimare tutto quell’enorme complesso di pietra soltanto in sette anni; ma erano ancora anni magici e benedetti. Caro Sinan, se ti domandassi il motivo di questa lunga lettera, piena di confidenza e di ricordi comuni, lo capiresti dalla nuova opera che intendo commissionarti. Questa spedizione è stata faticosa per un settantenne da sempre di scarsa salute; la convinzione, ti dicevo, della inutile banalità della campagna e così la sensazione di come i nostri capi militari e l’Impero stesso non siano più quelli del tempo di Ibrahim, mi hanno condotto a una condizione di invincibile prostrazione. Tu sai, caro Sinan, che i doveri del governo sono per me come per te l’architettura; ho dedicato la mia esistenza all’Impero, trascurando ogni affetto; la mia vita è stata un’unica guerra cui tutto ho sacrificato, costretto perfino a uccidere due dei miei figli e lasciando giustiziare il più leale dei ministri; ora sono stanco, spesso ho la febbre e riconosco la preoccupazione dei medici. Voglio da te, caro Sinan, il mio monumento funebre, ma lo voglio modesto, come la mia vita non ha potuto essere. Lo edificherai a tua discrezione nell’area della mia grande moschea, non lontana da quella di mio figlio. Darò le disposizioni necessarie. Per ciò, caro Sinan, ti ho scritto della nostra vita comune che, credo, si debba concludere e perchè tu possa un poco proseguirla.

 

Al Gran Visir a Istanbul. Eccellenza Sokollu, le confermo come il nostro esercito al mio comando ha cinto di assedio la città di Szigetvar. Prevedo operazioni brevi con bombardamento di artiglieria pesante e facile successo; ritengo di sottoporre la città ribelle a tre giorni di saccheggio, per monito alle altre fortezze ungheresi. Vorrà disporre dure sanzioni contro quei pascià qui residenti i quali ci hanno erroneamente rappresentato la necessità dell’intervento di un intero esercito da Istanbul per sedare una così modesta rivolta. Sappia che ho dato disposizioni all’architetto di palazzo perchè provveda al mio monumento funebre; egli lo farà sollecitamente in obbedienza a quanto da me disposto, ma sempre nella più completa sua libertà di progetto. Nel caso mancassi di rientrare a Istanbul, l’Eccellenza Vostra provvederà, nel modo già convenuto, a garanzia della pacifica continuità del governo. Ricorderà, tra l’altro, a mio figlio Selim, come io l’abbia impegnato a confermare l’Eccellenza Vostra nella suprema carica di Gran Visir. Sia lode a Dio e al Suo Profeta.

 

Il Gran Visir dell’Impero di Osman a Selim. Principe dei credenti, benché la nostra anima sia affranta e la mente sconvolta, le necessità del governo ci impongono di agire. Come da disposizioni ricevute dal grande scomparso, la sua morte dovrà essere tenuta segreta fino a quando Voi non avrete raggiunto l’esercito. Partirete immediatamente per la città ungherese di Szigetvar (sia maledetta) con buona scorta di cavalleria; sarete dotato dal tesoro di un’adeguata quantità d’oro che distribuirete subito ai giannizzeri là presenti. Da parte mia, rimarrò a Istanbul per garantire, come era desiderio del grande Sovrano, una pacifica successione e preparare la cerimonia di incoronazione. L’architetto Sinan è stato avvertito. Sokollu.

            

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3 commenti »

  1. Una vicenda che, come altre dello stesso autore, ci fa vivere nello stesso tempo vissuto dai protagonisti.
    Notevole l’ immedesimazione nello spirito di una civiltà così distante dalla nostra,ma che sotto alcuni aspetti è universale.

  2. Pregevole l’abilità dell’autore nel trasportare il lettore con un balzo indietro al tempo della narrazione facendo assaporare per un attimo atmosfere e colori di civiltà ormai lontane.

  3. Il racconto in forma epistolare traccia il rapporto umano tra persone che si rispettano ed è questo che più mi ha colpito : come sarebbe bello un mondo basato sul rispetto reciproco, naturalmente tra persone che lo meritano, indipendentemente dagli squallidi interessi economici che reggono i rapporti tra i potenti dei nostri giorni, mascherati da motivazioni religiose che poi così distanti non sono nel loro concetto essenziale.
    Bello. Fa pensare

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