Premio Racconti nella Rete 2013 “La mente viaggia più del corpo” di Marcello Donofrio
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2013Pioviccicava appena quella mattina. Era una tarda mattinata, il cielo era chiaro e alcune signorine eleganti passeggiavano per le strade. Avrei voluto fermarne una, poi tenerci a braccetto e passeggiare insieme ma non ero abbastanza elegante per loro e non conoscevo le loro maniere di vivere le giornate fra i ricevimenti, il rossetto e le Rolls-Royce. Avevo sottobraccio l’ennesimo manoscritto respinto da un giornale, possibile che il mondo era così insensibile alle mie fatiche da letterato? Mi sedetti sul marciapiede e osservai a lungo i rigagnoli di pioggia che scorrevano ai lati della strada e confluivano nei tombini neri gocciando nel regno incontrastato di topi e mozziconi di sigarette. Mi tornò a mente un mio verso:
“Vorrei esplodere/poi colare giù da una scalinata
e gocciolare da ogni gradino/quindi tingere della mia essenza purpurea
la superficie altrimenti bianca e candida/austera e sterile.”
Di scalinate e gradini qui non ce ne erano, ma mi sarei lasciato volentieri colare nei tombini se fossi stato di una qualche sostanza alternativa a questo corpo che finora non mi aveva ripagato degli sforzi della mente, a queste dita che scrivevano versi buoni per accendere il camino, a questa lingua ignorata.
In quel momento il telefono nella cabina alle mie spalle trillò violentemente.
Mi alzai e mi guardai intorno in cerca di possibili destinatari di quella chiamata, ma il mondo sembrava essere totalmente avulso da quell’evento:
le belle signorine continuavano a passeggiare, la pioggia leggera a scendere e la città tutta a fare bella mostra di se nella sua tipica serialità.
Forse la chiamata era per me.
Entrai nella cabina rossa e alzai la cornetta.
“Si?” Chiesi.
“No!” Fu la risposta.
“Chi parla?” Chiesi ancora.
“Io e te. Siamo due.” La cosa si faceva strana.
“Sta cercando qualcuno?” Cercai di mantenere la conversazione su base logica, ma la risposta mi spiazzò ancora:
“No affatto! Lei invece cerca qualcuno?”
“SI!” Risposi istintivamente. Avevo centinai di motivi per rispondere si a quella domanda. Cercavo qualcuno in grado di apprezzare quello che scrivevo, cercavo una signorina che mi tenesse il braccio durante le passeggiate, cercavo molte altre cose!
“Poteva rispondere affermativamente da subito allora! Quel “si” interrogativo non mi diceva nulla!”
“Mi scusi…” Aveva ragione. L’illogicità l’avevo portata io con le mie domande.
“Può rimediare, esca e prenda la strada di sinistra! Buona giornata!”
Riattaccò e mi lasciò un poco sovrappensiero sull’accaduto. Misi giù il telefono ed uscii.
Immediatamente fuori la porta della cabina telefonica c’erano due strade, in quella di sinistra passeggiavano con noncuranza conigli – uno di loro si levò il cilindro per salutarmi – l’altra invece, in salita, era pavimentata di mattoni rossi fra le cui scanalature colavano rigagnoli di una strana gelatina blu, inoltre emanava un forte sentore di inchiostro.
Mi piaceva l’odore dell’inchiostro ma il mio corpo si era già piegato in un inchino riverente per rispondere al saluto del coniglio. Era un bellissimo coniglio bianco, pelo morbido e liscio, cilindro lucido, bastone da passeggio in ebano e ci scommetto che nel taschino del panciotto portava un orologio luccicante. Inutile chiedersi quale fosse stata la mia ultima lettura.
Mi fece cenno di raggiungerlo, ma gli chiesi di pazientare un poco, volevo assolutamente scoprire di cosa si trattava quella gelatina blu che nel frattempo era colata quasi fino ai miei piedi nonostante la pendenza in salita della strada. Mi inginocchiai e infilai indice e medio fra il mattonato e raccolsi un po’ di quella gelatina. Era fredda e scivolava via dalle dita senza lasciarle bagnate, ma solo fredde e pallide; la portai alla bocca, non c’era bisogno di masticare e ingoiai quasi subito. Aveva comunque un sapore che avrei definito a metà fra l’inchiostro e la crema di more, mi si intorpidì un poco la lingua e, cacciandola fuori in tutta la sua lunghezza, mi accorsi che si era fatta anche quella appena bianca. Anemica.
Nel frattempo si erano voltati a guardarmi tutti i personaggi di quel posto, non me ne curai più di tanto e soddisfatto presi la via di sinistra.
Il coniglio si era spazientito per il mio contrattempo ma questo mi giovò il fatto di confermare che effettivamente nel taschino del panciotto aveva un orologio, perché adesso controllava con fare nervoso lo scorrere dei secondi nel piccolo e lucente segnatempo.
“Ad essere gentili ci si rimette sempre! In ogni caso!”
Mi disse appena lo raggiunsi.
“Mi sc…..”
Tentai di rispondere ma mi accorsi solo allora di un fatto strano. La lingua si era allungata a dismisura nella bocca ed occupava quasi tutto lo spazio non riuscendo ad articolare nessuna parola. Mi sforzai a parlare ma il risultato fu una sorta di piccola esplosione di bava, una pernacchia e la lingua che si srotolava fuori dalle labbra per circa sei o sette centimetri oltre il consentito.
“Ah! E ad essere troppo curiosi ci si rimette sempre!”
Fu il commento del coniglio alla mia lingua.
“Che impertinente! Pensai. Subito dopo pensai che era un sollievo poter pensare ancora e non mi curai della lingua che continuava a crescere ancora qualche centimetro. Ci incamminammo.
“Vedi? Questi ponti e queste ruote panoramiche? Le ho fatte costruire io!”
Il coniglio indicava con ampi movimenti delle braccia la visuale intorno a noi che però non era provvista di ponti né di ruote panoramiche. Era una piccola via tortuosa fiancheggiata da casette con balconcini, tutte pressoché uguali. Ogni tanto fra quelle villette uguali si incastrava con prepotenza una fontanella zampillante o una piccola piazzetta, ma veniva quasi subito scalzata dalla pressione che si veniva a creare.
Altri conigli vestiti proprio come il mio passeggiavano per quella stradina. Quando passammo di fianco alla terza piazzetta la lingua mi arrivava alla cintura.
“Vedi questo parco? Questo ampio spazio verde? E’ opera mia!”
Il coniglio continuava a vantarsi delle sue opere edili che sfortunatamente non riuscivo a notare; vedevo solo casette uguali con balconcini o fontane scalzate. Camminammo ancora per dieci minuti e il coniglio mi illustrò nell’ordine: un frutteto a scalinate, un faro (non mi indicò però bacini d’acqua), un parco divertimenti ed un cimitero per i caduti ai giochi più pericolosi del parco divertimenti. Di tutto questo non vidi nulla, solo una torre alla fine della stradina tortuosa che tentai di associare ad un faro, ma subito un omino si sporse da una finestra all’ultimo piano e ribadì a gran voce:
“Non è un faro, è una torretta!”
Tentai di scusarmi, ma mi tornò alla mente la lingua che ora era decisamente troppo lunga. Ne feci un nodo per evitare di inciamparci con i piedi. Mentre l’annodavo vidi che anche le due dita con le quali avevo toccato la gelatina erano lunghe almeno il doppio delle altre.
“Dovresti far qualcosa. Non puoi certo aspettare che crescano ancora.”
Osservò il coniglio guardandomi preoccupato le dita e la lingua.
“Se solo fossi esperto del campo farei qualcosa io, ma come ti ho detto opero nel campo dell’edilizia. Pensa fra tre o quattro mesi come potresti ritrovarti: la lingua ti peserebbe tanto da dover portare uno zainetto sulla pancia, e le dita andrebbero a finir negli occhi di tutti ad ogni movimento!”
Preoccupato e turbato abbassai gli occhi per guardare le mie aberrazioni, poi tornai a guardarlo con aria supplichevole.
“Vieni, conosco un tale che fa per te.”
Mi condusse in una bottega che si era appena infilata fra due villini.
Strano – pensai, di solito erano fontane o piazzette ad essere così invadenti.
Il coniglio mi intimò di non perdere tempo perché quella bottega poteva essere sbalzata fuori da un momento all’altro. Spinse la porta che cigolò mostruosamente e, quando fu aperta per metà, il cardine superiore cedette e quella si inclinò sul lato urtando il vaso per gli ombrelli che si fracassò a terra.
“Biagio! Biagio! Vieni fuori.” Chiamò il coniglio.
Dal canto mio non potendo parlare me ne stavo in silenzio, aspettando Biagio, ed ispezionando la bottega. Era di un legno vecchio e scadente, dal soffitto pendevano numerosi lampadari sulle cui braccia erano legati per la coda svariati topolini che si agitavano furiosamente. Causa questo movimento i lampadari oscillavano e, come notai dal pavimento cosparso di frammenti di vetro, qualcuno ogni tanto cadeva. Qualche topino che non era riuscito a slegare la coda dai lampadari caduti a terra era ancora li che tentava di correre come un forsennato restando però nello stesso posto, grattando con le unghiette le tavole di legno del pavimento. Alcuni invece si erano rosicchiati la coda pur di fuggire, e quelle cordicelle rosee erano ancora annodate, penzolavano inerti senza più il corpo attaccato.
“Biagio! Amico mio!” Il coniglio si animò e sorrise. Io non vidi proprio nessuno.
“Puoi essere d’aiuto a questo mio curioso e sfortunato amico?” Chiese cordialmente parlando al vuoto davanti a se.
In quel momento un lampadario finì a terra con uno schianto, ne il coniglio ne Biagio sembrarono curarsi di quel fatto.
“All’incudine? Ma certo!” Rispose il coniglio. Poi mi prese per la mano, la sinistra, e mi condusse in un angolo della bottega dove c’era un incudine.
“Ecco poggia qui la tua lingua, Biagio farà in un attimo. Poi anche le dita.”
Ormai rassegnato poggiai la lingua ed il nodo annesso sull’incudine, poi anche le dita. Immaginai in quel momento Biagio sollevare una mannaia e calarla a tutta forza sull’incudine recidendo lingua e dita.
ZAM!
Il nodo di lingua rotolò a terra, tagliata perfettamente alla misura ideale o forse un poco più lunga ma non mi dispiaceva. Pensai che ora dopo aver bevuto una cioccolata calda potevo leccare bene il fondo della tazza senza problemi. Con lo stesso gesto aveva amputato anche le due dita allungate.
Probabilmente il colpo di frusta della mannaia di Biagio lo aveva scaraventato alla parete, perché il coniglio era chino al pavimento poco più in la dell’incudine nell’atto di soccorrere qualcuno.
Gettai ancora uno sguardo alla lingua senza vita a terra e alle dita come due bacchette spezzate e a malincuore le lasciai li nella bottega di Biagio; forse i topini si sarebbero cibati di esse una volta liberi.
“Presto dobbiamo uscire, Biagio dice che la pressione si sta facendo alta. La bottega sarà presto sbalzata via, dobbiamo andare.”
Proprio mentre uscivamo i vetri di due finestre esplosero.
“Salta!” Mi gridò il coniglio.
Senza il peso della lingua mi sentivo molto più leggero e spiccai un gran salto, comunque inferiore a quello del coniglio che disponeva di due cosciotti da corridore e nel balzo mi superò in altezza e lunghezza. Fummo comunque tutti e due fuori dalla bottega proprio mentre questa veniva spremuta dalle villette e sparata con inaudita forza in aria. Una pioggia di frammenti di vetro, ceramica e topi senza coda cadde sulla stradina.
Mi alzai, il coniglio stava rassettandosi il panciotto e aveva raccolto il cilindro che era planato a qualche metro di distanza. Provai ad articolare qualche parola per saggiare la lingua:
“Me ne infischio se nevischia se c’e nebbia o il vento fischia perché il tempo se ne infischia pure lui di me.” Avevo recuperato appieno le mie facoltà dialettiche e anzi parlavo anche più svelto ora.
“Un gran bel lavoro non trovi?” Mi chiese il coniglio spolverando la falda del cilindro. Riprese:
“Biagio è un professionista quando si tratta di…..imprevisti simili” Alluse alla mia lingua allungando il bastone da passeggio fino a sfiorarmi il volto.
“Si senz’altro!” Non sapevo cosa altro dire. Dopotutto non mi era mai capitato di essermi fatto amputare una lingua eccessivamente lunga da un tizio invisibile che viveva in una bottega saltante su consiglio di un coniglio aristocratico.
“Incamminiamoci, manca poco ormai.”
Riprendemmo il cammino lasciandoci alle spalle quel breve episodio, diretti verso la fine della stradina dove si scorgeva quella stessa torre che poco prima avevo pensato fosse un faro.
Strano, pensai, sembrava più vicina tanto che qualcuno mi aveva anche parlato da lassù. Avevo la strana impressione che si fosse sposata di qualche centinaio di metri, nel mentre che la mia lingua veniva tagliata da Biagio.
“Se posso chiedere, dove siamo diretti?” Temevo di essere stato fuori luogo facendo questa domanda al coniglio, così come mi ero dimostrato nella cabina telefonica domandando al misterioso interlocutore. Possibile che non mi fosse lecito chiedere? La risposta arrivò puntuale e pungente.
“In realtà non potrebbe chiedere. O meglio, lo fa di continuo e come le avevo precedentemente spiegato per telefono questo non le giova affatto!”
Sgomento.
“Era lei al telefono?” Chiesi fermandomi di colpo.
“Quale telefono?” Si fermò anche lui, si pulì le lenti tonde degli occhiali e ispezionò la zona come colto da un dubbio.
“Non ricordavo di aver fatto costruire telefoni qui. No affatto non ce ne sono.”
Mi disse seccato. Deluso ripresi a camminare con la testa china, quasi speravo che ci fosse un telefono li. Non seppi dire il perché, ma forse se ci fosse stato il coniglio avrebbe ammesso di avermi chiamato.
Camminammo ancora e la torre sembrava spostarsi di un metro ad ogni passo, in dieci minuti non ci avvicinammo nemmeno di una spanna. Era davvero frustrante. Il coniglio sembrava non curarsi di tutto questo e filava sereno e tranquillo verso la sua meta, che era la mia medesima, ma che si rifiutava di confessarmi. Poi di colpo si fermò.
“Ah! Sa, pensandoci bene qui non servirebbe proprio a nulla un telefono, questa strada è così piccola che dicendosi qualcosa, anche da un capo all’altro, ci si capisce benissimo. Infatti siamo già arrivati.”
Alzai la testa da terra e vidi la torre – che fino ad un attimo prima era lontana almeno trecento metri – proprio lì a due passi, e voltandomi potevo vedere addirittura l’altra stradina dai mattoni rossi in salita sulla quale colava quella strada gelatina di more e inchiostro. E, proprio all’imboccatura di entrambe, la cabina telefonica.
“Eccola guardi! E’ li la cabina telefonica!” Esultai verso il coniglio.
“Ma certo, è sempre stata li, c’erano forse dubbi?”
“Ma no affatto! Però questo prova che….” Mi Bloccai.
Come aveva potuto il coniglio telefonarmi se da quella cabina io avevo risposto? A questa domanda mi rispose il coniglio, spiazzandomi totalmente.
“…Esatto! Che mi chiamasti proprio da quella cabina, lo ricordo con fermezza. Ora devo salutarti, ho delle faccende da sbrigare e un mucchio di cosa da scrivere. A presto!”
Si voltò e con quella sua andatura ondeggiante ma nobile tornò sui suoi passi.
Mi concessi un minuto di immobilità per riflettere, ma non servì a nulla perche tutto rimase come era: fontanelle e piazze venivano ancora sbalzate dalle casette che le premevano (in un attimo giurai di vedere anche la bottega di Biagio schizzare in aria) ed altri conigli passeggiavano distintamente alzandosi il cilindro per salutarsi reciprocamente.
Mi avviai verso la fine della stradina fino a che non arrivai ad una grande via costeggiata da un marciapiede. Cominciò a piovere appena, leggermente.
Scintillanti Rolls-Royce passavano lente sullo stradone sul quale si affacciavano villette a schiera dai balconcini uguali. La via era un andirivieni di belle signorine eleganti col rossetto e i capelli tenuti da chignon, alcune portavano un cappellino inclinato dal quale calava una retina nera fin sopra gli occhi.
Mi decisi, ne afferrai una per il braccio dolcemente e camminammo insieme per tutta la mattina, passeggiando davanti le vetrine, sembrava che si colorassero ad ogni nostro passo; fiancheggiando gli alberelli spogli del viale, pareva che si riempissero di frutti quando ci avvicinavamo.
Lei mi teneva con la mano vestita di un sottile guantino di pelle chiara, ed io sorridevo quando incrociavo il suo sguardo fra quei ricami di merletti neri.
Più tardi una lunga Rolls si adagiò sul marciapiede, l’autista ci aprì le portiere posteriori.
“I signori voglio salire?”
Feci entrare la mia signorina, poi entrai anche io.
Marcello D’Onofrio