Racconti nella Rete 2009 “Anzac” di Cristiano Caracci
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2009Forse perché sono nato qui, dove mio padre aveva cercato fortuna, forse perché non ho mai viaggiato, certo perché insegno nella nostra piccola università, comunque nessuno in famiglia, ha mai immaginato mio figlio studente a Oxford.
Altrettanto senza discussione è stata la scelta degli studi, così diversi dai miei e dal mio insegnamento; una scelta serenamente motivata dal grande amore sempre mostrato da mio figlio per gli animali e l’ambiente naturale; insomma, questo autunno sarà della nostra facoltà di zoologia, come ha sempre detto di volere osservando con passione ogni cosa di questa bella, nuova terra sterminata.
Considero, anzi, assai più logica la scelta di lui, legata alle cose che ci stanno intorno, di quella mia, di tanti anni fa, apparsa sicuramente astrusa; ma l’indole umana è segreta per cui alcune immagini su un libro mi avevano spinto a leggere pagine antiche con una passione coltivata dall’insegnante di liceo.
Così, per quanto vivessi la mia adolescenza e la bellezza della natura dominasse, mi trasformai quasi in un fenomeno, studente di archeologia e letteratura classica, compagno di pochi altri, dediti alla biblioteca. Ancora adesso, da professore, io stesso mi sento strano, un originale senza volerlo essere, perché le storie dei greci, dei persiani dei latini ancora mi appassionano, come fossi un ragazzo sorpreso e stupito dalla magia di quei nomi e di quelle lotte; ricordo gli anni belli, in gita con Maria, quando raccontavo al nostro piccolo di correre come a Maratona, le colline laggiù si chiamavano Termopili e quell’isola Salamina; guardasse bene come su quella barca si riconoscesse Temistocle, il sommo stratega; ma, assai più saggio, il piccolo giocava col cane. Sono trascorsi gli anni, abbiamo visto la fine di un secolo, pure se qui, nel luogo più lontano, che sia l’800 o il ‘900 poco cambia nella serena immobilità della pace del nostro mondo dove mancano quasi notizie dall’Europa e neppure interessano. Andati gli anni, sono il professore, ma gli studenti di archeologia e belle lettere rimangono pochi; tuttavia, con orgoglio la nostra facoltà è aperta per quei pochi perché non si dica ignorante la Nuova Zelanda. Mancano, però, i denari per gli studi classici; la madrepatria e la nostra comunità sostengono, a ragione, le scienze, così né io né i miei studenti abbiamo mai potuto visitare il Mediterraneo; e al club, brutta copia, credo, degli originali londinesi, al club, tentando un’improbabile britannica ironia, percepisco un amichevole dileggio per il greco che non ha mai veduto la Grecia; per me, ormai, ho rinunciato a quel sogno, ma sinceramente spero per i ragazzi, così pochi ma appassionati e meritevoli.
Nessuno di noi al sole del mattino, all’impiedi nell’erba del giardino, nessuno capiva cosa significasse quella sigla stampata netta, nera in cima al foglio, ANZAC. Nessuno di noi voleva credere a ciò che, pure chiaramente, era scritto di seguito ad ANZAC; non si voleva credere, ma, ormai, mia moglie piangeva mentre John e io ci guardavamo muti, inebetiti una mano ciascuno a reggere quel pesantissimo, odioso foglio dell’ANZAC. Quando la nave staccò, stipata di soldati, noi ormai soli sul molo, circondati da migliaia di altri come noi, disperati come tutti, eravamo sorpresi dal precipitare della disgrazia. Cupa, lugubre muggiva la sirena della nave, nessuno sentiva la banda suonare sul molo marce patriottiche; soltanto quella sirena entrava nelle orecchie; soltanto il fazzoletto agitato dal suo braccio, non vedevamo bandiere e coccarde; ogni bene quella nave ci portava via.
Tutti in città si leggeva giornali mai letti; giornali di Londra, censurati e vecchi di un mese; notizie dalla radio poche e ciascuno le riferiva al vicino, all’amico, ai genitori dell’amico del figlio, partito con lui; la posta viaggiava con i giornali o più lentamente e ugualmente censurata, mentre i padri di tutto quel mondo impazzito potevano dire alle madri come nessuna nuova fosse buona nuova, ma né i padri né le madri credevano a una simile sciocchezza; tranne che per un telegramma rassicurante all’arrivo, i primi mesi del 1915 trascorsero senza notizie; poi, durante la loro primavera e il nostro autunno, venne atroce, quella che l’ANZAC combatteva, cioè nostro figlio combatteva. Quando, come ogni giorno, il postino consegnò le carte, era come già lo sapessimo; per estrema beffa, un vecchio giornale di Londra, pervenutoci allora, riportava una dichiarazione dell’Ammiragliato,” è difficile immaginare un’operazione che dia più speranza”.
Quattro anni, per quasi quattro anni si uccisero, in Europa, sopra il corpo di nostro figlio, chiamato dalla Nuova Zelanda; a combattere i turchi, si diceva, nemici di Cristo, anche i tedeschi cristiani loro alleati e a sostegno dei nostri alleati russi ortodossi. Quattro anni, non bastarono a curare la nausea, il lutto, l’inutilità della nostra perdita irrimediabile. Tutto finì in Europa e anche da noi, nelle isole agli antipodi, qualcuno festeggiò la vittoria; discorsi, fanfare, bandiere come alla partenza, mentre il cuore era gonfio. Allora, al rettore della mia università domandai di concedermi l’anno sabbatico, mai richiesto da nessuno ma dissi come lo richiedesse i miei studi, da concludere nel mar Egeo; tutti compresero e nessuno si oppose.
Quanto fu lungo e disagiato il viaggio, povero figlio mio, e il nostro: era più agevole raggiungere direttamente Londra, piuttosto di Salonicco. Nelle cabine di ciascuno dei battelli, porto dopo porto, mia moglie piangeva, come il primo giorno, e si assopiva la mattina “un poco più vicina a lui”. Imparammo come i ragazzi dell’ANZAC fossero stati riuniti nell’isola di Lesbo dove navi inglesi attendevano in uno dei grandi golfi. Da lì cominciò la nostra ricerca e per abitudine dissi qualcosa, entrando nel porto di Mitilini, di ciò che, in quell’isola, aveva scritto Saffo e a ragione mia moglie mi guardò, una maschera greca, quasi con odio: “per lui” era quel viaggio. Lavoravano ancora uffici militari inglesi proprio per sostenere i parenti alla ricerca dei caduti; anche i greci ci riconoscevano, suppongo per l’aspetto anglosassone, il dolore scritto sui volti, la lingua; ogni cosa ci rendeva amici, spesso, loro ospiti. L’ordine meticoloso della conta dei caduti, per cui quegli uffici andavano fieri, capaci di seguire il morto dal colpo fatale alla tomba, consentì di sapere in quale isola il nostro John fosse sepolto e in quale dei tanti cimiteri di guerra; scriveva ad alta voce il sergente, qualifica cognome nome divisione battaglione compagnia date alfa e omega, luogo della morte e della sepoltura: Gallipoli e Lemno; di nuovo a Salonicco a imbarcarci per Lemno, altri giorni di navigazione.
Non so descrivere mia moglie in vista del porto di Mirina, non so; per me, tutta la vita avevo sognato Lemno, la più misteriosa, “la ben costruita”; ma, forse, era un’isola maledetta, insidiosa, meta di eserciti. Ormai era inverno, nevicava intenso e neppure entrando nel porto dominato, come sapevo, dalla più grande fortificazione di Grecia, riuscii a distinguere nulla delle opere né bizantine né genovesi né turche coperte dallo spesso manto bianco. La nave attraccava, dunque, nel piccolo porto, la nostra meta; al freddo, abbracciato a sua madre, pensavo al terrore toccato a nostro figlio prima della morte, magari tentando di scalare, sotto il fuoco, una fortificazione altrettanto ripida e insidiosa, mentre suoi amici cadevano, lì accanto, prima di lui. Nevicò la notte intera.
Di prima mattina, un’auto militare ci accompagnò; era spuntato il sole e il cielo si era fatto meno opprimente; il soldato taceva e guidava prudente lungo una traccia di strada, ma spesso fu costretto a fermarsi e spalare; lei stringeva i pochi fiori ritrovati in paese, i primi e gli ultimi da deporre sulla tomba del figlio. Il portone era aperto su un cortile vuoto, tutto innevato; lì, sul portone, fermò l’auto; il manto era intatto a dire, pensai, di come quel sergente che ci si faceva incontro, uscendo da una piccola costruzione, non abbandonasse mai i ragazzi; le sue erano le prime impronte a violare la neve della notte e fui felice indossasse la vecchia divisa dell’ANZAC. Teneva già con se il grande libro dei morti e fu sufficiente dirgli il nome; dopo alcune pagine ci restituì scritti una lettera e un numero; tornò in casa e di nuovo ci venne incontro senza libro ma con un badile, lentamente ci aiutò a seguirlo, sprofondando tutti fino al ginocchio in quella coltre intatta dove egli, distingueva dei pioli poco più alti della superficie. Immergeva la pala, poi la ritraeva e dava piccoli colpi sotto la neve; presto trovò il suono della pietra e cominciò a scavare, rimuovendo mucchi di neve che lanciava lontano; continuò quel lavoro per noi tanto doloroso, slargando tutto intorno alla pietra come lui sapeva; con rispetto, ci sembrò, abbandonato il badile, senza guanti, rimosse un ultimo strato fino a quando apparve il suo nome, il nome che gli avevamo dato e avevamo perduto: scalpellato in rilievo, insieme a una piccola croce e alle date, un piccolo cubo di pietra infisso in terra. Lì sotto pensai, sotto la neve e la terra, era deposta una bara militare, uguale a migliaia d’altre; “molti, tuttavia”, disse a nostro conforto il sergente, “non hanno nome; e sulla pietra vi è spazio perché la famiglia aggiunga una breve frase”; nulla si poteva dire mentre il dolore pareva, finalmente, volerci sopprimere. Guardavo lei, ormai fradicia, in ginocchio nella neve, poggiare i suoi modesti tre fiori, regalo prezioso di qualche casa di Mirina; l’aiuto a rialzarsi, sprofondiamo nella neve, ci solleva il guardiano e gli restituisce il quaderno su cui, tremolante, aveva scritto; “domani sarà pronto”; ci avviamo con fatica. Tornai da solo il giorno dopo; la neve un poco si era disciolta al sole, tuttavia il grande manto bianco dei caduti nascondeva ancora le altre pietre tombali; soltanto intorno la nostra la neve era stata rimossa, per il lavoro promesso. “Mai avremmo immaginato così lontano” era l’iscrizione voluta da lei.
Finiva il mio anno sabbatico di ridicolo professore di lettere classiche in Nuova Zelanda; altri mesi di navigazione per ritrovare la nostra casa vuota, non abbastanza lontana da salvarci dalla follia europea. Rinunciai al lavoro e presto dimenticai gli studi che per una vita avevo amato; confondo i miti, il nome degli dei, dimentico le date; molti degli animali amati da mio figlio e ormai da me, sono ospiti della nostra casa; spesso un miagolio è un sussulto di gioventù, perché somiglia a qualcosa. Soltanto della guerra di Troia non riesco a dimenticare nulla.
Cristiano Caracci
Allied New Zealand Army Corps : quando ancora le guerre si combattevano per degli ideali
e non per conquistare mercati …..o petrolio.
Ill lungo viaggio di un padre che, come milioni di padri e madri -non solo nel primo conflitto mondiale- hanno vissuto giorni e mesi ed anni con l’animo straziato nell’attesa -spesso vana,come in questo caso-di rivedere l’amato figlio.
Nel racconto ci appare un padre che quasi si aspetta di ritrovarlo come nel momento in cui l’ha visto partire dal molo.
Ed in un film che si srotola davanti ai suoi occhi rivede la sua vita e l’amarezza di non aver potuto vivere nella terra dei suoi genitori : quella Grecia sempre sognata,amata,inseguita ma conosciuta solo dai libri, che ora fa da tomba al proprio figlio.
La delicatezza del racconto, specie nelle ultime pagine, è struggente e l’apparire della figura della madre copre la fine con un velo di dolcezza.
Dietro la tragedia dei genitori che hanno perso l’unico amato figlio in una guerra combattuta in un posto che più lontano non esiste, e il dramma del padre ormai irrecuperabilmente prigioniero del suo passato , traspare la figura del sergente emblema di quello che fu l’impero britannico ed il suo esercito, fatto di uomini orgogliosi di essere sudditi , e non figuranti sempre pronti a cambiare casacca: right or wrong, my country. Ma questa è storia passata
Il caldo e il sole della vita e del ricordo, lasciano spazio al gelo e alla desolazione della morte e del dolore. L’ignoto che avvolge la battaglia del figlio, lontano da casa, rende la sofferenza muta, quasi inaffrontabile fino al momento dell’incontro col distaccato sergente che trasforma gli incubi dei due genitori, animati forse ancora da un barlume di speranza, nell’amara e tragica realtà.
Mi ha colpito la straziante è la figura del padre costretto ad attraversare i luoghi della storia da lui studiata ed insegnata in quel lontano paese senza vederli e senza poter provare quello slancio che avrebbe voluto ma che il mesto motivo del viaggio ha spento.
Il dolore e l’ inutilità della morte del figlio in quel paese lontano tra gente diversa lo mantiene collegato per similitudine alla sola guerra di Troia sicuramente letta altrettanto lontana e dolorosa.
Racconto pervaso di rassegnazione, tristezza e rispetto del dolore, sentimenti sempre presenti negli scritti di questo autore.
Bello e molto profondo
Racconto di ottima scrittura, affascinante la descrizione del cimitero sotto la neve. Bellissimo il finale: “soltanto della guerra di Troia non riesco a dimenticare nulla” : la cultura,il ricordo della grandezza di un passato possono ancora avere valore contro la barbarie della guerra e di un presente senza ideali?