Premio Racconti nella Rete 2013 “Storia di un tenero ombrello” di Costantino Simonelli
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2013Quante piogge aveva visto. Quanto piovere. Forse duecentoventidue volte. O duecentoventitre? Altroché, ricordava bene, erano duecentoventitre, teneva il conto. Più d’un anno, forse due o tre, e in tutte le stagioni. Temporali improvvisi e piogge lente, attese di pioggia, tentennamenti di pioggia, anche qualche fiocco di neve che s’era subito dileguato in gocce, posandosi.E adesso in un cantuccio buio, ripiegato, raggrinzito, roso dalla ruggine e dall’ attesa inutile, col capo all’in giù.Era tempo ormai che non sentiva più quella stretta di mano a pugno, quel gesto che, deciso, gli riportava il capo all’in su ; quello sgranchirsi e stendersi delle articolazioni di metallo, quello smappettare al vento del suo essere , finalmente riaperto ad odorare l’umido dell’inizio,quello che scalfisce la polvere, e poi il bagnato, e poi il fiato angustiato o paziente del suo padrone. Procedere od attendere? Lui a proteggere. Così solo sapeva di dovere e potere esistere: per proteggere.Ormai si domandava il perché di quell’agonia lenta. Che condivideva, come un destino comune, con decine di altre cose state utili , servite, in uell’anticamera lunga della fine che è una cantina. Dove s’ammucchia il dimenticato e l’inutile ed il passato di moda . A volte con sciocca e cinica riconoscenza per il servizio reso, a volte perché quella “cosa” innesca un ricordo di cui, pavidi, non ci si sente di sbarazzarsi definitivamente.
Oddio, basta! Che me ne frega a me di tutta questa malinconia talmente umana che, detta da una cosa, può sembrare ridicola. Io che avrei voluto vivere solo ancora una volta quella volta.
Pioveva, com’era logico, ma di quelle piogge che emanano quel certo desiderio di tessere ,al riparo dalla vita come dalle intemperie, quegli accostamenti tentati per caso ,di sconosciuti che si guardano per la prima volta e quasi all’improvviso si piacciono e poi sentono subito quell’imbarazzo caldo del come scambiarsi la prima parola. Mentre, due qualcuni sopra, intanto che proteggono, già familiarizzano e si scambiano sussurri all’ unisono col ticchettare della pioggia.
– “E’ davvero strano questo marzo”
– “E già,… ora piove ed ora è bello”
Come sono sempre dolcemente insipide le prime frasi dell’ inizio d’un amore. Meno male che sono condite sapidamente sempre da un sorriso d’intesa che spalanca ampi spazi alla prospettiva futura, di tante frasi e di tante negazioni di frasi come queste.
S’era innescato il gioco della pioggia , forse di marzo, forse d’un tempo lungo una vita.O forse no , lungo solo una stagione dove… dove poi .. al sole ,noi, vostri piccoli ombrelli, potevamo non servire più . Perché il sole è un’altra cosa o tante altre cose tutte insieme. Per esempio, libertà, evasione … fine. A volte anche fine; fine di storie nate sotto la pioggia che ticchettava prima forte e poi più lenta , poi rada, fino al niente più. E quella volta ci chiudeste insieme quando lui con la mano tesa sentenziò che era passata la pioggia. E , sottobraccio adesso, a passeggiare al sole . E noi ciondolati dal loro sottobraccio, loro a strofinarci insieme , al loro fianco , alla cadenza dei loro passi. Tu al fianco destro di lei, io al fianco sinistro di lui. Noi che avevamo passato tutto il tempo della pioggia a parlare di loro, a scommettere sulla possibilità di vederci ancora. “Dio fa che piova ancora”. “E siamo già o solo a Marzo?”
Loro ormai amoreggiavano con addosso quel repertorio di moine sempre più avvolgenti, sempre più avvinghianti, che preludeva ad una consumazione rapida di quanto a noi, povere “cose”, non sarebbe stato concesso mai.Noi che ormai avremmo desiderato continuare solo a sfiorarci con un lembo del nostro unico vestito da pioggia .Ci buttarono affianco, per fortuna, ad un pizzo d’una stanza con un letto già sgualcito ed un comodino di fortuna dove lei e lui dovevano avere appoggiato un po’ dei loro sogni; per essere più liberi di fare bene all’amore.Che stranezza guardarli muovere quelle braccia e quelle gambe per intrecciarsi cercandosi.E noi che non avevamo né braccia e né gambe né gemiti né sorrisi da darci , per un momento ci saremo dovuti sentire inutili. Senza il ticchettare all’unisono della nostra pioggia sulla nostra vera pelle di tessuto e di anima. Anima di cose, che nessun uomo padrone al mondo crederà mai che esiste seriamente.
Io adesso, senza aver dimenticato il mio padrone che ha cambiato almeno due volte amori e almeno due volte vita, chissà perché, ma quando sento girare la chiave in quella toppa e poi me lo vedo entrare e guardarsi intorno a cercare , penso sempre che è tornata l’ora mia . E mi sento pronto e quasi vestito da sposo. Un poco invecchiato, ma ancora capace di sentirmi addosso il resto di quella pioggia interrotta di Marzo.
Direi : tenera storia di un tenero ombrello, raccontata sottovoce, con ” malinconia talmente umana”. Bella e davvero tenera, mi fa ritornare in mente una vecchia canzone di Georges Brassens “Le parapluie”. Silvia
PS certo però che è un ombrello fortunato….in tanti anni il suo proprietario non l’ha mai perso!