Premio Racconti per Corti 2013 “Il caso del triste invidioso” di Michael Gaddini
Categoria: Premio Racconti per Corti 2013La stanza era ampia e fredda; l’unica finestra che si affacciava sulla strada, quella strada, era stata del tutto sigillata da vecchie tavole che il sig. Olfini aveva preso in garage. Vi erano delle piccole fessure tra una tavola e l’altra da far penetrare pochissima luce, ma sufficiente, ad illuminare il volto sconvolto dell’uomo. Quest’ultimo fumava come una ciminiera nonostante non avesse mai fumato in tutta la sua vita. Era da poco tornato dal commissariato per rilasciare una sua testimonianza. Che cosa era capitato? Finita l’ultima sigaretta dell’intero pacchetto andò in salotto per cercare dei sigari. Magari il suo vecchio ne aveva dimenticato qualcuno sul tavolo. Scese molto lentamente. Cercava di fare meno rumore possibile. Entrò nel salotto. Di fronte al tavolo vi era un camino intagliato in pietra serena sormontato da una rozza e polverosa mensola. Prese la scatola di fiammiferi ma niente sigari. Sul divano trovò un manoscritto, o meglio, il manoscritto. La causa di tutti i suoi mali. Lo prese gettandolo nel camino. Sfregò un fiammifero nella pietra gettandolo nel camino. Alimentò la fiamma buttandoci un po’ di alcol. Vi fu una grossa fiammata. Il manoscritto era ricoperto dalle fiamme che pian piano lo stavano consumando. Del fumo si proiettò negl’occhi dell’uomo facendogli chiudere. In quel ebbe come un flashback del giorno in cui conobbe Davide Ferzi. Il suo vicino. Circa otto mesi fa. Il giovane Ferzi, neanche trentenne, si era da poco trasferito con la moglie Catherine e il loro cane. Ottone si chiamava. Vennero ad abitare di fronte al sig. Giacomo Olfini. Tra i due non vi fu nessuno scambio di parole o cortesie. Solo un buongiorno e buonasera. Olfini era un programmatore informatico che nel tempo libero si dilettava con la scrittura. Purtroppo con scarso successo. Aveva pubblicato qualche opera, partecipato ad alcuni concorsi, ma restando sempre un autore mediocre. C’ho lo faceva dannare. Non aveva moglie e figli. Ogni tanto il padre gli faceva visita. L’unica valvola di sfogo era la scrittura. Avrebbe voluto pubblicare un libro o una raccolta delle sue opere ma nessuna casa editrice credeva nelle sue storie. Ferzi invece veniva dalla città. Era di Milano. Sin da bambino voleva fare il pilota di paramotore e infatti lo era diventato. In più anche istruttore di volo. Ogni tanto lo chiamavano per girare qualche scena aerea di film o documentari per la tv. Anche lui amava la lettura, ma soprattutto, scrivere. Tra Olfini e Ferzi correvano circa diciotto anni di differenza. Nonostante ciò avevano qualcosa in comune. Infatti durante un pomeriggio estivo si incontrarono per caso in un bar del centro. Fecero colazione assieme. Oltre all’abituale “buongiorno” vi fu un piacevole scambio di idee. Parlarono del tempo, delle donne, per poi piombare sull’argomento tanto agognato da entrambi; la letteratura. Entrambi erano scrittori dilettanti, anche se, dai loro discorsi volevano far credere a qualcosa di più. Finita la colazione Ferzi decise di invitarlo a casa per fargli leggere un suo soggetto. Abitavano l’uno di fronte all’altro. Solo una lunga strada ben trafficata li separava. I due si sbottonarono entrando così in argomentazioni più sciolte e fluide. Ferzi gli fece leggere il suo soggetto. Dieci pagine. Olfini ne rimase del tutto incantato. Era una storia originale. Avvincente. Con dei personaggi ben strutturati. Eppure pensò era solo una bozza. E avrebbe già funzionato come racconto breve. “Che cosa aveva in mente quel giovane di città?” Dopo la lettura Olfini non fu più lo stesso. D’un tratto divenne loquace. Si fece prendere da un’improvvisa invidia nei confronti del giovane Ferzi. Era decisamente più bravo di lui a scrivere. Inventò la prima scusa che gli venne in mente per andarsene. Tornato a casa incominciò a parlare da solo. Volle convincersi del fatto che era solo un dilettane e che quella bozza sarebbe rimasta tale. La solita fortuna del principiante. Niente di più! Mai e poi mai sarebbe divenuto un racconto completo. Passati tre mesi i due si ritrovarono di nuovo allo stesso bar. Fecero colazione. Ferzi non stava più nella pelle. Del tutto galvanizzato gli disse che aveva finito il suo racconto. Ottantotto pagine in tutto. L’aveva spedito a Milano da un amico editore. Entro poche settimane gli avrebbe fatto sapere per la pubblicazione. Olfini non proferì parola alcuna. “Ma come era potuto succede?” Si domandò. “Sono oltre vent’anni che scrivo e non ho ancora pubblicato niente!” Si rimproverò l’uomo. Ferzi notò qualcosa di strano nei suoi occhi del sig. Olfini che si alzò dal tavolo scappando via dal bar. Se ne andò senza alcuna spiegazione. Non salutò nemmeno. Da una semplice invidia passeggera passò ad una stomachevolmente ossessione nei confronti del giovane Ferzi. D’un tratto iniziò ad elencarne i pregi; giovane, alto, bello, con una moglie altrettanto giovane e bella, una casa più grande, un cane, simbolo di fedeltà coniugale, un auto nuova di pacca, un maghetto che al posto della bacchetta magica aveva una penna. Una grande mente! Questo sentimento d’indivia ossessiva corrose l’anima inquieta del sig. Olfini. Uno scapolo, senza moglie e figli, senza un cane, ma soprattutto, un mediocre scrittore. L’unica cosa che lo teneva in vita erano proprio i suoi racconti che mai avevano riscosso il successo del pubblico o della critica. Di colpo si guardò dentro e vide solo un fallito. “La colpa è di Ferzi!” esclamò. “Mi ha sbattuto in faccia il suo successo senza alcun moralità!” aggiunse. Olfini si chiuse nella sua camera. Passarono delle ore prima che si calmasse del tutto. Decise di scendere per cena. Dalla finestra vide con la coda dell’occhio il giovane Ferzi uscire di casa. Nelle mani aveva un blocco di fogli. Un manoscritto. Probabilmente era il suo racconto. Arrivò sul ciglio della strada aspettando che non passassero macchine. L’uomo intuì l’intenzione di Ferzi. Voleva venire a casa sua per fargli leggere il manoscritto. “Ma perché mi vuole umiliare in maniera così esplicita?” Pensò l’uomo. “No, non voglio leggerlo! Anzi, non voglio proprio vederlo quello spocchioso ragazzino di città!” Lo fissò intensamente augurandogli le peggior cose, tra cui: “Spero ti metta sotto un’automobile!” Disse con furia omicida. E in un batter di ciglia ecco che il giovane Ferzi nel tentativo di attraversare la strada venne preso in pieno da un furgone. Il tempo si fermò! Il cuore del sig. Olfini iniziò a battere fortissimo. Scese le scale più in fretta che potè. Uscì di casa precipitandosi verso la strada. Il conducente del furgone cercò di svegliare il giovane Ferzi ma era tutto inutile. Morì sul colpo! Olfini vide una pozza di sangue intorno alla sua testa del giovane. Era morto! Non c’era più polso. L’uomo baffuto che conduceva il furgone scoppiò a piangere. Olfini raccolse dall’asfalto il manoscritto. In quel momento uscì Catherine. Anch’essa si precipitò in soccorso del marito. Era troppo tardi. Ferzi era morto! Si crebbe un cerchio di curiosi attorno al tragico incidente. Il sig. Olfini girò i tacchi. Rapito dal sospetto che era tutta colpa sua si chiuse in casa. La sera più tardi si presentò al commissariato per denunciare la morte del suo vicino. “Sono stato io ad ucciderlo!” disse “Ho desiderato così intensamente la sua morte che si è avverata!” Disse di nuovo. Il maresciallo cercò di farlo ragionare. “Stia calmo! Non possiamo arrestare una persona perché ha fatto il “malocchio” al suo vicino.” Spiegò. “Non è stato un incidente! Lui attraversava la strada ed un furgone l’ha investito! Però sono io che l’ho voluto, mi creda!” Aggiunse. “Senta! È successa una disgrazia e ce ne stiamo occupando. Capisco il suo dolore! A meno che non fosse lei alla guida di quel furgone non abbiamo motivo di trattenerla.” Infine aggiunse; “Se dice di essere un testimone oculare dell’accaduto procederemo la sua testimonianza ma non possiamo trattenerla senza alcun motivo.” Spiegò nuovamente il maresciallo. Il sig. Olfini riaprì gli occhi. Il manoscritto era del tutto bruciato. Prese l’attizza fuoco e iniziò a spargere le ceneri. Si era sentito incolpa per la morte del suo vicino ma non appena vide le ceneri del racconto del giovane Ferzi l’uomo accennò un lieve sorrisetto compiaciuto. Nove mesi dopo l’accaduto il sorrisetto “trionfante” del sig. Giacomo Olfini si tramutò in un’orrenda smorfia deformata dall’invidia non appena vide il libro del giovane Ferzi, che la moglie decise lo stesso di pubblicare in nome del marito scomparso, distribuito in qualsiasi libreria del paese. Destinato ha divenire un bestseller di successo.