Racconti nella Rete 2009 “L’ultima stella” di Marco Giampieri
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2009Prologo
Mancano solo pochi chilometri. E le stelle le ho contate tutte. Le stelle sono quasi come i pensieri. Una Via Lattea per tutta la vita.
E’ l’ultima notte di stelle, stanotte, e l’ultima buona per l’amore.
Si cammina con lo sguardo al cielo, come una danza di velluto, un passo da tenere abbracciati all’infinito.
Un angelo si posa con le sue ali di gesso, stupito dalla compagnia di tanta luce. Pensava di non farsi vedere, nascosto dietro una siepe o una colonna di marmo. Spunta dai tralci ormai pieni di foglie e piega delicatamente le spighe immobili tra il via vai delle lucciole.
Un angelo senza voce e con gli occhi bassi a terra, per non invidiare tutto quello sciame divino nel cielo. Un angelo da corteggiare e da guardare in silenzio.
Solo per amore dello sguardo, solo per provare a far cadere una stella, solo per il prossimo metro, a volte infinitamente distante dagli occhi.
O solo irraggiungibile.
Al di là di ogni limite di tempo. Al di fuori della nostra drammatica possibilità di spazio. Tra le mani, come la luce, come la notte al limitare del giorno dopo.
E la vita si riprende il suo sogno. E le stelle se ne vanno a spasso per il cielo.
E Dio, dov’è Dio, dopo l’ultimo passo? Forse cerca solo di impedire lo sterminio delle lucciole. Al limite dei sogni solo apparentemente disposti a caso, al limite del cielo che solo a noi appare infinitamente confuso, con i suoi magici traccianti di luce che lacerano le ali scure di un angelo caduto.
Al limite di ogni pusillanime domani.
Ma tutti dobbiamo riposare. E magari anche un po’ piangere. Piangere e riposare, fa bene agli occhi.
E’ il nostro limite.
Stare bene, piangere e stare bene. Al limite della vita o di quella che conosciamo.
Sipario.
Al limite della strada.
Dormirò qui. Ora.
Finché ci sarà una stella.
Sottosopra.
Buio fitto.
Sotto le coperte.
Io sopra, lei sotto.
Le alzo la camicia da notte. L’ho fatto almeno mille volte. Però, considerando, ah, si, si un momento, eh ….. , ma come no, mi ero dimenticato, del sabato che eravamo appena tornati dalla gita al mare con picnic tutti insieme sulla spiaggia io, lei, loro, si, gli altri insomma, anche quel sabato, si, devo contarlo.
Allora, ricapitoliamo. Lo facciamo, sempre di sabato, al buio, sotto le coperte, io sopra, lei sotto, con la camicia da notte sollevata, lo facciamo da ….. orientativamente ….. pressappoco …. direi ….. venti anni, per cinquantadue sabati, sono almeno millequaranta volte. A queste dobbiamo aggiungere i sabati di quest’anno, che sarebbe il ventunesimo, che essendo a marzo sono … vediamo il calendario, cinque più quattro, domani non lo considero anche se lo faremo, sono nove, altri nove, quindi in totale millequarantanove. Però, un momento, mi ero dimenticato il ciclo, non possiamo averlo fatto tutti i sabati! Pausa mestruazioni. Beh, considerando un ciclo ogni quattro settimane, che un ciclo dura almeno sette giorni, devo dividere cinquantadue per quattro che fa tredici, moltiplicarlo per venti, che fa duecentosessanta, che va sottratto a millequarantanove per un totale finale di settecentottantanove.
Negli ultimi venti anni siamo stati uno sopra l’altro almeno settecentottantanove volte.
Cioè io sono stato sopra di lei settecentottantanove volte.
Neanche mille.
Sempre lo stesso giorno.
Quasi sempre alla stessa ora.
Ha cambiato molte camicie da notte. Ne aveva una molto corta, come una minigonna. Era più facile, non la dovevo neanche alzare.
Io sopra, lei sotto.
Al buio.
Chissà quante stelle. E forse c’è stata anche la luna. Anzi sicuramente, ma non ho voglia di fare il conto di quante volte c’è stata la luna.
Lassù. E noi sotto.
Le stelle invece non potrei contarle. Però bagnarle di lacrime si.
Io sono un tramezzo tra lei ed il buio. E il buio è una spessa parete tra noi e la luna. La luna, nonostante la sua luce, non ci ripara completamente dalle stelle.
Allora domani e tutti i prossimi sabati le chiederò “Fammi vedere le stelle”.
Oltre il buio. Oltre la finestra.
Chi se ne importa della luna.
Prima di arrivare a mille.
Io sotto, lei sopra.
Canto di mezzo.
Finalmente.
Ci voleva.
Erano giorni che non si riusciva a vedere il sole. Stamattina, invece, che giornata!
Bellissima.
La luce, in particolare. Sembra incredibile, solo ieri sera pioveva.
Ed ora, uno spettacolo.
Dopo la pioggia l’aria è tersa, i colori brillanti, le distanze sembrano più piccole, puoi vedere cose che avevi quasi dimenticato.
Respirare. Ogni profumo. Esaltante e sensuale l’erba bagnata, inebriante la ginestra, perduto nella malinconia il tiglio, penetrante l’erba cipollina, pieno di vento di mare il rosmarino.
Tutto sembra raggiungibile in una giornata di estate improvvisa, in quei giorni che cominciano con la luce che ti acceca ancora prima di aprire la finestra, la luce gialla e densa che inarrestabile penetra da tutte le fessure della casa.
Il rumore di un trattore, in lontananza. Più in basso, il traffico della città.
In casa silenzio.
Dove va a sbattere la voglia di ricominciare. Dove anche la luce affonda nello strapiombo dell’assenza.
Passo davanti allo specchio. Meglio evitare.
Passo davanti all’armadio. Ci sono anche i suoi vestiti.
La soluzione. Sembra facile.
Quando il mondo è sbagliato non c’è una soluzione. Io sono convinto che il mondo sia sbagliato.
Apro il rubinetto, e mi lavo il viso. L’acqua non è più fredda ormai e invece di uno schiaffo scivola come una languida carezza sulla barba. Lascia le sue tracce, piccole insignificanti gocce sospese sulla barba di un uomo che non sa che farsene del suo essere uomo. Mi asciugo e guardo la finestra.
E’ancora chiusa.
E il letto ancora sfatto.
E la vita, mai soddisfatta. La vita che a volte ti travolge con la sua stolta energia, a volte ti abbraccia con il suo insensato calore. C’è, la senti, già a quest’ora bussa con i suoi perché, le sue piccole e grandi urgenze, le sue trionfanti aspettative.
Devo scegliere e ho paura. Se apro la finestra rimarrò travolto dalla luce. Dalla disperazione. Per non poterla assaporare fino in fondo.
Tanto vale saltare anche il tramonto.
Aprire e saltare. Tre piani di lucida estasi. Senza virtuosismi. Senza misticismi. Un’iperbole di luce e l’ultimo fiato. Tra la finestra e la terra maledetta. E quel mondo sbagliato, fatto di sorrisi segreti, di mille parole che scavano come un torrente, di pudore e desiderio incontenibile. Di profumi da portare via, di occhi caldi e profondi, diversi e quasi innaturali, occhi senza paura, senza fretta.
E quel letto disfatto. E tutti quei vestiti appesi come anni. Alcuni da stirare. Altri belli da piangere. Alcuni fuori moda. O solo di una taglia impossibile.
Se apro la finestra penserò al suo corpo, spiga di grano maturo e vino rosso da gustare. In silenzio. Con l’orizzonte impresso nell’infinito respiro delle sue labbra d’argilla.
Se apro la finestra entrerà la sua estate e potrò avere solo poco tempo per rimpiangere. Dove aspettare i suoi capelli? E dove dimenticare ogni plausibile risposta? Quale minuto salvare e quanto tempo ho per pregare?
Dove? Ma dove esattamente?
In quale galassia perdere il senso di tutto quello che non è mai stato? O anche lì, in un amore così altrove, infinitamente distante, da sembrare un’altra parola, anche lì troverò la condanna ad avere un senso, un maledetto e ragionevole senso? Fino a quando posso modellare il mio pensiero per farlo assomigliare ad un bacio, possibilmente distratto, leggero, soffice, tremante, un unico, umido, tiepido, bacio? Quale dimensione devo infrangere o non basta neanche perdere la vita?
Neanche morire mi dà certezze. Non c’è niente che sappiamo davvero della vita e della morte. Non sappiamo neanche se sono davvero così diverse.
Mi metto una camicia di lino bianco. Niente mi ricorda l’amore come la ruvida freschezza del lino. E la macchina, in garage, è ancora fresca. Proverò a perdermi in tutta questa luce, in questa estate che non voglio ricordare. E sparire da un’altra parte.
In un altro senso.
Provare a vivere o morire. Ma non qui. Tra le impronte degli anni, delle carezze, del futuro che ha già lasciato le sue tracce.
Invece devo concentrarmi sulla strada. E la macchina va da sola, in fondo. Ed io anche.
C’è una strana euforia nel guardare la strada e spingere sull’acceleratore. Nell’allontanarsi da sè c’è un senso di aritmia, di imperfezione, che però non ferisce, non fa tremare.
Tutto scorre di fuori.
Tutto resta immobile dentro.
Tutto scompare e non lascia tracce.
Gli alberi, le altre auto, i volti delle persone che tanto non ricorderai.
Così come i piatti da lavare, la finestra chiusa, le scarpe nella stanza, il pigiama sul letto.
Sfatto.
O disfatto.
Antefatto dell’amore da rifare.
Esauriente finale.
Epilogo mai finito.
Morbidezza e calore, a prendere aria.
Il sonno dei giusti.
L’amore senza giustizia.
Il sesso senza indulgenza.
Lacrime e ridicoli addii.
Valigie e scatole di ieri.
Senza nessuna parola.
E le fotografie bene in vista.
E il dolore nel bagagliaio senza neanche una borsa.
Magari qualche cosa di scritto. Nella borsa intendo, del tipo “amare non è servito” e così piangere. O forse, stupidamente, “abbi cura di te”.
Per ogni chilometro, fino alla prossima città.
Dove non so e un giorno non tornerò.
Forse cantare.
Invece di morire.
L’ultima stella
L’ultima stella l’ho barattata con il tempo.
Ancora un minuto. Ancora un sorriso.
Dove si può ancora chiedere tutta la vita.
Sul mio cammino incerto, su un filo sottile, davanti alla casa dei dubbi, sotto il sole che brucia, sotto la pioggia dei giorni.
E domani, un’altra tappa.
Ancora un passo, in una distanza di vetro, in una tenera preghiera.
Cuore nuovo e gambe in agguato.
Come un circolo infinito.
Guardo indietro e ascolto attentamente quello che dici e vedo quello che dici e sogno quello che dici e aspetto.
L’ultima stella, travolta dal silenzio.
Lieto fine
Baciala, stupido!