Premio Racconti nella Ret 2013 “Goran e Predrag” di Giovanni Lucev
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2013“Un ospedale da purificare, a Vukovar!”.
L’informazione implica l’ordine e le Tigri si mettono in marcia.
Predrag, sguardo fiero e smorfia da duro, chiude la fila.
Predrag ha trent’anni, è nato a pochi passi dal confine croato, ed è un meccanico.
Non ha mai studiato, suo padre era morto che lui era piccolo e la madre lo aveva cresciuto come aveva potuto.
A quattordici anni, aveva dovuto iniziare a lavorare, ma lui è felice.
Adora smontare e rimontare qualsiasi motore, anche quelli perfettamente funzionanti.
Così, solo per il gusto di pulirli, tenerli in ordine e perché non gli piace starsene con le mani in mano.
E’ un ragazzo semplice, operoso e sfortunato, il pesce perfetto per abboccare alla propaganda nazionalista della Grande Serbia.
Gli avevano promesso ordine e rivalsa e lui ci aveva creduto.
Aveva deciso di arruolarsi nelle Tigri, perché combattevano per la realizzazione di un sogno.
Non che fosse un attaccabrighe, no, solo era stato conquistato dagli slogan martellanti, dal sostegno che vedeva nascere intorno a sé verso quei combattenti e dal rispetto che essi incutevano.
Si era unito alla causa e aveva superato il corso di addestramento.
Era un partigiano.
Adesso marcia con l’M-16 sottobraccio e chiude la fila delle Tigri.
Goran è al primo piano, stanza G, letto numero 5.
Guarda fuori dalla finestra, cercando di ricordare le cose che vede com’erano prima della guerra.
Per qualche istante, i palazzi sventrati tornano in piedi, i prati bruciati tornano verdi e la gente è di nuovo per la strada e cammina indaffarata.
Goran ha trent’anni, è nato a pochi passi dal confine serbo, ed è un insegnante.
Ha studiato storia e filosofia e, prima della guerra, insegnava in un liceo.
Era contento così e a chi gli chiedeva se non volesse tentare la carriera universitaria, lui rispondeva che preferiva forgiare le giovani menti, prima che si rovinassero crescendo troppo.
Prima che conoscessero la rassegnata disillusione dell’età adulta.
Insegnava da pochi anni, così aveva mantenuto la passione per quel lavoro e anche quel po’ di inesperienza che gli permetteva ancora di credere di poter cambiare le cose.
Goran amava il suo lavoro e i suoi ragazzi e amava insegnare loro la storia dei loro padri, per evitare che ne ripetessero gli errori.
Insegnava la pace ed era finito a fare la guerra.
Non che fosse un ipocrita, no, solo credeva fermamente nel diritto di ogni popolo a difendere il proprio Paese.
Suo nonno era stato Partigiano antifascista durante la seconda guerra mondiale e suo padre aveva continuamente problemi di lavoro perché non era iscritto al partito, così aveva sviluppato un’avversione verso i regimi autoritari e la follia che stava dilagando così vicino a lui lo inquietava profondamente.
Si era armato del fucile da caccia del padre ed era entrato nella resistenza.
Era un Partigiano.
Era stato ferito nell’assedio di Vukovar, un colpo di mortaio gli aveva spappolato il ginocchio e lo aveva reso invalido a vita.
Adesso guarda fuori dalla finestra e si immagina i colori che non ci sono più.
Dall’ingresso, urla, concitazione, spari.
Poi, entra qualcuno.
Sono loro.
Un soldato prende Goran per il braccio, lo strattona giù dal letto e lo trascina lungo il corridoio.
E’ un ragazzo, poco più di un bambino, e Goran se lo immagina seduto ad un banco, in una delle sue classi, ma non riesce a leggere bontà nei suoi occhi, come se fossero oscurati dalla patina opaca della follia.
Goran, zoppicante, viene trascinato nel cortile dell’ospedale e messo spalle al muro, in fila con gli altri, Croati e Musulmani.
Nel cortile fa freddo e la foschia mattutina attutisce i suoni e le luci e cancella i colori.
Sul muro, percorso da crepe, qualcuno aveva disegnato, in tempi più spensierati, i pali di una porta da calcio.
Le ambulanze, arrugginite e semidistrutte, giacciono in un angolo, abbandonate.
Il freddo risveglia i sensi e nuvole di respiro si spandono per il cortile, superano i muri dell’ospedale e si librano verso il cielo, come tante grida di libertà.
Il comandante, intanto, ha organizzato la fila dei cecchini.
Predrag è in posizione e pronto a far fuoco.
Poi, il Croato, lo zoppo di fronte a lui alza la testa e Predrag riconosce Goran.
La mente balza indietro di più di vent’anni, alla scuola elementare e a quel bambino croato che gli aveva offerto, con un sorriso tranquillizzante sul viso, il banco vicino al suo.
All’unico compagno che gli si era presentato. A lui, piccolo orfano serbo.
All’unico
amico di quegli anni infelici.
“In posizione!”, intima il comandante, e Predrag si risveglia come da un brutto sogno, obbedendo meccanicamente all’ordine.
Goran, però, ha notato quell’attimo di smarrimento e ha riconosciuto Predrag.
Ha la stessa espressione impaurita e spaesata di quel primo giorno di scuola.
Goran ripensa a quella mattina in cui gli era caduta la catena della bicicletta e lui gliel’aveva smontata e rimontata, pezzo per pezzo.
Ricorda le risate di quella sera, quando erano scappati di casa per andare a vedere com’era fatto Tito ed erano stati ripescati dai genitori dopo poche centinaia di metri, persi per strada.
Guarda l’amico che adesso lo tiene sotto tiro, l’amico che adesso sta con gli assassini, l’amico che adesso lo ammazzerà.
Agli angoli della bocca, Goran disegna un sorriso, amaro e malinconico.
L’ordine arriva inevitabile, meccanico e insensibile ai ricordi di due ragazzi costretti a diventare adulti troppo in fretta.
Il sangue di Goran tinge il muro sbreccato dai colpi e una piccola lacrima solca il viso segnato di Predrag.
Il corpo di Goran viene buttato con gli altri sul camion diretto alle fosse e il comandante raduna la truppa.
“Un campo profughi da purificare, a sette chilometri, in direzione sud-est!”.
L’informazione implica l’ordine e le Tigri si mettono in marcia.
Predrag, capo chino e la mano tremante, chiude la fila.
…terribile…questo racconto è così vero e così triste che fa piangere per tutte quelle giovani vite sacrificate per cosa poi….ma la Pace quando ci sarà mai!!! Scritto molto bene, così bene che potrebbe essere anche un corto.
Un racconto struggente raccontato a fotografie, parti di una storia che alla fine gira veloce come un film. Chissà quante storie simili a queste sono realmente accadute in una guerra qui a due passi. Complimenti Giovanni!
Complimenti, un racconto emozionante, dove riesci a prendere per mano il lettore e metterlo nei panni dai due personaggi. Bravo!
Grazie mille a tutte e tre! L’intento, in questo racconto, era proprio di riflettere a proposito dell’assoluta sciocchezza alla base di ogni conflitto. La scelta è ricaduta sulla guerra nella ex Jugoslavia perché sono figlio di un Croato e quindi l’argomento mi tocca da vicino.
Crudo e reale: un’immagine dopo l’altra le emozioni e le sensazioni si avviluppano e vanno veloci come potendole toccare. Bravo! Matteo
Grazie Matteo!