Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2013 “Acqua” di Alessandro Sicoli

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2013

Dieci tavoli, non di più, una corte interna, piccola. Tre grossi ombrelloni quadrati a riflettere le luci soffuse e le fiammelle tremolanti delle candele, protette nei contenitori di vetro. Quel ristornate non lo avresti ma trovato senza conoscerlo. L’ingresso da una via minuscola, stretta non lontano da Corso Magenta, nella vecchia Milano. Costruita quando gli spazi urbanistici non contemplavano il traffico, le automobili. Lo aveva suggerito Barbara, aveva una capacità sorprendente nel trovare posti come quello. Belli, inusuali. Cucina siciliana.

Ogni volta che la rivedevo, i ricordi prendevano a scorrere. Un fiume. Dentro, noi due, gli anni insieme, la dolcezza l’amore, i viaggi, le incomprensioni, il rancore, la fine. Avevo fatto l’abitudine ad affrontarlo, avevo imparato a non farmi travolgere dalle acque di quel fiume, spesso tumultuose, a fluttuare sopra la corrente senza annegare, senza neanche toccare la superficie. Ma era impossibile non restare bagnanti, qualche goccia di memoria incontrollata mi raggiungeva portando un po’ di dolore, nostalgia, rimpianti.

Come le pietanze nei piatti, stavano finendo anche gli argomenti neutri, o quasi, di conversazione. Avevamo riempito, colmandoli, i vuoti tra le nostre vite ormai separate, formatisi, accumulatisi dall’ultimo nostro incontro, pochi mesi prima. Nuove persone e nuovi luoghi conosciuti, le letture, il lavoro, le notizie sugli amici comuni. Portando alla bocca l’ultima forchettata di pasta alla Norma, decisi che era venuto il momento di affrontare il vero argomento de quella serata, il motivo per il quale avevo chiesto a Barbara di vederci.

“Vorrei parlarti di una cosa importante.”

Alzò gli occhi e mi fissò sorridendo con quell’espressione maliziosa, appena accennata, che sapeva avere un effetto travolgente su di me, mi portava a desiderarla, subito, da sempre.

“Immaginavo che ci fosse qualcosa oltre alla semplice voglia di vedermi.”

Avrei voluto dirle di non essere inutilmente crudele, ma il fatto che avesse in sostanza ragione, mi frenò.

“Dimmi qualcosa di Roberto, Barbara. Il marito di Giovanna.”

Non cambiò di un millimetro la sua espressione. Il sorriso rimase uguale, quasi congelato. Non mi avrebbe dato la soddisfazione di rendere evidente quanto le mie parole l’avessero colpita. Continuammo a fissarci negli occhi, quasi una sfida. Lei non avrebbe mollato per prima, neanche io l’avrei fatto. Era un atteggiamento infantile, lo sapevamo ma avremmo resistito. Arrivò il cameriere, ci chiese se desiderassimo il secondo o un dolce. In altri tempi avremmo risposto senza guardarlo, continuando a fissarci. Mi venne quasi da ridere all’idea, forse una volta avrei riso davvero. Non adesso, non con quello che c’era da dire, non senza noi due a dare un senso a una cosa tanto buffa e assurda. Guardai il ragazzo.

“Io prendo una fetta di cassata. Tu Barbara?”

Lei resse ancora qualche istante, poi capì, a sua volta, che non aveva senso di continuare.

“Io un cannolo, grazie.”

Restammo in silenzio, fissando la tovaglia, dove pochi istanti prima c’erano stati i nostri piatti. Toccava a me parlare.

“Perché? Cosa volevi dimostrare?”

Si versò dell’altro vino, finendo la bottiglia senza lasciarne neanche una goccia per me, apposta.

“Niente, non volevo dimostrare niente. Comunque non sono cazzi tuoi.”

Barbara usava espressioni volgari solo quando era davvero allegra. Oppure quando si trovava molto a disagio, quando stava male.

“Giovanna è una nostra amica, dai tempi del liceo. Sono eccome cazzi miei, visto che si tratta di una persona alla quale voglio bene.”

Io non avevo bisogno di nulla di particolare per diventare volgare, persino scurrile. Continuai.

“Soffre come un cane per quello che è successo. Quindi, vorrei capire perché. Vorrei sapere se sei solo una grandissima stronza, oppure se c’è qualcos’altro. Qualcosa per cui abbia avuto senso quello che hai fatto.”

Vuotò il bicchiere d’un sorso, evitando di guardarmi, girando di lato il viso in modo evidente.

“Perché Barbara? Perché lui?”

Rispose continuando a guardare altrove.

“Sono cose che succedono, lo sai. Tutti i giorni, a milioni di persone. Capitano. Quante ne hai sentite di queste storie?”

Sorrisi, versandomi un po’ d’acqua.

“Ne succedono tante, è vero. Ma non a una come te, alla persona che ho amato e credevo di conoscere.”

Riprese a guardarmi.

“Lo sai, le persone cambiano. E’ una frase fatta, ma è vera. Si cambia.”

Arrivarono i dolci. Ordinai del passito, anche per lei senza neanche chiedere se lo volesse.

“Si cambia, hai ragione. Ma non si scompare, dentro. Qualcosa rimane. Se sei la persona che conosco, ancora un po’, se non sei un clone sostituito dagli alieni che vogliono invadere il pianeta, deve esserci un motivo più profondo di quello banale che vorresti spacciarmi.”

Non sapevo perché avessi fatto la battuta idiota sugli alieni. Era fuori luogo, brutta. Un tentativo maldestro di alleggerire la tensione. Mi fissò, mordendo il cannolo, masticò e deglutì in fretta, per parlare.

“Visto che sei qui a farmi la morale, dimmi tu perché lo avrei fatto? Stupiscimi con la tua grande capacità di analisi, con la tua intelligenza, la sensibilità proverbiale.”

Guardai oltre la sua figura, alle sue spalle. I nostri vicini di tavolo ci stavano osservando. Lanciavano occhiate veloci e parlavano a bassa voce. Riportai il fuoco del mio sguardo su di lei.

“Vorrei che fossi tu a dirmelo. Voglio sentirlo da te.”

Mi fissava di nuovo, sembrava tanto stanca. Un velo di tristezza negli occhi, il viso inclinato appena. Era meravigliosa.

 

L’alba pettinava di luce delicata le dune dell’erg. Avevamo raggiunto il bivacco la sera prima, sui dromedari, con le guide berbere e altri turisti, da Merzouga. Una deviazione dal giro delle città imperiali. Era uno dei pochi luoghi, in Marocco, dove si potesse trovare il paesaggio sahariano vero. Quello che nel nostro immaginario è stato modellato dai film, le foto, le descrizioni magistrali. Dune alte come colline, sabbia fine dai toni rossi, ferrosa. L’alba pettinava di luce anche Barbara, rendendola ancora più bella. Il viso inclinato nello stesso modo, lo stesso gioco di ombre. Litigavamo sempre più spesso. Quel mattino no. Ma notando il velo di tristezza nel suo sguardo, avevo avuto paura, per la prima volta. Avevo capito che tra noi poteva finire, davvero.

 

Il gusto della cassata era così dolce da bruciare in gola. Forse per questo è il mio dolce preferito.

“Ti sta bene quel rossetto.”

Mi disse.

“Anche se ormai non ne è rimasto molto. Non sei mai stata brava a conservarlo, quando mangi.”

Sorrisi.

“Sarà per questo che lo uso poco?”

Sorrise anche lei.

“Sei una stupida, hai le labbra più belle del mondo e non vuoi mettere il rossetto. Ti ricordi quante volte te lo dicevo?”

Annuii più volte, con lentezza. Mi ricordo tutto di noi due.

Erano arrivati i passiti. Cominciai a sorseggiarlo. Barbara bevve anche quello d’un fiato e prese un lungo respiro.

“Credevo di essermi innamorata di Giovanna. Lei mi è stata tanto vicino quando ci siamo lasciate. Ha sempre capito alla perfezione i miei sentimenti, l’angoscia. Ho creduto che capisse troppo. Ho frainteso, forse, ho voluto credere che ci fosse altro. Le ho detto quello che…credevo di provare. E’ stata gentile, dolce, ma mi ha respinto con forza. Ho voluto punirla, per il dolore che sentivo. Quasi non mi ricordavo come si facesse con un uomo. “

Si fermò, quasi spossata dallo sforzo di verbalizzare a me, e a se stessa, quei pensieri.

“Sto tanto male.”

Appoggiai la mano sulla sua, mi straziava vederla così. La prese e la portò sul viso stringendola forte. Feci scorrere le dita della mano libera sui suoi occhi, le labbra, quasi cercando di lenire il dolore. Avrei voluto vedere cosa facessero in quel momento i nostri vicini di tavolo tanto curiosi, ma non volevo staccare il mio sguardo dal suo. “Ero…sono disperata, Francesca. Ti amo ancora tanto. Non ha senso niente, senza di te.”

Aveva gli occhi lucidi. Baciò il palmo della mia mano, che teneva ancora stretta.

Sentivo le acque del fiume intorno a me, mi ero tuffata, dentro. La corrente, forte, rischiava di trascinarmi. Avevo paura, non molta, solo un po’. In fondo, sono sempre stata molto brava a nuotare.

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3 commenti »

  1. Rossetto rivelatore…
    Ben fatto, bravo Alessandro.

  2. Caspita, mi hai stupita, sono andata a rileggere dall’inizio per vedere se mi ero persa qualcosa.
    Poi ho realizzato che ero io a dare per scontato che il narratore fosse un uomo, i sentimenti descritti sono universali.
    Bel racconto, solo la fine non mi convince, toglierei l’ultima frase.

  3. No, anzi, finirei con ‘bacio’ il palmo della mia mano, che teneva ancora stretta ‘

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