Racconti nella Rete 2009 “Una giornata febbrile” di Sergio Compagnucci
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2009Oggi è il 30 marzo, lunedì.
Siccome ieri è scattata l’ora legale, la sveglia suona alle sette che non sono le sette di prima. A fatica, spiccico le palpebre e vedo il faccino di Tommaso a una fiatata da me: respira a bocca aperta, poverino, per via delle adenoidi – se non fossi suo padre direi che sta russando.
Toc toc, gli busso due volte sulla spalla: ma lui non fa una piega.
«Su su, Tommaso,» gli faccio scrollandolo forte «c’è da andare all’asilo!»
Nel tirarlo su dal letto, provo dolore da tutte le parti. (Dolori sospetti… ma non voglio pensarci!)
Raggiunto il soggiorno, scarico mio figlio sul divano e inizio a fare zapping alla ricerca di un cartone. Finalmente trovo Piggley, quel simpatico maialino. Bene. Come abbasso il volume, Tommaso mi grida:
«Non sento!»
Vorrei potergli replicare che non è vero, ma tre timpanogrammi gli danno ragione – maledette adenoidi!
Giulia – mia moglie –, mentre io vago come uno zombi per la cucina, mi chiede se Margherita – nostra figlia di sei anni – ha già avuto la fetta biscottata. Le faccio di sì col capo sovrappensiero.
«Margherita,» sento che Giulia le chiede poco dopo «e la fetta biscottata…?»
Più rapido di Speedy Gonzales indovino la sua risposta: Non me l’avete data!
(No, stavolta non potrei dare dell’irascibile a mia moglie!)
Ma è giunto il momento di svelarvi un segreto.
Poco fa, nello svegliarmi, io ho avuto sentore di non stare bene. Un dubbio, per la verità, nulla di conclamato: un senso di pesantezza alla testa, qualche improvviso mormorio dello stomaco e, per quanto confessarvelo mi imbarazzi un po’, fastidiosi fenomeni di flatulenza. Sicché, troppo impegnato ad auscultare il mio corpo, non riesco ad avere orecchi per gli altri: e questo spiega l’equivoco della fetta biscottata.
Be’, direte voi, se anche si trattasse di febbre non sarebbe certo la fine del mondo.
Invece sì: per me sarebbe la fine del mondo.
Io sono un giudice e oggi è lunedì. Se la malattia sta covando, domani certamente non potrò tenere udienza. E domani non è un giorno qualunque: viene il professor Trebbia, un luminare di Treviso, per il conferimento dell’incarico peritale.
Forse dovrei dire alla cancelleria di avvertirlo subito, medito indeciso.
«Dottore,» mi anticipa la signora Bruna dalla cancelleria «ha chiamato poco fa il professor Trebbia per informarci che è già arrivato. Sa, vista la distanza, ne ha approfittato per una gita con i suoi.» Rimane un po’ in silenzio, poi mi fa: «Eh, la nostra Maremma piace proprio a tutti, vero, dottore?»
«Eh, sì…» le rispondo macchinalmente, con la testa altrove: la febbre è un lusso che non mi posso permettere!
Adesso che sto pranzando, confesso a mia moglie di sentirmi così-così (e non potete capire quanto mi costi dover ammettere di sentirmi così-così).
«Tommaso,» provo a intenerire mio figlio appena siamo fuori dalla scuola materna «babbo oggi non si sente bene, cerca di fare il bravo.»
Mi guarda con i suoi occhietti furbi, quelli di sempre: «Però mi porti in bici, eh!» mettendo subito in chiaro i termini della transazione.
Cazzo, esclamo tra me, ti ho detto che non sto bene! Ma in realtà lui non ha nessuna colpa: un babbo deve star bene per forza, sennò che babbo è?!
Margherita mi dà lo zaino dicendomi che vuole la schiaccia (schiaccia, per chi non vive da queste parti, è la focaccia).
«No, Margherita, oggi non sto bene: voglio tornare subito a casa.»
«Allora mi fai il Ciobar, eh!» Lo stesso eh! di Tommaso, d’altronde non dovrebbe più sorprendermi, visto che è la loro interiezione preferita. È che oggi la trovo più imperativa del solito, ma, chissà, forse è per via della febbre. (Febbre…?) Faccio finta di niente e parto con la Citroën Picasso.
Siamo già a casa. Mentre Tommaso dorme sul divano, Margherita sgranocchia dei wafer ricoperti al cioccolato (forse si è dimenticata del Ciobar, mi dico speranzoso). A questo punto non ha più senso rinviare la cosa. Mi infilo il termometro di vetro sotto l’ascella, guardo l’orologio e calcolo mentalmente quando dovrò toglierlo.
I cinque minuti sono passati: lo sfilo con molta cautela iniziando il solito movimento con la mano alla ricerca della linea blu di mercurio:
36 38 40 42
???????||||||?|||||||||?|||||||||?
37 39 41
Lo so ch’è ingiusto verso chi ha malattie ben più serie di questa, ma non ci posso far nulla: ce l’ho con Dio che m’ha fatto prendere la febbre – proprio oggi che è venuto il perito da Treviso. (E non venga a dirmi che Lui non lo sapeva!)
«Margherita,» le dico sofferente «ogni tanto dai un’occhiata a Tommaso…» Qui ho un’esitazione; poi ammetto in tono di sconfitta: «Babbo ha la febbre.»
Sono già nel letto con tre cuscini sotto la testa e gli occhi sul soffitto nella penombra della camera: quanto tempo dovrò stare così? La tempia mi pulsa e ho il viso in fiamme: è come se la febbre, dopo la mia resa, si stia godendo la vittoria in uno sfoggio di smodata virulenza.
Dovrei andare di là, penso dopo aver dormicchiato una mezz’ora, e chiedere a Margherita se per caso ha ancora fame; Tommaso, chissà se sta sudando, magari si è svegliato e dovrà fare merenda. Ma non riesco a muovermi: decine di spilli mi pungono da ogni parte. Sto davvero male, penso, e nel pensarlo avvampo (se possibile) ancora di più.
La porta della camera è solo accostata. Nello spiraglio noto gli occhi di Margherita, il suo sguardo smarrito mi fa sentire in colpa: si starà preoccupando per me?
«Piccola,» riesco a dirle provando dolore al petto «perché non suoni un po’?»
I suoi occhi si allontanano, ubbidienti.
Mia figlia ha iniziato a seguire lezioni di piano quest’anno, da quattro mesi per la precisione; un’ora la settimana, giusto per vedere se le piace. Dico questo per spiegare che il mio perché non suoni un po’? è vagamente pretenzioso.
Sento la musica levarsi: una prima nota, poi una seconda e con la terza, pur essendo io un profano, sarei già in grado di cogliere una stonatura. Anche se capisco che tra una nota e l’altra passa troppo tempo, mi emoziono perché sono quelle giuste. Con una metafora grammaticale, direi che ci sono troppi puntini di reticenza, ma per il resto la sintassi – sì, brava Margherita! – è corretta. Sono proprio quei puntini a intenerirmi: così piccina, ci vedo il suo sforzo per non sbagliare.
Com’è possibile, mi chiedo tutt’a un tratto, che siano le sue mani a fare musica? C’ero anch’io, quel giorno, nella sala-parto. Le sue dita lunghe e sottili mi fecero pensare a un ragnetto. Forse m’inganno, ma ho il presentimento che suoni con più impegno del solito perché sa che il babbo, inchiodato dalla febbre sul letto, è di là che l’ascolta.
Ha finito l’esercizio: chissà se viene da me o ricomincia daccapo.
«Margherita,» le dice Tommaso (ah, si è svegliato!) «mi fai brividare le labbra.»
Brividare: ve lo giuro, le ha detto proprio così.
L’emozione mi sovrasta: Tesorucci miei, che vi prende, volete farmi venire un infarto?!
Margherita, ma perché non hai suonato così anche ieri? E tu, piccolo birbante, perché non mi hai mostrato prima quest’anima poetica?
Noi l’abbiamo fatto, babbo… ieri, il giorno prima e quello prima ancora, solo che tu scrivevi al computer. Sì – mi fa lei con l’aria da saputella –, prima leggevi i fascicoli e poi scrivevi. Io – sottolinea Tommaso in tono di rimprovero – ti ho detto che mi sono fidanzato con Giulia (mi piace perché si chiama come mamma) e che lei mi fa brividare le labbra. Va bene, Tommaso – mi hai detto tu –, ora però lasciami lavorare.
Se non li chiamo vicino a me, è perché temo di sentirmi rispondere così.
Trasalisco alla prima nota di Margherita, che intanto ha ripreso l’esercizio. Tommaso corre nel corridoio chiedendo aiuto ai Power Rangers. A questo punto l’emozione e la febbre hanno il sopravvento.
«Come stai?» mi chiede Giulia, seduta sul letto.
«Che ore sono?» le faccio, intuendo di aver dormito a lungo
«Le otto. Non sapevo che stavi male, sarei rientrata prima… M’ha detto Tommi che hai la febbre: è vero?»
Questa parola, febbre, proietta di colpo sul soffitto il ghigno inferocito del perito trevigiano.
«Non lo so…» sospiro.
«Magari è solo stanchezza. Provala un’altra volta…» mi fa, passandomi il termometro.
«Dai a me» mi dice adesso che è trascorso il tempo, riprendendoselo. «Che ti dicevo?!» esclama entusiasta. «Trentasei, manco ci arrivi… Tu hai solo bisogno di una bistecca, amore mio. Su su, il mio malato immaginario…»
Devo aver tradito qualcosa, perché lei mi contesta nervosa:
«Ma insomma, che significa codesta faccia?!»
«Scusami, hai ragione…» mi sforzo con un sorriso.
È che ne vorrei un altro, Giulia… un altro giorno di febbre ancora.
Mi è piaciuto molto. Trasmette quella tenerezza e quel calore che soprattutto un padre (forse solo un padre) sa descrivere con questo trasporto. Chiarito, infatti, che la mamma è la mamma, noi papà viviamo nel timore (senso di colpa) di non concedere mai abbastanza tempo e attenzioni ai nostri figli. Alla fine ho avuto la netta sensazione che il vero protagonista della storia sia la moglie/mamma.
Un racconto davero ben fatto, che racconta la vita di tutti i giorni, senza drammi. Un modo di scrivere scorrevole e accattivante.
Complimenti ed in bocca al lupo.
Alessandro Colosimo (ZENONE)