Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio racconti nella Rete 2013 “Dall’alto” di Maurizio Centi

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2013

Da lassù sembra tutto differente. Conosce bene quei luoghi, li conosce da talmente tanto tempo da esserci invecchiato, andava lì che era ragazzo e aveva il passo sciolto e adesso invece ha un’andatura lenta e un po’ impacciata, succede con l’età che avanza. Ma da lì sopra la prospettiva cambia. É come quando l’aereo comincia la manovra di atterraggio e tutto quello che c’è sotto, discendendo gradualmente tra le nuvole, inizia a farsi un po’ più nitido, i boschi, i campi coltivati e poi le strade e le automobili in corsa. È in quei momenti che ci si rende conto di appartenere a un mondo così vasto che al confronto la propria quotidianeità, i percorsi abituali, i quartieri che si attraversano di fretta e i negozi dove si va per acquistare ciò di cui si ha bisogno sono solo una parte infinitesimale di un insieme che normalmente non si riesce a cogliere. La stessa cosa, sebbene in scala più ridotta, gli succede da lassù. Da nove giorni si gode il panorama, nonostante che la tramontana a quella straordinaria altezza di sessanta metri e più geli le mani e intirizzisca il corpo. E per fortuna non ci sta una moglie a casa ad aspettare.

Anche oggi il cielo è limpido, neanche una nuvola a minacciare pioggia, che sarebbe meglio inzupparsi d’acqua fino ai piedi piuttosto che gelare. Vive in quello spazio aperto e tuttavia l’azzurrità per tetto e la mancanza di pareti attorno, il che non capita poi tanto di frequente così a lungo, anziché arrecargli noia gli danno un senso di libertà che non provava più da tempo. Forse addirittura da quando, ragazzino, suo padre lo portava a correre dietro a una palla nei prati scombinati che crescevano spontanei tra i palazzoni in costruzione nella periferia in cui stavano ad abitare. Nove giorni che gli scorrono davanti come un film le immagini di tutta la sua vita, come se fosse seduto nella platea di un cinema a vedere una storia che non riguarda lui ma qualcun’altro. Nove giorni che sta lì, seduto nella sua poltrona nel buio della sala, e si rivede vivere né più e né meno come l’ha saputo fare. Certe volte si torce le mani dalla rabbia o si lascia sopraffare dalla nostalgia, anche se adesso è troppo tardi per farsi una ragione delle occasioni dissipate e dei sogni svaniti con l’età, o di tutto ciò che si poteva fare in modo differente. Magari gli succede perché ha parecchio tempo per pensare e non ci sta nient’altro a cui si possa dedicare, dal momento che sta immobile tutto il santo giorno a guardare di sotto con le gambe a penzoloni nel vuoto senza in realtà vedere niente e pensando solo ai fatti suoi, tranne quando si alza in piedi e prende a fare avanti e indietro nel ristretto spazio che ha a disposizione per scaldarsi almeno un po’. O forse perché la situazione in cui si trova rappresenta un’occasione unica per rifarsi i conti e per sentire il tempo scorrere un minuto dopo l’altro, mentre in genere gli sguscia tra le mani come un pesce. Tempus fugit, dice tuttavia il poeta, e dunque è impossibile sottrarsi.

Lì invece il tempo è qualcosa di diverso. È una nuvoletta che compare d’un tratto all’orizzonte, prima non c’era e adesso invece eccola là, poi si sposta lentamente e si ingrandisce e cambia forma di continuo nel tragitto. È un pensiero che si affaccia quasi casualmente, forse un déjà-vu oppure il frutto di un sogno trascurato, e dopo prende spazio nella mente e si dipana come un vicolo tortuoso e poi diventa viale, piazza, prateria, finché bisogna farci i conti. È una donna vista sbucare da dietro l’angolo di quel palazzo, rinchiusa dentro il suo soprabito pesante. Prima attende che il semaforo diventi verde e poi traversa sulle strisce e si avvia a passo veloce verso il centro, la si vede zigzagare tra una strada e l’altra e allontanarsi per andare chissà dove, forse avrà un appuntamento. Sono le guance di quest’uomo che troneggia a sessanta metri e più, che qualche giorno prima erano lisce come quelle di un bambino e adesso invece sono foderate da una barba sale e pepe che tradisce la sua età.

Qualche tempo fa, prima che iniziasse tutto questo, aveva fatto un sogno. Si trovava di fronte uno splendido palazzo abbarbicato sopra un colle in mezzo a boschi sempreverdi e ad infiniti corsi d’acqua gorgoglianti. Luoghi di quel genere stanno solo dentro i sogni, anche se per costruire queste immagini il nostro inconscio utilizza di frequente un linguaggio sconosciuto, sicché il messaggio sfugge. Ma la cosa più stupefacente non era tanto il posto dove si trovava, quanto l’agilità con cui si inerpicava sostenendosi con le sole mani su pareti di tufo a picco su strapiombi impressionanti, come fosse quella l’unica maniera di spostarsi da un versante all’altro di quel posto. E nonostante quelle rocce si sgretolassero sotto la pressione delle sue dita, dita forti come tenaglie, e lui ne vedesse precipitare i frammenti negli abissi alle sue spalle, non aveva alcun timore di cadere e anzi sosteneva quello sforzo come nulla fosse e si muoveva con destrezza, sorpreso di possedere un’abilità che non si conosceva affatto. Sogno premonitore, lasciava forse presagire che prima o dopo si sarebbe ritrovato lì, a cimentarsi in quella singolare situazione.

Nove giorni sulla cima di una gru, con vista panoramica sul cantiere dove qualcuno, padrone, imprenditore, figlio di puttana in doppiopetto, ha deciso da un momento all’altro di fare a meno di un bel po’ di braccia e di gettare nell’angoscia decine di famiglie, volti scavati dalla angoscia, figli tenuti all’oscuro con fatica, nonni risparmiati per non guastargli la vecchiaia. Di questi tempi accade di frequente. Così un bel giorno, perdurando l’incertezza, ha preso coraggio e si è arrampicato sulle travi di metallo e metro dopo metro è arrivato fino in cima, e ha giurato al mondo che non sarebbe più disceso a meno di sentire qualche bella novità. Ma vale a dire mai e lui lo ha messo in conto. Di tanto in tanto un po’ di vino rosso per scaldarsi e il cibo che gli arriva fino lì da mani amiche, nasi sempre in su a vedere come se la cava, se porta avanti quell’impresa oppure molla tutto per disperazione, nessuno lo condannerebbe. Sotto di lui continui cenni di saluto, i volti dei compagni indistinguibili da quell’altezza siderale, giornalisti di reti locali, gente qualunque, vigili urbani e militari in uniforme ad alternarsi negli appelli dalla strada coi megafoni gracchianti, persino il sindaco a implorarlo di venire giù e ad assicurare che farà tutto il possibile, le do la mia parola, che certi gesti estremi sono pure comprensibili ma non ci si deve intestardire, che a tirarla troppo quella fune può spezzarsi. Riguardo tutto ciò di cui potrebbe aver bisogno è pure giusto farsi la domanda, ma non lo è altrettanto per chi scrive riferire ogni minuzia, che non giova mai alla narrazione indugiare nei dettagli. Il fatto è che però oramai ci ha preso gusto, si fa per dire, o sarebbe forse meglio dire ci ha trovato un senso, e che non crede gli verrà più voglia di lasciare quella piattaforma, che sta a due soli passi dal paradiso.

Da ieri notte, poi, gli sono spuntate sulla schiena due grandi ali bianche dal piumaggio morbido e lucente, ali d’angelo o forse di gabbiano, è tutto il giorno che le liscia con le mani. Non può sapere se da basso si riescano a vedere, forse ci vorrebbe un cannocchiale, ma sarebbe spreco non condividere con gli altri quell’apparizione prodigiosa. Di tanto in tanto si china e si alza a molla nel poco spazio che ha a disposizione, ginnastica speciale per vedere se c’è un modo di distendere quelle ali straordinarie e magari di volare, chi lo sa, sarebbe l’unica maniera per abbandonare quella cima senza nostalgia. Peccato però che non gli riesca ancora. Forse ci vorrebbe una rincorsa oppure un atto estremo di coraggio, arrampicarsi sopra il corrimano della balaustra, restare in bilico per qualche istante e poi lasciarsi andare, e certamente andrebbe bene come nel suo sogno.

Oggi comunque è il giorno del suo compleanno, cinque di marzo, di sicuro un modo originale di trascorrerlo. I suoi compagni giù di sotto neanche a dirlo se ne sono ricordati e hanno fatto arrivare un dolce fin lassù, una torta al cioccolato con su scritto tanti auguri eroe e una bottiglia di prosecco che ha finito per vuotare, per questo adesso è un po’ ubriaco e avrebbe voglia di parlare con qualcuno. Ma poichè non c’è un orecchio amico nei paraggi né, è stata una sua scelta, un altro modo di comunicare, gli tocca dialogare con se stesso, sebbene siano nove lunghi giorni che non fa niente di diverso. Tanti cari auguri amico mio, si dice allora sorridendo trasognato, la bottiglia vuota appoggiata al parapetto, poi barcolla ancora qualche passo sulla piattaforma e siede in terra, sarà meglio. Da basso si avverte un sospiro di sollievo. Che giornata straordinaria, si dice a mezza bocca, e che sollievo questa leggerezza e questa nebbia attorno ai miei pensieri, che li rende finalmente più sinceri. Che orrore, invece, vivere schiavi della fatica e dei giorni tutti uguali, e che bel sogno tagliare la catena e liberarsi. Perciò gli piacerebbe fare un altro brindisi alla vita, gridare al mondo intero che ne è valsa la pena e che se rinascesse adesso farebbe tutto uguale, ma la bottiglia è terminata e non si può più fare.

Chissà cos’è che spinge un ubriaco ad avere tanta voglia di parlare, se l’alcol gli riveste i gesti e le parole di una vernice di malinconia che cerca sfogo e comprensione o se è solo la leva che rimuove il masso che impediva al fiume di tracimare. Chissà qual è l’impulso che lo rende incline al sogno e agli slanci audaci, e a fare promesse che non potrà quasi di certo mantenere. E che cos’è che adesso spinge questo uomo ad alzarsi in piedi e a salire di slancio sopra la ringhiera, a restarci sopra in equilibrio per qualche istante e poi a lasciarsi andare nel vuoto. Sembra disperazione ed è coraggio, le braccia spalancate e il corpo teso. Eccolo, precipita dapprima verso terra, è un colpo al cuore quella discesa mozzafiato che non dà tempo di pensare, nessun ostacolo, neanche una nuvola da attraversare. Poi però all’improvviso le grandi ali bianche spuntate di recente si distendono all’unisono e lui riprende quota quando ormai sembrava certo che si sarebbe schiantato al suolo. Ecco l’espressione sui volti dei compagni attoniti mutarsi in meraviglia, ecco gli applausi, ecco le grida di incitamento, vedrai che ce la fa. Riprende quota e frena la discesa e vira e dopo vola in cerchio sul cantiere, così contento di quella abilità che non si conosceva affatto.

È una felicità che non provava più da tempo. Forse addirittura da quando, ragazzino, sognava a occhi aperti nel suo letto di essere l’eroe che con un guizzo sconfiggeva i prepotenti e metteva in salvo la sua amata.

Adesso che riesce a governare senza sforzo il volo e può decidere la rotta, fa un saluto ai suoi compagni con la mano e si allontana.

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1 commento »

  1. Mi sembra che “Dall’alto” riesca a fondere, assieme ad una buona dose di suggestione, temi drammaticamente attuali con una grande capacità di scrittura. E che, nel suo imprevedibile finale, dia un respiro tale che il lettore non potrà non apprezzare.

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