Premio Racconti nella Rete 2013 “L’ agenzia di Giovanna, Gioele e il figlio di Domenico Castoldi” di Costantino Simonelli
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2013Io sono Giovanna, una donna di ventisette anni. Sono sposata da due con Franco e c’ho pancia.
Il mio dentro, quando che nascerà, abbiamo discusso con mio marito sul suo nome: si chiamerà Gioele. Non chiedetemi perché. Ci è piaciuto quel nome così, a sentircelo ripetere: io a lui e lui a me. Ce lo siamo detti, io e mio marito, e ci è piaciuto l’un l’altro sentircelo dire: Gioele.
I nonni, da ambo le parti, sono rimasti un poco, come si dice, scornati. Loro si
aspettavano un nome diverso, uno di quelli nostri, s’aspettavano. Specie mio
padre, Carmelo, s’aspettava che lo rinnovassimo. Ma chiamare Carmelo Caluori mio figlio e nipote di Carmelo Garbossi e di Libero Caluori, marmista funerario, mi dava l’idea che nella nostra famiglia, passando il tempo, non sarebbe cambiato niente.
Così. invece, io mi tocco la pancia e lo chiamo Gioele. E così penso pure di possedere un’agenzia di viaggi.
La nostra è una famiglia che da cinquantant’anni fa pompe funebri.
In città Carmelo Garbossi è un nome di rispetto in fatto di tristi circostanze.
Il motto di mio padre e dei miei fratelli è : “il più tardi possibile, ma quando
è il momento, meglio la professionalità della ditta Carmelo Garbossi e figli.”
E figli.
Con questo motto hanno fatto, dagli anni settanta fino alla fine degli anni
ottanta, la pubblicità tra il primo e secondo tempo dei film al cinema.
Adesso, all’idea che il mondo stia cambiando e che i film a cinema non li vede
più nessuno, abbiamo pensato di fare la pubblicità su di quei cartelloni luminosi al centro della città, dove ci sono i semafori; di quei cartelloni in cui le lettere si accendono e si spengono, s’inseguono, si rincorrono e fuggono in un passare di qualche secondo; e poi di nuovo si ripetono. E così
indefinitamente, tanto che diventano utili perché gente ferma al semaforo
possa leggere il messaggio a bordo delle proprie automobili. E magari fare
gestacci o toccarsi nelle proprie intimità. Perché così succede, che la morte,
come tutte le cose troppo serie, troppo serie per prenderle per troppo tempo sul serio, alla fine sfogano il lato comico della faccenda.
Ultimamente ci siamo intrufolati con lo spot pure tra la fine dei telegiornali e
la rubrica sportiva di certe tivù locali. Adesso, a breve, apriremo anche un
sito su Internet.
Il motto è sempre lo stesso. Indefessamente così, da trent’anni: “il più tardi
possibile, ma…”
Devo dire che io, l’ultima ruota del carro, la piccolina della famiglia e
l’unica laureata, in sociologia, mi sono sprecata all’inizio a dire che la morte, pure quella liturgia e quel folclore che fa da contorno alla morte, va trattata con più tatto. Tanto più tatto.
Io, però, sono l’ultima figlia di tre che fanno questo mestiere. E gli altri
miei due fratelli sono già da tempo mariti e genitori fatti. E poi sono talmente
pratici del mestiere e talmente addentro nel mercato di queste cose… Poi,
quando abbozzo uno scricciolo di predica “che così non è bello, non è giusto
speculare e fare prezzi sul piant…” loro m’interrompono e, un poco si mettono a ridere, un poco diventano severi.
Ma poi, alla fine, quasi mi abbracciano, e così m’azzittiscono.
“Dai, piccola, non c’è niente di male a… è una cosa che comunque qualcuno deve pur fare” – mi dicono.
Quando è agosto io sono abbronzata da fare invidia; perché, con tutti i
soldi che rende questa attività, io, nei fine settimana, me ne vado al mare a
prendermi il sole nei posti più deliziosi d’Italia.
Eppure, adesso che è settembre, mio padre e i miei fratelli mi hanno lasciato
praticamente sola a gestire il negozio. “Settembre – mi ha detto mio padre – è
un mese che si muore di meno” Chissà perché. Sarà che è il mese che si fanno gli ultimi conti, una specie di bilancio con la vita prima di ricominciare a
morire ad ottobre e novembre. Sembra strano, ma è veramente così.
“Poi, i tuoi fratelli se ne vanno per tre o quattro giorni, ma io sono sempre
qui, in zona.”- mi ha ancora detto mio padre dandomi un buffetto affettuoso
sulla guancia. E poi ha guardato con un segno di rassegnata approvazione la mia pancia. “Ha metabolizzato, evidentemente, il nostro chiamarlo Gioele” – ho pensato.
Stasera è arrivato un tipo col fare ingenuo e dinoccolato. Appena entrato mi ha guardato l’abbronzatura delle braccia, la scollatura che tracciava una
probabilità d’un certo bello dei miei seni. Poi , quando mi sono alzata dalla scrivania , ha guardato sotto, a non finire, lasciandosi accarezzare lo sguardo da quella pancia che io – ancora catturata dal vezzo
adolescente della linea da mantenere a tutti i costi – con le persone estranee
provo istintivamente a ritirare dentro.
Mi ha detto ” buonasera”.
“Buonasera, prego.”
“Devo ritirare i bigliettini di ringraziamento per la morte di mio padre. E poi
vorrei sapere anche quale è il costo complessivo del funerale.”
Mentre io mi affrettavo a cercare la scheda con il conteggio della funzione – il
conto, in pratica – tra quelle degli ultimi dipartiti, lui, quasi volesse
aiutarmi a ritrovarlo, s’era proteso tutto verso di me e mi ripeteva quasi
ossessivamente:
“Castaldi… Domenico Castoldi.”
“Eccolo qua! Tremila e seicento euro per il funerale, e i bigliettini di
ringraziamento sono gratis.”
“Tutto qui?”
“Tutto qui.”
“Le faccio un assegno adesso?”
“Adesso o quando vuole. Piuttosto, vuole la fattura o le basta una semplice
ricevuta?”
A questo punto lui mi ha guardato con uno sguardo che era come -ma mi posso sbagliare- se mi volesse dire: ” ma tu sei felice o no?”
“Io no. E tu?”
“Io neppure!” Questo abbiamo dovuto pensare in due.
” Basta solo la ricevuta”, mi ha detto.
Come si può essere veramente felici qui, nel cuore dell’agenzia della morte.
Nella stanza affianco c’è la nostra piccola tipografia. C’è un computer sempre
acceso dove il cliente, il parente più prossimo del defunto o un chicchessia
incaricato delle onoranze, ti può dettare il testo del manifesto.
Di solito le solite parole, quelle che girano intorno alla sostanza, che è
sempre la stessa.
C’è chi lo fa con il cliché solito e comincia con un “serenamente” od
“improvvisamente” od un “dopo lunga malattia” a seconda delle circostanze del
trapasso o dell’emotività con cui i familiari hanno accettato l’evento. C’è chi
invece è più originale e ti fa scrivere cose roboanti del lui o della lei che
non c’è più.
Di solito cose tra poesia e retorica. A ridosso dell’una o dell’altra, di
solito.
Affianco al computer la stampante parte con il suo caratteristico rumore. E’ già programmata per infiorare il manifesto di un’effigie che vuol essere una
devozione ed un viatico. Prima c’era solo un Cristo con la corona di spine o un
volto dolce di Madonna a farla da padroni. Adesso vanno molto i Padre Pio ed i Papa Woityla.
E che ci vuoi fare, la fede con la morte affianco vuole i suoi buoni ed efficaci
intermediari per un aldilà migliore.
Nella stanza dall’altra parte, che non è poi una stanza ma un ampio salone
grosso trecento e passa metri quadrati, ci sono in esposizione le bare.
Per fortuna, quando si entra in questo locale non si respira aria diversa da
quella che emana la falegnameria che le sta dirimpetto, quell’ odore
caratteristico dei trucioli di legno e delle vernici.
Perché mio nonno prima e poi anche mio padre avevano cominciato facendo i
falegnami. Solo dopo si erano accorti che l’industriarsi per i morti rendeva di
più che farlo per i vivi. E da allora, piano piano, abbiamo creato
un’organizzazione che direi perfetta, tecnologicamente avanzata ed
artigianalmente ricercata; soprattutto siamo autosufficienti in tutte le fasi
del ciclo che va dall’annuncio dell’evento, alla tumulazione. Basta morire ed
essersi procurato un loculo al cimitero, che al resto provvediamo noi.
Io, in tutto questo processo, svolgo le mansioni più burocratiche, quelle più
asettiche: ricevere le ordinazioni e poi, alla fine, battere cassa. A mio padre
rimangono da sempre quelle che la gente pensa siano le più scabrose: raccogliere il primo pianto dei parenti, l’ultimo addio prima di chiudere la bara e, soprattutto, vestire e ricomporre i morti. Dicono – perché all’operazione io non ho voluto mai assistere – che in questo sia davvero un fenomeno; cioè a dare o ridare quella compostezza della persona e quella serenità del viso che i parenti vogliono rivedere e ricordare per sempre. A volte non deve essere affatto facile, perché non credo che siano poi tante le morti veramente serene. E ancora più sorprendente è il fatto che mio padre, un omaccione tozzo, con delle mani grosse da falegname, riesca ad usare con i morti tutta quella delicatezza necessaria che mi dicono usi, e che non è la stessa che spesso gli vedo usare coi vivi.
Intanto il tipo con fare ingenuo e dinoccolato mi ha porto l’assegno firmato
e poi è tornato a guardarmi, questa volta con una espressione proprio stralunata, fisso negli occhi.
“Mi scusi la domanda indiscreta, ma a lei è capitato di vivere un lutto
importante, voglio dire di una persona cara…”
“Certo, mia nonna.”
“E per voi, dico voi nel senso di lei, di suo padre, dei suoi fratelli… è
proprio uguale a noi?”
Ho risposto in modo perentorio, anche un po’ seccata.
“Uguale, assolutamente.”
“Ah beh, in fondo… immagino sia proprio così” – mi ha detto con l’aspetto
imbarazzato e timoroso, come se mi avesse fatto un torto non voluto, ma,allo stesso tempo, come di chi non è convinto d’una cosa e tuttavia non vuole insistere.
Avrà avuto sulla quarantina, leggermente brizzolato, aspetto distinto e
trasandato allo stesso tempo.
Sarà stato – ho pensato – perché le disgrazie ti tolgono l’incombenza di
apparire sempre presente a te stesso.
Ha preso la ricevuta ed è uscito. E sulla porta quasi mi ha sorriso e mi ha detto: ” auguri” – indicando col dito indice proteso, giù, la mia pancia.
Io sono rimasta per un attimo a pensare a lui, a quella sensazione che mi aveva dato di non volersi troppo bene, anzi, non volersene affatto. Ho pensato al perché di quella domanda e mi sono detta: “quanta gente pensa di noi la stessa cosa ma non la dice, che la consuetudine con la morte ci ha incallito.”
Poi Gioele nella pancia si è mosso in modo turbolento come fa da una quindicina di giorni a questa parte sempre più frequentemente. Si sente che ha voglia di venire allo scoperto per giocarsi le sue carte. Quella sensazione di dolore fisico, quel calcetto assestatomi proprio all’altezza dell’ombelico, ma di
dentro, ha la capacità di scacciarmi di dosso i cattivi pensieri che ricorrono.
Domani farò l’ultima ecografia e, se Dio vuole, alla fine di ottobre…
Una sintassi mimetica che fonde pensieri parole e azioni con freschezza, come la morte si fonde con la vita che presto nascerà. Complimenti!Splendido l’anacoluto iniziale!!
Simpatico racconto. Mi è piaciuto tanto lo stile! Complimenti e auguri per il concorso 🙂
Grazie Matteo, posso dire che in due parole hai detto come e quanto iom’aspettavo di mostrare con questo racconto. A cominciare dalla sintassi di un “parlato-pensato”. E poi la leggerezza coi cui ho cercato, almeno in parte, di sdrammatizzare l’argomento. A mia volta mi complimento con te per la puntualità delle osservazioni.
Complimenti Costantino!! Scorrendo la lista dei vincitori mi sono accorto di aver commentato positivamente molti dei magnifici 25, e, in alcuni casi, di essere stato il primo a farlo!! Come nel caso del tuo racconto!! Un talento da talent scout il mio 🙂 Auguri!!!
Mi ero persa il tuo racconto e, come mi ero riproposta di fare, vedendolo tra i vincitori, eccomi a leggerlo. Molto bello, un stile particolare che lo rende leggero, un poco ironico, anche se tratta di un argomento su cui, di solito, fatichiamo ad ironizzare. Complimenti!
Anche io non lo avevo ancora letto , come del resto non ne ho letti tanti altri, ma ci tengo e lo farò, uno ad uno, nei ritagli di tempo possibile, come adesso.
Con un bambino dentro la pancia la protagonista incarna quasi metaforicamente ciò che fortunatamente lasciamo accadere……….
Si sta con dentro di noi il nostro dentro a filtrare ciò che è fuori nel fuori, ed è proprio per quello che abbiamo dentro, che vediamo anche diversamente da come le cose fluiscono a ruota e magari ce le vogliono offrire.
Così nasce un nostro unico pensiero e come Giole ed il suo nome, sarà qualcosa che nessuno forse si aspetta, perchè si potrà distinguere anche da ogni altra preesistente tradizione, fatta da chi non è noi fatto del tutto come noi !
Bravo Costantino e COMPLIMENTI !!!
X Matteo. Che avessi un talento da talent scout lo avevo intuito dal tuo essenziale e centrato commento al mio racconto. Pedrciquindi, caro Matteo, siccomanzi a me piace molto scrivere , ma anche commentare gli altri, perché non ci scambiamo opinioni sui nostri lavori attraverso le mail.? Ti avverto però, io sono amichevolmente fustigante.:-)
La mia mail è cossimo@tin.it
X Emanuela.: Il dentro e fuori che cambia prospettiva e da coraggio di esprimere almeno la propria opinione in una struttura che funziona da sola, è una lettura originale che da ancora più valore al testo. Perché poi la scrittura è uno sparo di fucili da caccia. Chi lo spara cerca un obiettivo e magari non sa che il suo proiettile è fatto di una rosa di piccoli pallini che colgono l’obiettivo in posti diversi del suo Io. Senza farlo secco, per fortuna, almeno nella metafora che ho usato. 😉 .
Per Silvia. L’equilibrio tra il tragico e il comico degli atti più seri della vita scaturisce, quasi come un parto, una filiazione, leggittima o illegittima, l’ironia. Senza di essa la scrittura diventa un vicolo cieco dove si accumulano sacchetti di depressione. E questa scrittura a me non piace. Grazie per le belle parole.
Bello bello bello! Per me è geniale! Complimenti! Amo questo stile di scrittura, e come te penso che l’ironia sia in un certo qual modo necessaria. Secondo me l’equilibrio tra tragico e comico di cui parli è un’arma potentissima, ma difficile da padroneggiare con efficacia. Io non so se ne sono capace, tu invece si vede che la usi con destrezza! Spero che ci sia occasione di discuterne alla premiazione. Ancora complimenti!
Alessandro, grazie assai per i 3 bello e il geniale. Ho letto il tuo “sacchetto” ( per me a Luccautori sarai “Sacchetto” Così io sarò “l’agenzia” e altri saranno la parola chiave della loro storia. Per cominciare a conoscerci/vi e farmi conoscere e familiarizzare attraverso le nostre storie. Ebbene, non per rimpallarti i complimenti, ma il tuo “sacchetto” m’è piaciuto assai. Se tu m’invidi la capacità di mixare il serio ed il faceto e l’ironico che li cementa , quando è il caso, io invidio nel tuo racconto una grande maestia nel gestire l’idea originale e crearci movimenti scenici e una trama. Nonché degli ottimi dialoghi in cui , anche a te, l’ironia non manca. Unico appunto, importante, eh, un finale che mi pare un po’ mozzato. Come se il lettore, visto le premesse, avrebbe voluto sapere di più del destino di Sacchetto e la mamma.. Ma proprio perché l’invenzione tramante fino ad allora era perfetto ed i personaggi molto accattivanti. Bene. Leggerò altri tuoi racconti su “in rete” . Tu, riguardo all’ironia seria, se vuio leggi i miei: Storia di un tenero ombrello e Dentro la metafora, uno scritto un po’ pazzerello. Ciao, e a vederci ad ottobre.
Be’ io sono davvero lusingato. Troppo buono! L’idea, la trama e i dialoghi sono le cose su cui mi concentro maggiormente, per cui non posso far altro che ringraziarti. E ti ringrazio anche per la critica sul finale; sono un “novellino” della scrittura, qualunque critica è ben accetta, anche perché è l’unico modo che ho per capire i miei errori. Comunque, non appena gli esami di università mi daranno tregua, leggerò con piacere gli altri tuoi racconti, questo è certo!