Premio Racconti nella Rete 2013 “Quore” di Veronica De Carolis
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2013Se fossi un piede ricondurrei questa sensazione di prigionia a quella che questo prova quando è costretto a calzare una scarpa di un paio di numeri più piccola, con la differenza che, proprio per il fatto di essere un semplice arto, vivrei in maniera inconsapevole il dolore che quella spiacevole situazione mi provocherebbe. La realtà è che sono un cuore, e lo dico anche con una certa fierezza. Sono millenni che l’essere umano s’interroga su quanto ci sia di mio nelle emozioni, e sfortunatamente l’attuale corrente di pensiero mi vede sconfitto su tutta la linea a favore del mio storico nemico: il cervello.
Se si tratta di infarti o palpitazioni nessuno ha dubbi che l’unico artefice sia io, ma quando si parla d’amore, di pena o di puro entusiasmo, allora sembro non contare più nulla, se non per qualche romantico cantante o abile disegnatore. Nell’iconografia non mi lamento, sono iper utilizzato… onestamente, chi di voi puoi dire di non aver mai disegnato un cuoricino in vita sua? Anche a livello del comune sentire sembro avere ancora l’importanza che sono certo di meritare, ma poi se si parla sul serio, tra gente che ne studia, tutto cambia. Divento strumento di espressione, quando invece ritengo di essere l’artefice di ogni sentimento che sconvolge e travolge l’essere umano, quello stesso che servo dal primo all’ultimo respiro… e non per modo di dire.
I miei non sono discorsi generici, quella che racconto è l’esperienza che ho vissuto attraverso la persona a cui appartengo fisicamente. Facendo un bilancio, devo dire che fino a poco tempo fa non mi sarei per nulla lamentato della gestione che era stata fatta di me: avevo vissuto momenti un po’ critici, ma quale cuore può dire di esserne stato esente?
Facevo il mio dovere e mi sentivo rispettato, anche se a tratti, in effetti, mi sembravo un po’ sprecato, quasi sottoutilizzato. Sentivo racconti da miei simili che a volte mi facevano invidia: parlavano di montagne russe, di contrazioni da capogiro, di momenti in cui avevano come l’impressione di smettere di battere! Tra me e me pensavo che forse provare queste sensazioni non sarebbe stato male, magari così solo per curiosità avrei voluto che il mio luogo di lavoro fosse un po’ più dinamico!
Adesso rimpiango anche solo di averlo pensato.
Tutto è iniziato come per gioco: a volte mi capitava di sentirmi più forte e manifestavo quest’aumentata energia con un’attività non frenetica, ma comunque oltre le mie abitudini. La prima impressione era del tutto positiva: facevo le stesse cose, ma con una voglia del tutto nuova e iniziavo ad appassionarmi a qualcosa che non avevo ancora ben compreso. Sì, facevo le stesse cose, ma la motivazione era diversa, era come se non battessi più per tenere in vita la mia ospite, ma solo per adorare qualcuno che ancora non conoscevo.
Ora, a distanza di tempo, non c’è nessun altro invece che posso dire di conoscere meglio: sulla mia superficie arteriosa spiccano dei solchi che, se riempiti con del colore, traccerebbero inconfondibilmente un nome, il suo nome.
Dicono che le cicatrici più profonde siano lasciate da eventi che prendono spazio piano piano e questo è proprio il mio caso. All’inizio mi ritrovavo a battere per lui solo in determinati giorni o momenti della giornata, che coincidevano con i momenti in cui l’oggetto del mio interesse diventava visibile agli occhi, organo essenziale che dà spesso il via alle mie improvvise accelerazioni. Non vorrei offendere l’orecchio perciò ammetto che anche attraverso l’udito riuscivo a raggiungere picchi non indifferenti… con il passare del tempo però la visione di lui aveva cominciato ad astrarsi rispetto alla sfera sensoriale ed era diventata completamente opera della mia percezione interiore. Anche se non lo vedevo e non potevo ascoltare la sua voce, incredibilmente si concretizzava in me un pensiero sempre più forte, più invadente, i solchi cominciavano a tracciarsi e lui era ormai diventato parte di me.
Ero il suo cuore.
Me ne ero accorto un giorno quando, dopo una settimana in cui i miei sensi accessori non erano stati sollecitati in alcun modo, avevo sentito una stretta indescrivibile. Non potevo espandermi e mi percepivo rimpicciolito, come risucchiato dall’interno. Parlando con altri cuori più esperti avevo saputo che quella sensazione aveva un nome ben preciso: la chiamavano mancanza. Stupito da quella rivelazione, iniziavo a temere le conseguenze che tutti mi descrivevano come devastanti: “ non riuscirai più fare il tuo dovere” “ti sembrerà inutile e vuoto ogni tuo battito”, “il dolore sarà tale che maledirai l’involontarietà del tuo funzionamento”.
Inutile anticipazione poiché di lì a breve ne avrei avuta esperienza diretta. La forza iniziale si era trasformata in una spossatezza senza limiti: non riuscivo a mantenere gli standard che un cuore giovane e sano come me avrebbe dovuto garantire. Non riconoscevo più il corpo che mi ospitava come mio e mi sentivo inutile perché non ero io a mantenere in vita Lui. Sì, incredibilmente solo ora realizzavo che l’oggetto di tutto il mio amore più profondo conduceva una vita felice sorretto nel suo esistere da un cuore altro, un cuore che non ero io. Come se non bastasse, al contrario di me non viveva come straziante questa estraneità a cui eravamo costretti. Si andava così ad aggiungere alla lista delle mie sofferenze un altro sentimento se possibile ancora più lacerante: la gelosia. Chi era quel cuore, come poteva preferirlo a me che vivevo per Lui seppur fisicamente legato a un altro corpo? Non credevo possibile che tutto quest’amore non fosse premiato con la giusta corrispondenza di sentimento, se non era giusto provare quest’amore allora perché io non riuscivo a evitarlo?
Non mi sarei sentito tanto inadeguato neanche se qualcuno scrivendo di me mi avesse trascritto su carta con la lettera Q. Forse solo questo poteva spiegare l’insensatezza della mia esistenza, forse sono davvero un quore, posso amare, ma non mi è dato di essere amato, ed esprimersi parzialmente è come essere fatto a pezzi senza la consolazione di una fine reale, perché fisicamente, a parte i solchi, non si vede niente. Non si coglie lo strazio, non si direbbe che la mia contrazione sia diventata così faticosa, che il mio battere mi sia diventato tanto odioso.
Essendo un cuore poi mi rendevo conto di non possedere il vocabolario adeguato ad esprimere la mia apnea emotiva, per questo spesso mi servivo di fedeli alleate in grado mandare un messaggio all’esterno, affinché il dolore fosse manifesto e magari qualcuno si volgesse a placarlo: le lacrime, come mi avrebbero spiegato poi i miei amici cuori, stupiti della mia totale inesperienza. Il piangere, così si chiama questo rilascio di liquido dagli occhi, non è che mi recasse sollievo, ma mi serviva come valvola di sfogo in quei momenti in cui mi sembrava di stare sul punto di esplodere. Una volta imparato ad usarle mi riusciva difficile trattenerle: io soffrivo e il loro sgorgare oltre a sembrarmi terribilmente romantico, faceva sentire meno sola la mia sofferenza. Solitudine era un’altra parola che era entrata prepotentemente nella mia esistenza: mai come in questo periodo avevo colto la parzialità del mio battere. Era come se in maniera cadenzata, quasi musicale sentissi che il ritmo cardiaco saltasse un battito. E’ incredibile quanto possa diventare impossibile fare qualcosa che fino a poco fa sembrava automatica, non solo non riuscivo più a gioire di niente, ma peggio: le stesse cose che prima mi facevano stare bene ora erano per me fonte di estremo dolore, e cominciando quindi a dubitare della temporaneità di questa condizione avevo preso la mia decisione: non volevo più battere.
Mi ero però dovuto rendere presto conto che l’espressione “morire di crepacuore” era solo un inganno delle parole, per quanto lo volessi, da solo non avrei potuto porre fine alle mie sofferenze. Avevo un piano B, ma serviva la collaborazione degli altri organi. Avevo iniziato raccontando allo stomaco la condizione d’infelicità in cui versavo, facendo ben attenzione a non fargli capire che la mia liberazione avrebbe portato irrimediabilmente anche alla sua fine. Dopo avevo fatto due chiacchiere con i polmoni, quelli che mi erano sembrati più sensibili al mio dolore poiché in parte, mi avevano confessato, sembravano risentire anche loro di questo mio malessere. Avevo anche bussato alle porte dell’apparato locomotore, ma ogni volta mi ero sentito rispondere solo: ”Che possiamo mai fare noi, qua tutto dipende dal cervello!”
Ecco di nuovo di fronte a me il mio rivale, la lotta atavica a cui credevo non avremmo mai potuto sottrarci si sarebbe arricchita di una nuova battaglia. Questa volta però ero pronto a scendere a compromessi, perché senza il suo aiuto per me sarebbe stata la fine, o per meglio dire, senza di lui non avrei mai potuto raggiungere la fine che tanto desideravo.
Ero arrivato al suo cospetto pronto ad affrontare la peggiore delle umiliazioni: già lo vedevo vantarsi fiero della sua superiorità e ridere di me dall’alto del suo meccanismo perfettamente funzionante, ma quello che mi ero trovato davanti mi aveva lasciato al contrario senza parole. Aveva un aspetto terribile, sembrava invecchiato di cento anni e giurerei di aver letto comprensione sin dal primo reciproco sguardo. Le sue caratteristiche pieghe sembravano scavate nel profondo e con mia immensa sorpresa avevo notato dei solchi che scendevano più in profondità seguendo una curvatura specifica, che avrei riconosciuto tra mille perché se vi fosse stato versato del colore, avrei potuto leggervi un nome, il suo nome.
Solo allora avevo capito che non c’era alcuna rivalità: se io stavo male lui si stava consumando, se io mi contraevo senza sosta lui era lacerato da uno strumento affilato e logorante, il pensiero. Entrambi stavamo soccombendo a questo sentimento con l’unica differenza che il tormento della ragione a me era risparmiato. Ero pronto a morire perché vivevo solo di emozioni; al contrario lui viveva una lotta interna perché se da una parte era del tutto dominato dall’amore per lui, dall’altro vedeva anche con lucidità la sua triste condizione. In fondo era grazie alla sua forza che ancora stavo battendo. Avevo passato tutta la mia esistenza a ritenermi l’unico luogo di reale espressione dei sentimenti umani, ma mi sbagliavo: l’amore non si può limitare a uno spazio, non c’è confine che il tempo possa imporgli.
Si manifesta senza preavviso, tutto il corpo lo sente scorrere, alcuni organi lo lasciano esprimere, altri sembrano combatterlo, ma tutti ne subiamo la forza uscendone trasformati. Io non sono più quello di prima, mi sono sentito vivo per la prima volta seppur nel dolore e adesso, consapevole di questa nuova alleanza, posso solo sperare di poter cogliere un giorno la ricchezza di questo cambiamento.
…ah, se i cuori potessero parlare! Belissimol racconto Veronica. Ottima l’interpretazione del protagonista….
Veramente ben scritto. Si legge con… tutto il corpo. Brava!
Anch’io amo molto far parlare le “cose”. A volte sono delle insospettate ottime narratrici. Mi è piaciuto.