Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2013 “Sequestri in Aspromonte” di Cosimo Sframeli

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2013

I sequestri di persona a scopo d’estorsione ebbero inizio nel 1945, appena finita la guerra. Esordirono, in maniera rilevante, il 2 luglio 1963, con il sequestro dell’imprenditore reggino Ercole Versace. Anni d’indagini, chilometri di battute e di rastrellamenti tra i rovi dei boschi, il paziente lavoro di studio, dalla Costa Jonica (dove la ‘ndrangheta della Locride riciclava in immobili le ricchezze accumulate coi sequestri di persona) ai Piani dello Zillastro (dove il prezzo del riscatto veniva pagato), furono le tappe del patrimonio informativo e dell’esperienza maturata sul campo da inquirenti ed investigatori. I Carabinieri conoscevano nomi, parentele, legami di sangue e spirituali; sapevano dei contrasti e delle alleanze tra le ’ndrine che dai sequestri ricavavano i capitali necessari per altri affari leciti ed illeciti e, tra quelli illegali, soprattutto il traffico intercontinentale degli stupefacenti. Non c’era delitto che presentasse una più alta percentuale di allarme e paure come il sequestro di persona, proprio per la sua particolare durata temporale, molto lunga, e l’impiego di un apparato logistico molto articolato. Si apriva una “partita” contesa tra i rapitori e la famiglia del sequestrato. L’ostaggio, che doveva sopportare il peso della carcerazione, non era l’unica vittima. Sulla sua persona e sulle sue sofferenze si accentrava l’intero interesse emotivo dell’opinione pubblica che seguiva sul giornale, alla TV, alla radio, le varie fasi del rapimento, mentre la famiglia assisteva impotente, tempestata da richieste di denaro. La posta in gioco era la vita dell’ostaggio, divenuta merce di scambio. I parenti, dopo i vani tentativi di impietosire i sequestratori sullo stato di salute del familiare, raramente pagavano il riscatto richiesto in maniera immediata. I sequestratori utilizzavano crudelmente tali esitazioni: se l’ostaggio restava a lungo
nello stato di cattività la colpa era da addebitare ai parenti che, tirando a lungo le mediazioni, mostravano di amare il denaro più che il congiunto rapito. Una crudele strategia per esercitare pressioni sulla famiglia, in modo da accorciare i tempi e massimizzare i proventi del sequestro. Spietatamente le stesse argomentazioni costituivano il testo, straziante per i parenti, che i sequestrati, sotto dettatura, erano costretti a scrivere: “Io sottoscritto Scibilia Francesco rapito il 7-5-1974 rivolgo al vostro affinché questo mio scritto scuota l’opinione pubblica e induca i miei figli a fare di tutto per farmi riacquistare la libertà da circa due mesi mi trovo sequestrato e i miei figli pur sapendo le mie condizioni hanno fatto poco o nulla per riavermi io per loro avrei fatto l’impossibile. Dopo questa mia concessione fattami mi lasceranno poco da vivere. Assassini questi ma più di questi coloro che non vogliono pagare per salvarmi. La pretesa e ultima richiesta di denaro fatta ai miei figli non è impossibile pagarla ma il vile denaro è più caro della vita del proprio genitore. Spero proprio che dopo del vostro articolo i miei si daranno da fare con concretezza per salvarmi. Detto questo in attesa ringrazio la pubblicazione, e mi sottoscrivo Scibilia Francesco”. Questa lettera fu fatta recapitare al quotidiano “Gazzetta del Sud” di Messina nel luglio 1974. Scibilia fu rilasciato dopo 105 giorni di prigionia in Aspromonte. Dall’altro lato della barricata, per arginare il fenomeno dei sequestri, si istituì una speciale Squadra, composta da Magistrati e Carabinieri che, nell’interessarsi del fenomeno della ’ndrangheta, seppur con fatica e sacrifici, cominciò a far luce sull’attività criminale relativa alla gestione dei sequestri. Col tempo, con pazienza ed in silenzio, si ottennero rilevanti risultati sia sul piano investigativo che su quello giudiziario. Lo scontro più significativo ed importante combattuto in Aspromonte fu, senza dubbio, nel contendersi il “territorio”. Il fronte più debole. Bisognava liberare, e restituire allo Stato, i territori occupati. Nonostante si conoscessero gli organizzatori dei sequestri, i basisti e gli intermediari e si potessero ipotizzare, con buone probabilità indiziarie, i nomi degli esecutori, delle staffette e degli esattori, interi contingenti, adeguatamente addestrati e dislocati in Aspromonte, non avrebbero ottenuto risultati apprezzabili. A volte, i trasferimenti dei sequestrati in Aspromonte erano di una sconcertante facilità: Paul Getty III fu sbarcato sulla Costa Jonica da un motoscafo; Giuseppe D’Amico fu portato con una betoniera; Giuliano Ravizza, addirittura, fu caricato su un taxi. Destava impressione che persone sequestrate al Nord potessero essere impunemente trasportate attraverso l’intera penisola per essere custodite sulle montagne dell’Aspromonte, in luoghi impenetrabili, in rifugi naturali come grotte o costoni, o in buche appositamente scavate nel terreno. D’altronde, con l’ostaggio sotto la custodia dei carcerieri, era impossibile pianificarne la liberazione senza mettere in serio pericolo la sua stessa vita. Per lunghi mesi, erano i banditi a decidere le mosse e gli altri ad indugiare. Gli inquirenti si limitavano a consigliare ed assistere la famiglia, attendendo insieme ai parenti la liberazione dell’ostaggio. Infatti, solo a “sequestro chiuso” era possibile ritornare all’azione e tentare di assicurare alla giustizia i responsabili, nella frustante consapevolezza che decine di pregiudicati già arrestati per il reato di sequestro di persona, appena rimessi in libertà per vari motivi, ritornavano a vivere in montagna proseguendo la loro originaria attività criminale. La ’ndrangheta poteva contare, per la custodia dei prigionieri, sui latitanti nascosti tra le montagne e sulla gente del luogo, soprattutto giovani affiliati. Accadeva così che una quota dei proventi del riscatto entrasse nel circuito economico dei paesi aspromontani interessati, principalmente con la costruzione di case, contribuendo a favorire l’aspettativa economica di quelle contrade. In quelle realtà la ’ndrangheta riuscì a far apparire il sequestro come un affare i cui vantaggi potevano ricadere non solo sui mafiosi, ma anche sulla popolazione comune, inducendola a considerare il sequestro come una più equa ripartizione della ricchezza. Nonostante il pagamento del riscatto, non sempre il sequestrato ritornava a casa; poteva perdere la vita a causa di una dura prigionia o perché durante la stessa carcerazione aveva potuto strappare il passamontagna al suo carceriere, vederne il volto comportava, in genere, la morte dell’ostaggio. Probabilmente accadde così a Vincenzo Medici, sequestrato a Bianco (RC) nel 1989; Mirella Silocchi, sequestrata in provincia di Parma nel 1989; ad Adolfo Cartisano, sequestrato a Bovalino (RC) nel 1993. Tutti inghiottiti dall’Aspromonte. Quando invece il sequestro si concludeva con la liberazione, l’ostaggio veniva lasciato in un luogo diverso e lontano dal rifugio dove era stato custodito, per impedirne la localizzazione. La sua liberazione avveniva generalmente di notte, in aperta campagna, per consentire ai rapitori di allontanarsi facilmente. L’ostaggio riusciva a ritrovare l’orientamento solo alle prime luci del mattino quando, con l’aiuto di qualche passante, veniva condotto alla più vicina Caserma dei Carabinieri. Tra i tanti sequestri, uno dei più disumani fu quello del fotografo Lollò Cartisano, rapito a Bovalino il 22 luglio 1993, nei pressi della sua casa al mare. I sequestratori lo sorpresero con la moglie. La signora Mimma fu stordita con un colpo in fronte ed abbandonata, priva di sensi, mentre il marito veniva sequestrato. Lollò, mesi prima, si era opposto alle richieste di denaro formulategli ed aveva fatto arrestare i suoi estorsori. Nonostante il pagamento di una rata del riscatto, il fotografo di Bovalino non venne riconsegnato alla famiglia. A seguito di ciò, la Commissione Parlamentare Antimafia si recò a Bovalino dove i sequestri a scopo estorsivo erano giunti a quota diciotto. Dopo gli appelli della famiglia e le lettere scritte dalla figlia Deborah, e pubblicate sui quotidiani locali, nel 2003 giunse alla famiglia una missiva anonima di un carceriere che indicava il punto, ai piedi di Pietra Cappa, dove era stato sepolto il corpo di Lollò, imputando la morte ad un incidente di percorso. I funerali si svolsero a Bovalino il 3 agosto del 2003. Negli anni novanta, in coincidenza con il cambiamento della politica nazionale, le cosche della ’ndrangheta interruppero l’attività dei sequestri di persona, riducendola a qualche sporadico rapimento ad opera di famiglie che non avevano ancora realizzato il capitale necessario per entrare nel business della droga. L’ultimo sequestro di persona, in senso temporale, fu perpetrato a Milano, l’11 dicembre ’97. L’Anonima calabrese rapiva l’imprenditrice Alessandra Sgarella. Per la sua liberazione, avvenuta dopo nove mesi di prigionia, venne pagato un riscatto, non ufficiale, di circa 5 miliardi di lire. Fu tenuta in ostaggio dalla ‘ndrangheta, in Aspromonte, per 266 giorni, e, a cinque mesi dal rilascio, per ordine della Procura di Milano, furono assicurati alla Giustizia numerosi esponenti delle famiglie mafiose del triangolo Platì – San Luca – Natile di Careri. Dei circa 180 sequestri di persona a scopo d’estorsione eseguiti da calabresi (124 effettuati in Calabria e 56 in altre Regioni d’Italia; 18 perpetrati nella sola Bovalino) gli investigatori riuscirono a disegnare la mappa dei luoghi di prigionia ed individuarne gli autori, nonché a dimostrare che il perverso reato fu solo la prima attività criminale delle cosche, sempre più pericolose e proiettate in campo internazionale. Non a caso, gli stessi personaggi coinvolti nei sequestri furono poi figure di spicco in altre nuove inchieste, in altri insoliti scenari, in altri rinnovati affari illeciti. Alla gente onesta della Locride, a coloro che subivano impotenti mentre la loro terra e la loro cultura venivano martoriate dalle logiche criminali, non restava che tener conto del sermone di un saggio Sacerdote dell’Aspromonte che, nel celebrare Messa, inducendo alla pazienza i suoi parrocchiani, implorava il Signore con una frase di Tommaso Moro: “Dacci la forza di cambiare le cose che possiamo cambiare, la pazienza di sopportare quelle che non possiamo cambiare e l’intelligenza di capire quali siano le prime e quali le seconde”.
Vivere a Bovalino ti apre gli occhi molto presto, il contesto ti costringe ad assimilare,come fosse normale, la sequela di omicidi e sequestri di persona, l’atteggiarsi degli adulti in chiave aggressiva e prepotente. Siamo a Bovalino, alla fine degli anni settanta. La sera del 30 ottobre 1979, Alfredo sta rientrando a casa dopo aver lasciato il negozio di famiglia, una nota gioielleria nel centro storico del paese. Gli affari vanno bene, il padre muove i primi passi, e pare con incoraggianti risultati, anche nell’intricato mondo dell’imprenditoria edile. Alfredo è appena arrivato a casa, quando due uomini gli corrono minacciosamente incontro. Il ragazzino intuisce il pericolo e nota un’automobile che, con una manovra repentina ed in retromarcia, si dirige verso di lui; crede che sia qualcuno accorso in suo aiuto. È un’illusione che dura qualche secondo, è proprio su quella macchina che i due uomini, dopo averlo afferrato e sollevato di peso, lo caricano e lo portano via, incrociando l’autovettura della madre che sta rientrando a casa. Alfredo, a dispetto dei suoi 13 anni, con lucida maturità comprende immediatamente di essere stato sequestrato. Questa volta è toccato a lui. Alfredo viene subito incappucciato e, con una prontezza che non tradisce la sua giovane età, alla domanda chi fosse, risponde con il nome di un compagno. Ribadisce ancora questa versione nell’ingenua speranza di essere rilasciato dai sequestratori, che però non si lasciano ingannare. Giunto, dopo un tempo indefinito, in aperta campagna e costretto a far strada a piedi, Alfredo riesce comunque ad intravedere l’alone della luna che filtra attraverso il cappuccio che ancora gli copre il capo. È scortato dagli uomini che lo hanno catturato e, cercando di sondare il terreno e forse per mostrare di non aver paura, commenta con i sequestratori la circostanza che quella sera ci sia una bella luna piena. I rapitori si innervosiscono e gli calano in faccia un altro cappuccio che oscura del tutto i tentativi di Alfredo di percepire i particolari di quanto sta accadendo intorno a lui. Questo primo confronto con i suoi futuri carcerieri è utile ad Alfredo per ideare la propria strategia di adeguamento e resistenza. Trascorrerà quegli interminabili quattro mesi in rifugi di fortuna, costruiti con due assi ed un portante di legno ricoperti di fogliame, dalle ridotte dimensioni di circa due metri per un metro e mezzo, sempre monitorato e, nella notte, affiancato da due dei carcerieri che gli dormono a fianco. Lo spazio ridotto costringe tutti a restare reciprocamente a contatto, impedendo qualsiasi movimento. Alfredo intuisce che se rispetterà le regole, meriterà fiducia ed un pò di autonomia. I sequestratori vengono quindi classificati e distinti da Alfredo in persone con cui si può avere a che fare (e magari scambiare qualche parola) e quelle da evitare. Ad ognuno di essi Alfredo attribuisce un nome, saranno Marco, Nessuno, Ulisse ed altri nomi reperiti nella memoria, tra le sue poche esperienze di vita. A suo modo rispetta e cerca di farsi rispettare. I sequestratori lo lasciano a viso scoperto e sono loro stessi a mettersi un passamontagna per non farsi riconoscere. Alfredo inizia così un legame molto particolare con i suoi carcerieri cercando di emularne le fattezze e gli atteggiamenti. Mostra predisposizione e passione per le armi, ascolta di buon grado i discorsi sull’uomo, quello vero, “u Cristianu”! Come deve comportarsi con le donne, in famiglia, nella società; l’uomo che non deve avere paura di nulla, l’uomo invincibile. E così comincia a sentirsi Alfredo. Per restare in vita. Lo pervade un senso di onnipotenza. Non ha paura e non teme per la propria vita. L’unica trepidazione sarà quella provata in occasione di qualche avvicinamento dei Carabinieri. L’elicottero che sorvola la zona, forse sono vicini all’obiettivo, li hanno localizzati! Solo in quelle occasioni Alfredo viene legato ed incappucciato ed osservando quegli uomini appostati, con i fucili in braccio, pronti a vendere cara la pelle e ad uccidere chiunque si avvicini, spera di non essere trovato; sente il terrore invadergli la mente, scuotere il corpo, intuendo che un conflitto a fuoco sarebbe pericoloso per la sua incolumità. Questa nuova visione di sé stesso, questa infantile immedesimazione nei sequestratori, alcuni, l’illusione e la ricerca di essere accettato e rispettato, di condividere quel codice di condotta, indicano la via di fuga che Alfredo intraprende per evadere da quella situazione più grande di lui. Mostrarsi debole, tremante, terrorizzato, contribuirebbe ad innervosire i sequestratori e qualsiasi colpo di testa, tentativo di resistenza o reazione, scatenerebbe dure punizioni corporali. Alfredo si immedesima nel ruolo. Diventa dapprima il sequestrato modello, mansueto e docile, poi affine ai suoi stessi rapitori, finendo con l’assumerne gli attributi funzionali, imitandone le modalità aggressive (in una occasione, al passaggio di alcuni cinghiali, si vanta con i sequestratori di poterne uccidere uno, armato solo di coltello) e comportamentali (maneggia e gioca con le armi dei sequestratori). Alfredo assimila così l’esperienza angosciante provata ed il meccanismo di difesa utilizzato contribuisce in modo determinate alla formazione del ragazzino. Si illude possente, vigoroso, potente ed elimina così il timore, l’ansia provocata da quella condizione. E soprattutto si sente alla pari con i suoi carcerieri. Pagato il riscatto, si salutano cordialmente ed uno di essi regala ad Alfredo duecentomila lire di quel denaro per comprarsi un fucile. Quando viene rilasciato Alfredo non è disorientato né smarrito, ma consapevole della strada da percorrere per tornare a casa (non sente neanche il bisogno di chiedere aiuto). Sulla via del ritorno, incontra due cani randagi che gli ringhiano contro. Non ne è intimorito e si duole soltanto di non avere armi con sé; è comunque sicuro di riuscire, in caso di attacco, ad abbatterli, anche a mani nude. Alfredo torna a casa il 23 febbraio del 1980 e, con il denaro donatogli dai sequestratori, comprerà il fucile che tanto aveva desiderato.
Il Brigadiere Carmine TRIPODI, venticinque anni, di Castel Ruggero, piccola frazione di Torre Orsaia (Salerno), fu ucciso a colpi di lupara, in un agguato mafioso, a San Luca, il 6 febbraio del 1985. Ad un anno della sua morte, fu decorato di Medaglia d’Oro al Valor Militare alla Memoria. Comandante della Stazione dei Carabinieri di San Luca, in quegli anni scuri e violenti, fu impegnato ad arginare l’ondata dei sequestri di persona sui crinali dell’Aspromonte. Riuscì ad assicurare alla giustizia i rapitori dell’ingegnere napoletano Carlo DE FEO, titolare di un’avviata industria nel settore delle telecomunicazioni, tenuto prigioniero per 395 giorni su quelle montagne. Quattro miliardi e quattrocento milioni di lire fu il riscatto pagato. DE FEO, una volta libero, decise di collaborare alle indagini e, insieme al G.I. di Napoli PALMERI, andò a San Luca. Lì, Tripodi e i suoi Carabinieri, con l’aiuto dell’ex rapito, riuscirono a localizzare otto prigioni, tra le impervie alture e anfratti dello Scapparrone e dello Zillastro, di Monte Castello, di Pietra Longa, di Pietra Cappa, monoliti che giganteggiano sull’Aspromonte orientale. Verso le 21.00 l’agguato, a San Luca, in una doppia curva. Carmine TRIPODI cadde sotto il piombo dei killers stringendo nella mano destra la sua pistola d’ordinanza con la quale, in una disperata quanto inutile difesa, sparò ripetutamente contro i suoi assassini cinque colpi, colpendone uno. Fu trovato dai suoi Carabinieri, che scendevano verso la vallata del Buonamico, piegato sul sedile della propria autovettura. L’omicidio del Brigadiere TRIPODI fu organizzato e portato a termine dal crimine della ‘ndrangheta per dare una dimostrazione del proprio “prestigio” nel momento in cui il valoroso sottufficiale, elevata espressione dello Stato nel paese, aveva chiuso con le investigazioni sulle cosche locali ed era già trasferito a Santa Caterina sullo Jonio, dove lo aspettavano per lunedì 11 febbraio. Luciana, ventuno anni, fidanzata a Carmine, rimase un giorno aggrappata alla bara del giovane Brigadiere che aveva conosciuto quattro anni prima a Bianco. Il primo e un grande amore, le nozze fissate, i mobili acquistati, la casa pronta per essere vissuta a Santa Caterina sullo Jonio. Mancava soltanto il matrimonio che era stato fissato per il successivo mese di marzo. Al polso continua a portare l’orologio del fidanzato. Sul luogo dell’agguato, fece costruire una lapide con una fotografia. Scrisse lei le parole incise sulla lastra di marmo.
La lotta si faceva cruenta, quello che sembrava un semplice drappello di uomini, si era ben presto trasformato in una formidabile arma investigativa. I sequestrati cominciavano a collaborare alle indagini, inquirenti ed investigatori riuscivano ad individuare prigioni di uomini e covi di latitanti, assicurando alla giustizia spietati criminali e loro fiancheggiatori. Ma senza precedenti era la strategia di contrasto del pool antimafia, formatosi tra gli Inquirenti e la Squadra di Polizia Giudiziaria dei Carabinieri di Locri, che riuscì a staccarsi dalla logica del singolo crimine collocandolo nella struttura associativa, compiendo altresì un inedito investigativo, individuando e seguendo i flussi di denaro ricavati dai sequestri che, quando non si perdevano in conti esteri o in attività di riciclaggio, alimentavano il redditizio traffico di sostanze stupefacenti. La ’ndrangheta, che intuisce la pericolosità e l’incisività della manovra repressiva, alzava la testa ed osservava i propri nemici. Erano pochi e ben visibili, talmente pochi che ognuno di essi rappresentava una fetta della sovranità dello Stato in terra di Calabria, una Istituzione. È in tale contesto che quegli uomini diventano simboli, personificando la ricerca di giustizia, la voglia di riscatto della gente onesta, la reazione dello Stato per la liberazione del più importante degli ostaggi: il popolo calabrese. Ma il simbolo non è solo punto di riferimento di coloro che in esso si identificano, diventa altresì bersaglio per coloro che osteggiano il significato che lo stesso rappresenta. Tanti sono i motivi che possono aver spinto la ’ndrangheta ad uccidere il Brigadiere Carmine Tripodi, ma tutti confluiscono in un’unica causa: la ’ndrangheta voleva arrestare il fiume investigativo ormai in piena e senza controllo. La ’ndrangheta non uccide il Brigadiere Carmine Tripodi soltanto per tutti i suoi sforzi e successi che in pochi anni lo hanno visto protagonista nelle indagini per il sequestro di Giuliano Ravizza, dell’ingegnere Carlo De Feo e nella cattura di latitanti, la ‘ndrangheta uccide il Comandante della Stazione Carabinieri di San Luca, colpendo proprio l’Arma, perché – in quel paese dove tutto ha avuto origine – gli ’ndranghetisti hanno da sempre riconosciuto nel Carabiniere il loro naturale antagonista. Uomo, Carabiniere e simbolo si fondono, non si può abbattere l’uno senza annientare il resto.
E’ come averli intravisti, dispersi nelle terre d’Aspromonte, indaffarati e stanchi ma pieni di infinite riserve di energia ed entusiasmo, tutti intenti a capitalizzare le poche risorse a disposizione, a lottare eroicamente contro un fenomeno che, da lì a qualche anno, avrebbe raggiunto dimensioni gigantesche. C’è anche Carmine Tripodi, giovane Brigadiere e Comandante della Stazione di San Luca, guidare instancabilmente i propri uomini in battute e rastrellamenti, in mimetica e armi in pugno. A lottare contro uno spietato nemico, senza timore alcuno e, pieno di speranze, costruire il proprio futuro accanto a Luciana, sua fidanzata da anni. A reagire, sparare, difendersi, nell’ultimo scontro della sua breve vita e, in ultimo, sopraffatto dalla morte. Infine, tra i pianti dei genitori, di Luciana, dei militari, della gente onesta che aveva creduto, insieme e grazie a lui, che le cose potessero cambiare ed infine, tornare a casa, con una medaglia d’oro al valor militare, per riposare tra i ricordi ed il dolore dei suoi cari e della sua terra.

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