Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Racconti nella Rete 2009 “L’ascensore” di Alessandra Ponticelli Conti

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2009

    Nell’ascensore erano in due: una madre e suo figlio. Non sapevano perché si trovavano lì. Non ricordavano nulla di quello che era accaduto; entrambi, però, avvertivano una strana sensazione, una grande leggerezza, una levità assoluta, l’impressione di non possedere più niente, nemmeno il loro corpo. Eppure tutto sembrava normale: “Mamma!”, disse sconvolto il ragazzo, “le mie mani! Guarda, guarda, sembrano ali di farfalla! E le gambe, è come se si fossero svuotate, e i miei occhi, ti scongiuro, dimmi, sono ancora al loro posto? Dimmelo! Dimmelo! Ti prego”. La donna aveva le stesse percezioni e col pensiero, solo con quello, si rese conto di essere impaurita, terribilmente scossa e in preda ad un attacco di panico. Ma il suo cuore era immobile; né una palpitazione, né un tremore, nessun rivolo di sudore.

      Presumibilmente l’aria cominciava a scarseggiare, ma, ciononostante, doveva fare un discreto freddo, dato che sul soffitto si erano formati grandi ghiaccioli azzurrognoli che crescevano a vista d’occhio. Stalattiti coniche e colonnari, sì, come quelle che aveva visto tante volte molti, molti anni prima, con l’immaginazione, quando, ancora adolescente, ascoltava una canzone di Battisti della quale in quel momento non riusciva più a ricordare il titolo. Il giovane, infuriato, urlò:” Allora, ti decidi o no  a rispondere?”. La donna provò a rilassarsi, ma tutto restò tremendamente uguale. “Mamma! Mamma! Sto piangendo eppure nei miei occhi non ci sono lacrime! Per favore, rispondimi, sono ancora al loro posto i miei maledetti occhi? Guardami, guardami, per Dio!”. La donna non vide niente di diverso se non il fatto che fossero completamente asciutti. “Va tutto bene”, disse con tono pacato, presa dal timore di spaventarlo.

    “Come siamo capitati qui?”, continuò il ragazzo “non ricordo più niente; né da dove veniamo, né chi siamo. So solo che tu sei la mia mamma. Dove stiamo andando? E chi ci ha chiusi qui dentro?”. In realtà le porte erano aperte, ma una muraglia incolore ostacolava il passaggio. La donna fu presa da un’improvvisa voglia di piangere, di gridare, di cominciare a battere la testa contro una di quelle quattro pareti che separavano lei e la sua creatura dal mondo, da quel mondo infame che da tempo le era diventato insopportabile, ma che mai come ora desiderava ritrovare. Tentò di stringere a sé il suo amore, l’unico grande amore della sua vita, quel tesoro incommensurabile al quale era riuscita a dare vita. Ma le mani le scivolavano via, prendevano un’altra direzione, per poi riassumere la posizione iniziale. Doveva a qualunque costo tirarlo fuori di lì, non poteva deluderlo. Mai, prima di allora, era successo. Lo aveva curato come un fiore delicato, lo aveva sorretto nei momenti di crisi, lo aveva sostenuto quando il vento soffiava forte, quando mulinava imbizzarrito e portava con sé tutto quello che incontrava; quando, con il suo impeto, sembrava volesse cancellare ogni moto dell’animo. E ora, cosa avrebbe fatto?

     Ad un tratto si accorse che da una punta di ghiaccio cominciavano a scendere con ritmo lento piccole gocce tondeggianti, dense e corpose. Voltò gli occhi e le vide poggiarsi con grande grazia e sincronia su uno dei  tasti di comando. L’ascensore cominciò faticosamente a muoversi per poi trovare un andamento costante. Flebili luci si accesero sulla mascherina, ad indicare che la cabina stava salendo. Uno, due, tre … fino a toccare con una rapidità inaudita il settimo piano. La donna, disperata, si lanciò in avanti e con le labbra protese verso quelle fosforescenze che si rincorrevano provò invano a premere il simbolo TERRA. Come un missile impazzito quella gabbia di lamiera prese a scalare il cielo ad una velocità impressionante: dieci, undici, dodici … diciotto piani bruciati in un istante, in un batter d’occhio. Lo sguardo terrorizzato della mamma s’incollò a quello del figlio. Con fissità, lui impietrito la osservava, ammutolito, e lei, come accecata, lo vide in tutta la sua bellezza e paradossalmente pensò che niente e nessuno avrebbe potuto mai cancellare quella straordinaria armonia di forme. Nella sua testa risuonavano lontane, lunghe cantilene di ninna nanna, voci narranti di fiabe, che in punta di piedi spengevano con passi leggeri pianti disperati di bambino.

     Di colpo un bagliore si stagliò in alto, immensi raggi luminosi e guizzi di luce scintillanti aprirono vasti orizzonti di cielo e, senza avvertire alcun dolore, i due corpi si trovarono catapultati oltre l’infinito. Il giovane aprì gli occhi; la sua mamma era lì, accanto a lui. Sconfinate distese di verde, ampi terrazzamenti fioriti, e una tranquillità assoluta dominavano quel luogo dove il sole batteva incessantemente senza bruciare. I due si sorrisero e, finalmente sereni, si strinsero in un abbraccio perenne.

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1 commento »

  1. Davvero una grande emozione leggere questa storia. Le ultime righe del racconto sciolgono la tensione fino a lì accumulata e aprono il cuore al lettore. Non so se sarà un ascensore a condurci lontano, ma di sicuro il tuo racconto parte da un punto certo: non è stato tutto inutile, da qualche parte andremo e sarò bellissimo. Per assaporare quelle righe finali avrei potuto anche impegnarmi a leggere un intero romanzo, perché valgono tutto il tempo impiegato.
    La forma è chiara e precisa pur svolgeno un tema tutt’altro che facile in maniera assolutamente originale.
    Complimenti e in bocca al lupo.
    Alessandro Colosimo (ZENONE)

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