Premio Racconti nella Rete 2013 “Boogie-Woogie” di Graziano Zambarda
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2013Se non era vocazione, fare il portiere, da ragazzi, era una condanna. In porta ci finiva l’ultimo arrivato, lo scarto; o quello che non poteva rischiare le scarpe. In cambio ci metteva il naso, e altro. Buttarsi fra le nostre, di scarpe, buone per ogni stagione, non era cosa per pavidi.
Il campetto da calcio era un triangolo sghembo. Rubato un po’ alla campagna, un po’ alla piazza. Di tutti e di nessuno. Impossibile metterci due porte. Si giocava con una sola, dipinta a calce sul muro di cinta. Una squadra a difendersi, l’altra all’attacco, in democratica alternanza. Di portieri, quindi, ne bastava uno.
– In porta ci sto io!
– E vai!!!!
Giuliano ci tolse d’impiccio, quell’estate. Guadagnando in gratitudine.
Quasi si giustificò: – mi piace usar le mani – disse. – E poi…, da qui vedo meglio.
Vedo che?…
Il terrazzo, tenuto in ombra da un pergolato di glicine, si allungava sul campetto come un pulpito. Era lì da sempre. Le ragazze dall’inizio dell’estate. Ma che fosse boogie-woogie quello che loro ci ballavano, lì sopra, ancora non lo sapevamo. A noi sembrava più che altro un lavorio di gambe e incrociar di braccia, un lasciar e prendersi di corpi; il tutto accompagnato da uno svolazzare di gonne e code di cavallo. Roba da villeggianti, si pensava; da “beca-aria”: così li chiamavamo. Si diceva, infatti, che la nostra aria fosse la migliore, nonostante quell’odorino che veniva giù dalla stalla dei Santi. Ai “beca-aria” piaceva anche quello, pensa te; faceva tanto “sapore locale”, dicevano.
La musica era frenetica, lo sentivamo anche noi. Incalzante. Metteva addosso voglia di muoversi; sembrava scuotere i corpi delle ragazze come una scossa elettrica, per poi cascarci addosso. Una grandinata di chicchi d’uva che toccavano terra schioccando.
– Quelle puledrine là sopra andrebbero domate come dico io! – Era Felice a pensarla così.
Dopo la consegna del latte al caseificio, veniva da noi. E stava lì a cavalcioni del muro che chiudeva il campetto a godersi la sua libertà.
Gli era concesso dire qualsiasi cosa: il nome che portava garantiva per lui. Un salvacondotto, la licenza a spararle come più gli piaceva. Felice spalava letame tutti i giorni nella stalla dei Santi. Carreggiava fieno e mungeva mucche, prima dell’alba e del tramonto.
Felice si sedeva sul muro, dondolava le gambe, guardava e commentava. Un’occhiata al campo, una al terrazzo.
– So io come si strigliano le puledre. Una mano al dritto, una al rovescio. E via andare.
– Tirar calci è da bestie – sentenziavano le madri. A noi pareva di no. Era energia, invenzione, sfida. Imparare a vincere e a perdere, allo stesso modo. Non curarsi delle sbucciature ai ginocchi, arsura di labbra e pulsare di sangue. E gioia. Il sudore ci allargava pori e sensi.
L’estate aveva il profumo del cuoio e della polvere, ed il ritmo del boogie-woogie che credevamo un ballo per sole ragazze. Il profumo del glicine era troppo delicato perché lo avvertissimo.
Quando le ragazze iniziavano a darci dentro con ballo, Giuliano prendeva più gol del solito. Non c’era più gusto. Il gioco s’ammosciava. Ma c’era poco da fare: la porta era in faccia al terrazzo. Tutto quello svolazzare di gonne e sobbalzare di corpi gli rubava l’attenzione. I gol non erano più cosa nostra, dipendevano dal boogie-woogie.
– Buuh!… – gli urlava Felice. – Quella l’avrebbe presa anche la Rossina, col culo!
Aveva più o meno una decina d’anni più di noi, Felice. E aveva già fatto il servizio militare: – una pacchia ragazzi miei, con fiocchi e controfiocchi!- aveva detto al ritorno. – Altro che spalare il letame della Rossina e compagnia bella!
Quella primavera passò il Giro d’Italia, lì da noi. Colori e frusciar di raggi. Essere al centro del mondo per un giorno. A fianco del nostro campetto, i girini avevano preso la strada che si torceva come una biscia d’acqua andando su arcigna a scavalcare il monte, verso nord.
Gimondi, il Felice per eccellenza, era l’eroe di tutti, ragazzi e uomini fatti. Parlava come uno di qui, di gola e con il naso chiuso. La prese di petto, la nostra salita senza asfalto che sembrava puntare direttamente fra le nubi. E senza mai girarsi, benché “il cannibale”, il Merckx, gli avesse in pratica piantato i denti nel tubolare posteriore della bici con l’intenzione di non mollarlo mai, venisse giù il mondo. E sì che la strada tirava all’in su da far venire le vertigini, a girarsi.
E il mondo non venne giù, quel giorno.
Felice, il nostro, raccontò d’essersi fatto i cinque chilometri di salita tutti di corsa, sempre a fianco dell’altro Felice, il Gimondi.
– Dovevate vederlo: una roccia. Una locomotiva. Si masticava i denti come la Rossina. Le gambe stantuffavano, dài, dài, dài, senza perdere un colpo. E intanto quell’altro, il belga, sempre dietro, buttava sudore come una fontana.
Al momento di svalicare il Gimondi gli avrebbe detto:
– Grazie per la compagnia. Sei un amico. Senza di te avrei mollato. Hai un bicchiere di rosso pagato giù al bar. Dì che passo io.
Perché non credergli. Il Gimondi non era tipo da parlare tanto per asciugare l’umido in bocca.
Quel bicchiere di vino rosso bevuto alla salute del Felice nazionale, trasformò una delle balle del Felice nostrano in leggenda.
– Hai un bicchiere di rosso pagato giù al bar…
Già! Non era da tutti poterlo raccontare.
Le ragazze sul terrazzo erano una la copia dell’altra: sembrano gemelle. Stessi capelli chiari come miele di acacia, stessa pelle vellutata. Ridevano e cantavano, e ballavano, a coppie, in un continuo avvinghiarsi e allontanarsi, e riprendersi. Noi tiravamo calci al pallone fingendo di non badarci. Tutto cambiò un pomeriggio. Succede così, i cambiamenti avvengono all’improvviso; quasi sempre inattesi. Giuliano, il portiere, se l’era svignata. Felice balzò giù dal muretto.
– Avete bisogno di me!- disse tirando su il mento. – Vi faccio vedere io come si fa a far sbiancare l’Albertosi!
Giuliano, servendosi del glicine, s’era arrampicato sul terrazzo, rapido come uno scoiattolo. E se ne stava lassù, petto in fuori, circondato dalle ragazze. E non solo non mostrava l’imbarazzo che avremmo immaginato, ma le faceva addirittura divertire. E loro, meraviglia più meraviglia, se lo disputavano, facendo a gara a insegnargli i passi di quel ballo che credevamo per sole femmine.
– Volete tirare in porta!- ci urlò Felice, piegato nella posa dell’Albertosi para-rigori.
Benché ci fossimo fermati, i nostri cuori andavano di corsa, facendo a gara con il ritmo della musica che scendeva dal terrazzo. Lì sopra, dondolava il culo anche Giuliano, e prendeva per i fianchi le ragazze che inarcando il corpo facevano roteare le code di cavallo.
– Cos’è? vi siete dati tutti al ballo?
Felice se ne tornò a cavalcioni del muretto, deluso.
-Mi sa che c’è più gusto a spalare il letame della Rossina e compagnia bella.
– Lo chiamano bughi, due volte – fu la prima cosa che disse Giuliano, una volta sceso.
– E che vuol dire?
Era rosso in viso, il sangue gli pulsava nelle tempie. Lanciava occhiate verso il terrazzo, sicuro di tornarci.
– S’impara in un niente.
Di tempo per memorizzarne i passi ne aveva avuto. Ogni gol preso era una mossa impressa nelle sue retine.
– Ma che ti hanno detto? – fu la nostra domanda.
– Dài, racconta…
– Che sono un tipo…
– Che?…
– Un tipo.
– Ma dài!… Un tipo di che?…
– E mi hanno palpato qui – disse toccandosi il braccio fra gomito e spalla, dove aveva dei rigonfiamenti duri come il sasso. Gli era già capitato più volte d’andare a spaccare il marmo rosa della cava dove lavorava il padre.
– E un’altra, me ne hanno detta: che sono interessante.
– Interessante!?… Che modo di parlare è?…
– Ma loro, come sono?
– Lisce. E hanno le unghie colorate, anche nei piedi. E profumano.
– Profumano? Ma va’ là!… E di che sanno?
Si strinse nelle spalle.
– Boh! Un odore che pare quello dei prati fioriti.
E non finiva lì!
– Mentre si balla le puoi anche toccare.
– Ma dài!… E dove?
– Qui, sui fianchi, e qui… Sembrano anguille.
Teneva le mani staccate dal corpo, sacre, per non contaminarle con la polvere che aveva sui pantaloni. Mani che avevano sfiorato pelle profumata.
– E…, e com’è?
– Boh! Quello che so è che viene voglia di rifarlo.
– Mi sa che è meglio che menar calci – mormorò Felice dal muretto. – E quelle puledrine lassù meglio della Rossina e compagnia bella. Ah, se solo sapessero quello che mi ha detto il Gimondi…
La musica si faceva più languida, prima di spegnersi. Le ragazze si affacciavano al terrazzo trattenendo le gonne che il vento pareva voler rapire. Parlottavano e ridevano. E guardavano giù, invitanti.
Il boogie-woogie attraversò la nostra estate, cambiandola. Per sempre. Aprendo squarci nel nostro orizzonte. Sarebbe toccato anche a noi guardare il campetto da sopra il terrazzo. Era scritto. E conoscere altri profumi oltre a quello del cuoio e della polvere. Quello del glicine sarebbe stato solo un anticipo.
Bella Graziano! Leggendo il tuo racconto all’inizio ho sorriso poi, piano piano ho iniziato a ridere e a condividere tutte le sensazioni di quei ragazzi ,ma dal punto di vista del balcone. Ho riletto e (ahimè …rivissuto perchè c’ero)gli anni ’70 (ma forse anche un po’ la fine dei ’60) e la vita di allora della provincia lombarda di mezza montagna… Ci ho azzeccato? Sensazioni e scoperte dei ragazzi di allora descritte molto bene, col gergo del tempo e del posto, in modo fluido e divertente con brevi incursioni storiche e ….pittoriche!
“Quella primavera passò il Giro d’Italia, lì da noi. Colori e frusciar di raggi. Essere al centro del mondo per un giorno. A fianco del nostro campetto, i girini avevano preso la strada che si torceva come una biscia d’acqua andando su arcigna a scavalcare il monte, verso nord.” Lasciatelo dire, è un gran bello scrivere! Complimeti! Merita di essere letto e riletto! con una lacrimuccia per chi sa di cosa si parla!
…nostalgico racconto…profumi, sapori, voglia di divertirsi sano che oggi…ho paura si conosce poco! Bello Graziano!
Graziano…meraviglioso.! Questo racconto è semplicemente ME-RA-VI-GLIO-SO!
Leggendo sono stata catapultata su quel campetto, ho respirato l’odore del cuoio e la polvere, e sono passata in mezzo a quei ragazzi che giocavano e sudavano; ho sentito la musica e ho visto dal basso le gonne svolazzanti delle ragazze che ballavano sulla terrazza e i loro capelli “come il miele d’acacia”, e Gimondi in bici, e…tutto!
Ho visto, sentito, toccato, respirato tutto, assolutamente TUTTO! Non c’è che dire: scrivi da Dio! Ed è sempre un gran piacere leggerti! GRAZIE!!!
In scioltezza e in freschezza una raccontata godutissima. Compreso il grande Gimondi . Lo trovo delizioso.
Ti dovrei fare i complimenti… mi scuso, nessuna critica. Che scrivere sapiente, bello, pulito e ordinato. Si dice di un brano?
Hai tratteggiato perfettamente l’atmosfera di QUEI TEMPI… anche chi non li ha vissuti può farci un salto e magari tirare due calci al pallone. Piacevolissima lettura! Auguri!
Contento che a voi sia piaciuto. Ringrazio più di quanto sembri.
Alla signora Costantini ho già spedito un vaglia. Accordo rispettato, quindi.
Si! E’ davvero un racconto molto piacevole, dove i ricordi sparsi si mischiano sapientemente ed il profumo della pelle delle ragazze rimane nell’aria tutt’attorno a chi legge e probabilmente e’ ancora nelle narici di chi scrive.
L’evocazione storica e’ freschissima, impressionata come una foto nel magnesio, con pochi e sapienti tratti di penna, cosa che solo gli introversi sanno fare , ‘sempre con la testa piena di musica, di arte e grandi amori.’
Beh, dopo tutti sti’ apprezzamenti qualche critica ci vorrebbe! Me ne prenderò l’onere, mio malgrado . E guarda che Anche a me avrebbe fatto comodo un vaglia come alla Costantini (questo mese ho pure il mutuo da pagare!)
Intanto quel glicine e’ un po’ come il prezzemolo, no?? E poi c’e un falso storico: quando gareggiavano Merckx e Gimondi avevi gia’ smesso di giocare a pallone e di ballare il boogie-boogie! Avevi già fatto il militare da un pezzo! 😉
Ho letto solo ora il tuo racconto. Bellissimo! E’ un affresco che sa descrivere e far rivivere le senzazioni, le palpitazioni e i profumi di un periodo che è stato magico per tanti di noi. La tua prosa è leggera e coinvolgente. Davvero una piacevole lettura.