Premio Racconti nella Rete 2013 “Delocalizzazione” di Mario Michele Nejrotti
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2013Il Presidio
Giorgio, tanti capelli, sempre spettinati, grigio dove è giusto, gli occhi illuminati dalla luce del fuoco, dentro al verde dell’iride: rabbia, delusione, voglia di giustizia.
Operaio specializzato di 42 anni, la sua azienda è stata comprata da una multinazionale, che l’ha inserita in un programma di riorganizzazione.
In poche parole l’azienda, che ha un numero elevato di commesse per i suoi prodotti, è stata chiusa e lui con gli altri è in cassa integrazione da tre mesi.
Ancora più in breve, la multinazionale preferisce chiudere un pericoloso concorrente, comprando il vecchio padrone: brava persona, che lo ha sempre trattato bene. Ma non ha figli e sua moglie se ne è andata da dieci anni con un altro e lo sta prosciugando con gli alimenti. Perciò, brava persona o no, deve pensare agli affari suoi e non è mica il papà degli oltre cento impiegati e operai della sua azienda, che era anche del padre e prima di lui del nonno.
Giorgio pensa tutto questo seduto davanti al bidone pieno di legna che brucia, sprigionando un fumo troppo denso, nel presidio che ormai da 48 giorni stanno gestendo davanti ai cancelli, perché non arrivi la solita azienda specializzata a smontare i macchinari ed a lasciare tutti in mutande con più niente da difendere. È venuto il TG3, anche qualche politico locale. Sono venuti anche gli studenti del Liceo della cittadina, a solidarizzare per la nostra situazione. Si vede benissimo, poveri ragazzi, che hanno paura per loro, per il loro futuro. Che valore ha il lavoro, il prodotto, la qualità? Tutte stupidaggini, solo i soldi, il dividendo, la finanza.
E noi andiamo avanti a occupare la fabbrica: polenta, vino, canti, la cassa integrazione, l’appoggio dei sindacati. Non tutti certo, ma meglio che niente.
Poi è arrivata anche quella trasmissione nazionale, quando Luigi si è incatenato nel cestello della gru e non voleva più scendere. La trasmissione è andata bene, grande share, poi Luigi è sceso, lo ha convinto il Signor Questore, anche perché c’era quella vecchia faccenda, di quando aveva rotto il vetro del lunotto posteriore della macchina del Direttore, in un’altra agitazione per il contratto, e lì dietro, disgrazia vuole, c’era la bambina rannicchiata, che quel giorno non era andata a scuola per lo sciopero delle maestre, tutte precarie.
E così una scheggia di vetro l’ha tagliata, proprio sopra l’occhio, niente di grave. Il Direttore è stato comprensivo e ha ritirato la denuncia. Luigi di bambine ne ha tre, che vanno a scuola con quella del Direttore. Ma adesso, lui non può esporsi più di tanto, lui è un po’ sovversivo e suo zio era un comunista, uno di quelli che ogni tre per due negli anni settanta andavano a Mosca. Qui lo sanno tutti, anche perché allora avevamo tre asili e due cooperative agricole, che andavano per la maggiore. Adesso è tutto in malora e l’asilo ha le liste d’attesa.
E così Luigi è sceso e quella trasmissione non è più uscita, come aveva promesso, con la rubrica “Come è andata a finire” e così io penso che nessuno si ricorda più né di Luigi, né di noi, che di problemi ce ne sono sempre di più per tutti.
Giorgio lo sa che è una questione di tempo. Loro presto saranno licenziati e la fabbrica smembrata prima e fatta sparire poi, non c’è niente da fare: è il mercato, è la storia. In Italia non siamo competitivi, figurati, noi operai non vogliamo essere sfruttati, vogliamo lavorare otto ore al giorno, decidere liberamente se vogliamo fare gli straordinari o no. Vogliamo persino le ferie e la pensione decente, vogliamo le commissioni sindacali all’interno delle fabbriche, non è come in Cina, che loro sì, sanno lavorare, lavorare, lavorare e basta, si accontentano di poco, che è sempre meglio che morire di fame. Noi operai Italiani, no, noi abbiamo la nostra storia di lotte sociali, con le nostre vittorie e le nostre sconfitte. Abbiamo sempre lottato contro i padroni, che facevano il loro mestiere di padroni e cercavano di guadagnare più soldi possibile sul nostro lavoro. Ma anche loro sapevano che la corda non la si poteva tirare oltre tanto, se no era sciopero e i soldi andavano in fumo. E quindi era meglio darci qualche cosa di più, che noi lavoravamo anche più volentieri e producevamo di più. Era una lotta, dura, lo dicono tutti i morti degli ultimi cent’anni, ma tutti sapevano che parte recitavano e c’era rispetto, non tanto per noi, ma un po’ ce n’era, e qualche volta si capiva che il padrone investiva per il lavoro e lo sviluppo e non solo per i suoi soldi.
Adesso come provi a lottare, loro dislocano e le regole sono cambiate, meglio sfruttare un altro popolo, più indietro, senza storia sociale, senza cultura del lavoro, per qualche decennio, finché dura e poi…
E poi, dove credono di andare a sfruttare la gente: su Marte?
Ma intanto hanno ragione loro e io, che so fare questo lavoro, non servo più a niente, sono un esubero, ma guarda che bella carriera! Ho una moglie, che già non lavora da due anni e due figli: sono fregato. È il destino della mia generazione, abbiamo studiato per avere un posto sicuro, ci hanno tolto la sedia da sotto il sedere e adesso abbiamo tutti il culo per terra.
Giorgio al freddo con i suoi compagni pensa a tutto questo e sa che non c’è niente da fare, il mercato non è una società di pubblica assistenza. Sa anche che gli imprenditori non ci sono più. Ci sono solo gli investitori e gli azionisti e se sei nella casella giusta, buon per te, altrimenti crepa.
Giorgio per giunta sa che non potrà avere neanche tanti aiuti dall’assistenza sociale, perché lui per loro è un ricco, che il suo povero papà, morto di quel brutto tumore alla pleura, che si è preso nella azienda elettrica dove lavorava, l’alloggio gliel’ha lasciato. Tre camere e cucina, dove, adesso, ci vive anche la mamma. Lui però è proprietario e quindi è fregato: niente tariffe agevolate, niente aiuti. Il servizio sociale si è visto tagliare i fondi già da tre anni e quindi che cosa si può sperare.
Siamo tutti nella stessa barca e io le capisco, le assistenti sociali.
Il ritorno
Ciao ragazzi, vado a casa, mia moglie è da sola con i bambini. Vado a tenerle un po’ di compagnia; ci vediamo presto.
Ciao Giorgio, vuoi ancora l’ultimo?
Il vino è forte, forse un po’ aspro. Giorgio, dopo il primo sorso, alza il bicchiere e dice: “Al nostro futuro, ragazzi. Auguri a tutti, non prendete freddo…” Poi con un gesto solo lo scola, appallottola la plastica e la getta nel fuoco.
A passo lento si allontana per le strade buie, qualche fiocco di neve comincia a cadere.
Certo che dovrei incominciare a pensare a trovare qualche cosa, così, solo per prudenza, se non ci rinnovano la cassa integrazione, tra due mesi è finita.
Non credo che si vedrà nessuno a comprare la fabbrica. A chi conviene? Ci vorrebbe qualcuno di qui, che coinvolga gli operai. Qualcuno che cerchi una nuova strada, dove tutti siamo responsabili nel lavoro, nei profitti, nei guai e nei successi. Mio padre me lo diceva sempre smettila di sognare, i padroni sono padroni e gli operai sono operai. Non si possono mettere insieme; se qualche volta è successo, ci hanno pensato gli altri padroni a raddrizzare le teste bislacche del loro ambiente.
Hai ragione tu papà, devo pensare a mia moglie e ai miei figli. La rivoluzione l’hanno già fatta tante volte e non abbiamo ottenuto mai niente, se non che è cambiato il padrone.
Giorgio fa il giro lungo. Cammina per le strade silenziose. Chi vuoi che stia fuori con questo freddo. Non ha nessuna voglia di andare a casa. Che cosa dice a sua moglie ? Che ha capito, che non c’è più niente da fare? Che di presidi è ormai piena tutta l’Italia, dal Nord al Sud.
E qui dicono che sono i terroni, i negri, i rumeni e Roma ladrona, che ci rubano il pane; e laggiù dicono che sono i padroni del Nord, che rubano i soldi pubblici e poi scappano con la cassa.
La realtà è un’altra: è che i padroni, quelli veri, non li vede più nessuno. Sono nei loro begli uffici e giocano a Risiko con le nostre vite.
Tanto non ci vedono mica morire di disperazione e di fame.
Magari passo da Michele a bere ancora un bicchiere, così mi tiro un po’ su prima di andare a casa.
Sono le undici quando arriva all’alloggio nel vecchio palazzo operaio degli anni ’30.
La testa gli gira e si vergogna di essere in quello stato.
Non ha mai bevuto tanto, solo così, per dimenticare.
Dimenticare che cosa? Che è un buono a nulla? Che non avrà più un lavoro? Che l’hanno fregato, come tutti i suoi compagni? Che passerà da un lavoro fisso e sicuro a quelle, come le chiamano, agenzie interinali, a quei lavori a progetto. Che ti chiamano quando c’è bisogno e che speculano sul tuo lavoro e che non puoi dire nulla, pretendere nulla, chiedere nulla. Non sei più nessuno, solo una insignificante necessità del Mercato. E questo se va bene, altrimenti niente. Il Nulla: il Bar, il Superenalotto, i soldi della moglie, che fa le ore in nero, i lavoretti insignificanti per qualche euro…
Che cretino sono stato a bere tanto. Ho anche voglia di vomitare.
Ciao Sofia.
I bambini, per fortuna, sono a dormire e la mamma è rimasta da sua cugina.
Meglio.
Non mi dire niente. È colpa mia, stasera ero un po’ troppo triste e allora ho bevuto, sono uno stupido, ma tu non ti preoccupare, adesso vado a vomitare e con due buoni caffè mi rimetto.
Non mi succederà più.
E no, Madonna. Non ci sto proprio …Meglio vomitare e ricominciare a pensare.
Dopo il secondo caffè, con in bocca un sapore orribile, riesce a guardare in faccia sua moglie e a dirle che ormai ha capito: la fabbrica chiuderà e li licenzieranno tutti, ma lui non vuole stare a guardare. Se il mondo cambia, cambierà anche lui.
No, sta tranquilla, niente Brigate Rosse, non sparo a nessuno, non serve a noi e ai nostri figli.
Non ci sarà più la catena, le cose che lui ha sempre fatto e saputo fare, lo stipendio al 27, gli scatti, lo straordinario. Raccoglieranno quello che hanno e studieranno insieme che cosa devono fare e poi c’è anche la mamma, che forse può dare una mano.
Vedrai Sofia, vedrai, dice Giorgio, mentre si lascia andare, vestito, sul letto e gli sembra che la testa sia piena di quel fumo troppo denso, che usciva dal fuoco del presidio.
La gita
A due mesi da quella notte la fabbrica ha definitivamente chiuso.
Sono passati altri mesi, Giorgio ha letto mille annunci, si è presentato in centinaia di posti, ha contattato decine di agenzie interinali.
Passa il tempo a guardare su internet in una confusione che cresce.
E’ arrivato Luigi, che va ancora al circolo, ma non si espone più tanto.
C’è anche sua moglie Giulia, anche lei è stata licenziata e fa la badante in nero. Per fortuna qui da noi non ci sono ancora tante rumene.
Anche Luigi cerca lavoro e non lo trova: chi glielo dà qui, che lo conoscono tutti!
Lui, però, ha sempre voglia di scappar via, di fare qualche cosa per divertirsi, per non pensare.
Sofia, dai, andiamo in montagna domani, ci facciamo i panini e portiamo il vino buono che mi ha regalato mio cugino da Montiglio. I bambini potranno giocare, diglielo anche tu a quell’orso di Giorgio, non si può mica stare tutto il tempo al computer, a cercare che cosa, poi, la manna ? Nessuno ti regala niente e in rete non succedono i miracoli.
Giorgio si lascia tirare.
Ma sì almeno i bambini corrono un po’, stanno all’aperto e respirano aria buona.
Che se andiamo avanti così, solo l’aria gli posso comprare…
Come è strana la luce, c’è tanta luce, c’è silenzio e nello stesso tempo un rumore, che non è rumore: è un suono, è acqua, è vento. Si vedono le montagne, i boschi, i prati.
E’ proprio un bel posto. Non c’è nessuno, si vedono poco lontane alcune case grandi. Accidenti come sono grandi. Molte sono diroccate: tetti sfondati, grandi travi oblique verso il cielo, mura sbreccate, finestre senza vetri e grandi camini diritti, che sembrano sostenere loro tutto quello che resta.
Altre le hanno riparate alla buona.
Una è a posto, solida, austera e nello stesso tempo allegra, che sembra che il tempo non sia passato e chissà quanto ne è passato.
Giorgio è in piedi con le braccia lungo il corpo, gira lentamente su se stesso: guarda.
Dio quanto spazio, quanta terra, chissà come era dura la vita qui, certo che sono scappati tutti. Chissà quanto nevica di inverno…
E le scuole? Ci saranno ancora le scuole? Ma perché penso alle scuole?…
I bambini corrono, gridano, ridono, è comparso un cagnone fulvo, pacioccone, che gioca con loro.
Le ragazze chiacchierano fitto, fitto. Guardano i bambini, sono tranquille, il cane non fa paura.
Luigi si è arrampicato su un gobbone erboso, che spunta da ammassi di pietre disposte a intervalli regolari nell’erba.
Chissà chi li avrà messi lì?
Guarda il paese, non si muove, non si volta verso di lui quando lo chiama.
Chissà quanto riusciamo a metter insieme vendendo l’alloggio ? e per fare che cosa ? Che cosa so fare io ? Le mani le so muovere, posso imparare, non sono mica scemo ! Si tratta di capire se qui c’è qualcuno, se qui c’è bisogno di fare qualcosa…
Basta con queste stupidaggini, devo smetterla di sognare, me lo diceva sempre mio padre.
Appena torniamo mi rimetto al computer e vedi se qualcosa non salta fuori e poi posso sempre andare all’agenzia…
Certo, avevo letto che in montagna si può mettere su qualcosa con la cura del territorio e poi c’è il turismo, di qualcuno che si occupi di ‘sti turisti ci sarà pure bisogno, si potrebbero allevare le pecore, coltivare.
No, qui non cresce niente…
Ma come faccio a far tutto da solo… e poi Sofia, Sofia mi prende per pazzo…
Cammina piano verso il gobbone, verso Luigi… Che cosa guarda?
Le ragazze più in basso parlano fitto, i bambini corrono, sembrano felici, il cane abbaia, con un vocione bonario.
Luigi, sei diventato sordo, ti ho chiamato. Luigi!
Lo tocca…
Giorgio, porca vacca, mi hai spaventato.
Come ti ho spaventato, è un’ora che grido… che c’hai?
Niente. Niente, guardavo. Guardavo quel cartello.
Sulla prima casa, quella che sembra li da sempre, poco fuori dalle altre, salta agli occhi un cartello, scritto grosso, con la biacca: “ Affittasi casa, per lunghi periodi, con terreno”
E allora?
Niente, pensieri stupidi, da ragazzi, ma io non sono più un ragazzo…
Le ragazze si sono alzate, i bambini corrono, gridano. Intorno il sole è caldo, ci sono tanti fiori e poi c’è quel rumore, che non è un rumore. È un suono: è vento, è acqua.
Ragazzi, gridano Sofia e Luisa, venite giù: ci è venuta un’idea…