Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2013 “Distacco” di Dana Carmignani

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2013

Spianate 21 ottobre 2001

Siamo ancora vicino ai morti e stamane ho sognato mia sorella. Un sogno strano e tormentato che mi ha fatto alzare presto…e scrivere.
Di che poi? Mi sembra di non aver più niente da dire.
Ieri dopo cinque anni dalla sua morte ho capito che potevo stare finalmente in camera sua.
Quella camera è rimasta smontata e chiusa fino ad ora. Non riuscivo neanche ad entrarci in quella camera. La visione di quanto avevo visto quella mattina mi ossessionava.
Non ne avevo paura, solo quell’immagine mi seguiva ovunque…e mi segue ancora ovunque.
Un’altra immagine che mi segue ovunque è quella dell’ultima volta che l’ho vista viva.
La sera prima quando sono tornata a casa avevo freddo. Lei stava bevendo del latte caldo e come si fa di solito senza pensare aveva sfiorato le mie ginnocchia gelate, per constatare ridendo, la verità che dicevo e che può sembrare strano d’agosto.
La sua mano calda sul mio ginocchio è l’ultima sensazione viva che ho di lei. Un tocco particolare, quasi neanche fosse proprio un saluto, un addio.
Dopo solo quelle mani già rattrappite e gelide.
Erano quelle che mi avevano scosso da ciò che anche se vedevo non volevo credere. Erano quelle che mi avevano dato la misura di ciò che stava accadendo realmente.
Mia sorella non dormiva e non si sentiva male.
Mia sorella era morta.
L’avevo trovata così quella mattina. La gattina accucciata fra le sue gambe rannicchiate, in una morte che sembrava ancora un sonno tranquillo.
Anche mia madre le dormiva accanto.
Non si era accorta di niente.
Invece dell’urlo che avrei voluto fare, gliele presi quelle mani già così rigide alla “Tata”.
Gliele presi fra le mie e rassicurai mia madre facendola uscire dalla camera.
Mia madre vuole sempre essere rassicurata.
Forse è vero, forse ad una certa età si scambiano i ruoli e sono i figli che diventano genitori, ma io mi chiedevo se mia madre si rendesse conto di quanto invece avrei avuto bisogno io di essere rassicurata in quel momento. Mi domandavo dopo, nei giorni seguenti se si rendeva conto che di figlie lei ne aveva ancora una.
Questa domanda me la sono in fondo sempre posta, già da quella lontana volta del tavolo me lo domandavo.

Erano venuti a prendermi con la macchina.
Da quando stavo con nonna era la prima volta che andavo a Milano e che viaggiavo in macchina
Fu un viaggio lunghissimo e notturno, o almeno così sembrava a me perché eravamo partiti “già di buio”, come diceva nonna, quando insomma è l’ora di stare in casa.
Mia sorella e il fidanzato furono costretti a fermarsi spesso sulla montagna, perché io vomitavo in continuazione. La macchina mi dava noia e chissà se non mi desse noia anche la situazione in cui ero. Quella partenza improvvisa, il viaggio a Milano per ciò che doveva essere un assaggio della mia vita futura. L’incontro con mia madre che era quasi una sconosciuta per me..
Ora è cosa di tutti i giorni, ma allora viaggiare diventava un’impresa. Non c’erano autostrade. Si dovevano attraversare dei passi, e anche con la macchina, lo spostarsi diventava faticoso.
A me sembrava di andare lontanissimo. Non si arrivava mai. Ma dov’era questo Milano?
Stavo male, l’odore del chiuso mi “faceva venire su l’anima”, come diceva nonna. Ero abituata all’aria aperta. Il massimo delle vetture erano i barrocci e i carri di fieno e non quell’abitacolo stretto che sapeva di plastica.
Arrivai esausta senza capire bene dove mi avessero portato.
Arrivai in un posto luminoso che mi parve strano a quell’ora.
Era il ristorante dove i miei lavoravano.
Abituata alla lucina che nonna teneva la sera sotto il camino, tutta quella luminosità da giorno mi dette fastidio. Scesi dalla macchina ringraziando Dio, feci il percorso che dall’entrata, attraverso una serie di tavoli bianchi portava alla cucina e davanti a mia madre che si asciugava le mani al grembiale dissi “ Ohioi…mi sono strappe tutte le budella…”
Parlavo solamente in toscano, anzi il dialetto arcaico di nonna e di quella vecchia gente che avevo avuto intorno fino ad allora.
Alla luce del giorno dopo mi passò l’effetto tremendo dell’incontro con Milano.
Svegliandomi in quelle stanze in cui non ricordavo di essere nata pensai che non erano tanto distanti da quelle a casa di nonna. Erano grandi e gelide col pavimento a mattoni rossi. Tutte le “case di ringhiera” erano così.
Erano così tutte quelle case vicino alla stazione dove passavamo per andare a prendere il tram. Mia sorella mi portava dentro perché io volevo andare “sulle scale che si muovono” e, seduta ad un tavolino di un bar, mi fece scoprire “il cappuccino”.
“Il caffellatte con la schiuma…?” dissi io davanti la tazza marrone fumante, stringendomi al petto i tesori che inevitabilmente ogni mattina, facendo lo stesso percorso, lei finiva per comprarmi.
Anatre con le ruote e con le caramelle dentro, e fiabe, librini con immagini deliziose. Me li facevo leggere e me li portavo sempre dietro sotto il braccio ovunque andassi.
Si andava semplicemente dalla zona dove i miei avevano avuto il vecchio ristorante, e dove avevano ancora quelle “due stanze” da letto in cui la sera tornavano a dormire, al nuovo posto di lavoro.
Dalla stazione centra erano passati a quella di Lambrate in un ristorante che era anche un albergo. Non tenevano in gestione la parte alberghiera ma avevano l’obbligo delle colazioni, per questo si alzavano prestissimo ed erano costretti ad attraversare la città da una parte all’altra, perché il nuovo ristorante non prevedeva spazi in cui alloggiare i dipendenti.
Per me il tutto divenne presto un gioco…(mi chiedo cos’è che per me non diventa un gioco). Il passaggio per quel luogo altissimo e pieno di gente…le scale mobili…il cappuccino…il tram… Coi miei libri sotto il braccio che di giorno in giorno aumentavano, arrivavo sorridente ogni mattina con mia sorella, al ristorante, dove mia madre stava già lavorando da un po’.
Per accedere alla cucina c’era un corridoio a scivolo con una porta che si apriva nei due sensi , come quelle dei saloon.
La cucina attrezzatissima era enorme. Dalla cucina si arrivava ad un cortile interno, dove c’era la lavanderia dell’albergo.
Il mio campo giochi giornaliero era là.
Avevo fatto amicizia con due bambine, due sorelle che erano le figlie del proprietario e che nella lavanderia tenevano un’infinità di giocattoli.
Io non avevo mai visto bambole e carrozzine di quel genere e poi lavagne e banchettini con le seggioline di legno, corredi e vestitini, piatti tazzine e arredi di casa in miniature perfette che sembravano gli originali in piccolo. Cavalli a dondolo e teatrini con le marionette.
In un lettino in ferro che somigliava a quello di nonna, con mia grande sorpresa, scoprii una gatta con quattro gattini.
IMPAZZII!!!
Quelle bambine di città non avevano dimestichezza con gli animali. Ne avevano paura e mi guardavano con stupore quando rimaneggiavo chiacchierando con le bestiole e con la madre. Mi guardavano con stupore anche perché non capivano niente di quello che dicevo, e più non capivano, più io, in toscano, mi arrabbiavo… “Un capiscan nullaaa…!”-dicevo alterata a mia madre o a mia sorella che arrivavano ad arginare gli alterchi che inevitabilmente finivano per esserci fra noi.
Visto che non andavo ancora a scuola, mi sembrava “normale” fare la maestra. La logica era che siccome io non sapevo leggere né scrivere, non potevamo giocare se le scolare non le facevano loro….e così quando una cameriera dell’albergo disse a mia madre… “Venga a vedere cosa fa sua figlia…”…lei mi trovò alla lavagna con una bacchetta in mano e un paio di vecchi occhiali sul naso che “insegnavo” a due scolare diligenti che facevano già la seconda elementare.
Questa sottomissione era data un po’ dalla mia fantasia e dall’estrosità che finivano sicuramente per affascinarle e un po’ da quel particolare rapporto che si crea sempre fra i popoli più evoluti e i barbari.
Io venivo da un paese diverso, parlavo una lingua diversa, e, anche se non ero vestita di pelli di animale, avevo una dote che con la raffinata educazione, loro avevano perso; ero determinata!
Il rapporto che instaurai con quei gatti fecero di me una domatrice di leoni e le bimbe restavano per ore a bocca aperta ad ascoltare “nella mia lingua” storie improbabili di streghe e boschi del mio “popolo contadino”, che raccontavo con calore e ricchezza di particolari. Ai loro occhi forse questa cultura sembrava meglio della loro, perché facevano tutto ciò che volevo e mi seguivano come canini.
Nevicò.
Una mattina trovammo il cortile imbiancato. Era il periodo di carnevale e Margherita, così di chiamava la più grande, aveva un bellissimo vestito da fatina azzurro e pieno di veli. Tanto lei che Patrizia,l’altra sorella, non volevano uscire mai. Faticavo a portarle fuori. Al freddo non erano abituate, avevano paura di una goccia d’acqua. Figuriamoci della neve!
In mezzo al cortile, mentre volteggiavo fra i fiocchi che cadevano e pesticciavo quella già in terra, le vedevo far capolino dalla porta. Loro si guardavano e tutt’e due guardavano me. Non volevano attraversare il cortile per paura di bagnarsi. Io avevo un ombrellino di carta di quelli cinesi. Le convinsi che le avrebbe riparate da tutti i mostri che nella traversata potevano colpirci e persino dalla neve stessa. Me le misi sotto braccio e partimmo alla volta del ristorante.
Fu l’unica volta che non funzionò. Noi arrivammo sane e salve, ma giunte a destinazione l’ombrellino si afflosciò come un cencio..
Io bisticciai con mia sorella. Ero convinta che con “quell’altro” avrebbe funzionato.
Quella mattina era successo un fatto.
Con mia sorella ero andata in un grande mercato di verdure. Ad un banchetto una bambina mi squadrò. Io squadrai lei. Come due pistoleri che si sfidano ci guardavamo una dirimpetto all’altra. Poi lei voltò lo sguardo e lo posò sull’ombrellino di carta che tenevo al braccio. Era bello, forte e robusto. La “Tata” me lo aveva comprato quella mattina per “farmi” un po’ di carnevale, io ne avevo già fatto il mio scudo, il mio paracadute, il guscio di protezione verso le avversità del mondo.
Mi accorsi che la bambina lo guardava…ma se ne accorse anche mia sorella.
“Daglielo-mi diceva- io poi a te te lo ricompro…”
Chissà perché quelli che hanno poco elargiscono sempre tanto. Era l’unica cosa che avevo e ci tenevo, perché mai dovevo darlo ad una sconosciuta?
La differenza fra me e mia sorella, oltre all’età, si vedeva già da lì. La sua generosità mi faceva sentire sempre egoista e cattiva.
A malincuore cedetti l’ombrellino alla bimba e, come promesso, mia sorella me ne acquistò un altro, che secondo me però non aveva le caratteristiche del primo.
Non avrei più avuto un ombrello come quello!!
Così quando sotto la neve, il nuovo non resse, io mi convinsi ancor di più che invece il precedente l’avrebbe fatto.
“Te lo avevo detto io!”-dicevo a mia sorella con i resti dell’ombrellino penzoloni. Era inutile che mi parlassero di carta e di neve…non mi convinsero mai!
Fu quella la volta del tavolo.
Io stavo vivendo in un mondo che non mi apparteneva…e lo sapevo.
Sapevo che il mio mondo era con nonna, e stando con lei, avevo già imparato ad essere distaccata dalle cose.
Distaccata per forza dalle cose che amavo e dalle persone, altrimenti la sofferenza sarebbe stata dopo troppo grande.
Avevo anche imparato a riflettere sulle emozioni.
Nonna mi aveva insegnato che qualsiasi esaltazione è sbagliata in bene e in male.
“Non si muore solo per un grande dispiacere-mi diceva spesso- si può morire anche per una grande gioia”…e mi raccontava la storia di quella donnina che morì per la felicità di veder nascere un vitellino.
Io dosavo le mie emozioni e cercavo di viverle equilibratamente.
A volte osservavo mia madre di nascosto, come quando da sopra la scala osservavo nonna che faceva il pane. Non sapevo come comportarmi con lei.
Nonna diceva di non eccedere nelle cose, non di non viverle, e trasmetteva con trasporto quello che sentiva. Mia madre no. Non si capiva. O forse non la capivo io. Aveva una dolcezza infinita che traspariva anche da come metteva il sale nella minestra e avevi sempre paura di comportarti in modo che le facesse male. Io la vedevo come qualcosa di distante a cui non riuscivo ad arrivare.
Il nostro distacco aveva creato una frattura, e ,come quei gattini che togli precocemente alla gatta ,io, stando con nonna, avevo ormai imparato nuovi modelli di comportamento e anche se sentivo per lei tutto quell’amore, non riuscivo a viverlo o ad esprimerlo.

Spianate 23 novembre 2001
Chissà se mia madre provava lo stesso struggimento che provavo io? E quanto anche lei avrà sofferto per la morte di sua madre.?
Mia madre era orfana. La nonna Fine morì quando lei aveva dodici anni.
Se le figlie sono condizionate dalle madri, se io lo sono stata per la mia, chissà quanto mia madre lo sarà stata per la sua. Questa donna che si allettò e morì prematuramente. Ancora adesso lei, fedele a se stessa e al suo carattere schivo, te lo racconta così con poche parole. Sono io che mi immagino il tormento del suo cuore per questa donna malata, che vedi spegnersi ogni giorno di più fino all’esaurimento. Non posso nemmeno pensarci. All’idea mi sento male e soffro per lei o come penso abbia sofferto lei senza dirlo.
Nonna lo diceva.
Le tremava la bazza e le venivano ancora i lucciconi, quando mi raccontava di cose lontanissime…la sofferenza che aveva provato il giorno della prima Comunione perché lei era vestita con un vestito blu di lana…i genitori non avevano soldi da scialare per un abito bianco….”E io piangevo…- diceva-…piangevo…ho fatto tutta la processione piangendo”.
Raccontava i dettagli e descriveva la scena, tracciava le parti come se si trattasse di una commedia.
“E allora lui disse “Giulia vi posso accompagnare”…(era l’incontro con nonno)…e io dissi “Si”…poi per la via mentre si tornava dal vespro arrivò quell’altro…(era un corteggiatore di nonna che non era serio)…e disse a nonno…”Arturo scansati che ho da parlà con Giulia”…”Me lo deve dire lei –disse nonno- sennò io non mi sposto””
Giulia fece aspettare Arturo un attimo e liquidò l’intruso “Non potete vantare nessuna pretesa su di me – disse –non avete nessun diritto e io fo’ come mi pare!” Poi “Buongiorno” – ribadì altera e si riavviò con Arturo.
Si innamorarono.
E io me li vedo con i vestiti scuri . Il cappello in mano lui, lei con quella particolare pettinatura dell’epoca tonda e gonfia, con la gonna lunga e la camicetta abbottonata fino al collo, che camminano per i viottoli chiacchierando e dandosi del voi.
“Sa…era di poche parole nonno…quando aveva detto…aveva detto!”
Si sposarono velocemente perché lui andando soldato aveva paura che lei trovasse qualcun altro. E infatti lei era stata un po’ allettata da un “signorino” che veniva in casa.
Giulia, Amelia e Argia erano tre sorelle in età da marito, era evidente che in casa di nonno Cherubo e nonna Rosa ci fosse la processione. Ma nonno Arturo tornò con le idee chiare… “Me lo sentii battere all’uscio di notte e mi disse… “Giulia voglio una risposta…ti do tre giorni di tempo…o mi sposi o è finita O o è si o è no!”..”
Lei, come per la Comunione pianse tre giorni. La decisione era dura, come dura sapeva che sarebbe stata la vita con lui a differenza di quella, che come avevano fatto le sorelle, lei avrebbe avuto sposando un uomo più benestante e alla quale le sorelle la spingevano.
Ma quando Arturo tornò, sempre di notte, lei disse si a lui e a tutto quello che ciò significava e dopo solo il noce sotto il quale andarono sa cosa si dissero…e cosa fecero, perché lei, ghignando non me lo ha mai raccontato.

Quel febbraio del tavolo tornai da questa donna.
Lasciai mia madre e il suo mondo, per un mondo che come lei, come mia nonna, sapevo che era quello destinato a me. Ne ero così consapevole che mi sembrava del tutto normale.
Tornai in treno con mia sorella.
Arrivammo la sera.
Tornai carica di tutte le emozioni possibili, di tutto ciò che avevo visto di diverso e di nuovo.
Tornai carica di una valigia piena dei miei tesori.
La aprii davanti a nonna. Lei era seduta nel suo cantuccio. La solita lucina accesa sotto il camino, la gamba tirata su.
“Ti fa male nonna?”…sapevo che il suo male alle gambe la tormentava spesso…le dissi mentre tiravo fuori i libri di fiabe, e le ochette, l’orso gonfiabile, le caramelle, i chicchi.
Spargevo tutto sul pavimento in esibizione.
La cucina mi pareva enormemente spoglia e lunga…ma LEI era là…e ci sarebbe sempre stata!

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